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Con Cristo
misurate le cose
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Con Cristo
misurate le cose
Archivio luce sul mistero (242)
Non sia turbato il vostro cuore, abbiate fiducia. Sono le parole primarie del nostro rapporto con Dio e con la vita, quelle che devono venirci incontro appena aperti gli occhi, ogni mattina: scacciare la paura, avere fiducia. Avere fiducia (negli altri, nel mondo, nel futuro) è atto umano, umanissimo, vitale, che tende alla vita. Senza la fiducia non si può essere umani. Senza la fede in qualcuno non è possibile vivere. Io vivo perché mi fido. In questo atto umano la fede in Dio respira. Abbiate fede in me, io sono la via la verità e la vita. Tre parole immense. Che nessuna spiegazione può esaurire. Io sono la via: la strada per arrivare a casa, a Dio, al cuore, agli altri. Sono la strada: davanti non si erge un muro o uno sbarramento, ma orizzonti aperti e una meta. Sono la strada che non si smarrisce. Shakespeare scrive «la vita è una favola sciocca recitata da un idiota sulla scena, piena di rumore e di furore, ma che non significa nulla». Con Gesù la favola senza senso diventa la storia più ambiziosa del mondo, il sogno più grandioso mai sognato, la conquista di amore e libertà, di bellezza e di comunione: con Dio, con il cosmo con l'uomo. Io sono la verità: non in una dottrina, in un libro, in una legge migliori delle altre, ma in un «io» sta la verità, in una vita, nella vita di Gesù, venuto a mostrarci il vero volto dell'uomo e di Dio. Il cristianesimo non è un sistema di pensiero o di riti, ma una storia e una vita (F. Mauriac). Io sono: verità disarmata è il suo muoversi libero, regale e amorevole tra le creature. Mai arrogante. La tenerezza invece, questa sorella della verità. La verità sono occhi e mani che ardono! (Ch. Bobin). Così è Gesù: accende occhi e mani. Io sono la vita. Che hai a che fare con me, Gesù di Nazareth? La risposta è una pretesa perfino eccessiva, perfino sconcertante: io faccio vivere. Parole enormi, davanti alle quali provo una vertigine. La mia vita si spiega con la vita di Dio. Nella mia esistenza più Dio equivale a più io . Più Vangelo entra nella mia vita più io sono vivo. Nel cuore, nella mente, nel corpo. E si oppone alla pulsione di morte, alla distruttività che nutriamo dentro di noi con le nostre paure, alla sterilità di una vita inutile. Infine interviene Filippo: «Mostraci il Padre, e ci basta». È bello che gli apostoli chiedano, che vogliano capire, come noi. Filippo, chi ha visto me ha visto il Padre. Guardi Gesù, guardi come vive, come ama, come accoglie, come muore, e capisci Dio e la vita.
l buon pastore chiama le sue pecore, ciascuna per nome. Non l'anonimato del gregge, ma nella sua bocca il mio nome proprio, il nome dell'affetto, dell'unicità, dell'intimità, pronunciato come nessun altro sa fare. Sa che il mio nome è «creatura che ha bisogno». Ad esso lui sa e vuole rispondere. E le conduce fuori. Il nostro non è un Dio dei recinti chiusi ma degli spazi aperti, pastore di libertà e di fiducia. E cammina davanti ad esse. Non un pastore di retroguardie, ma una guida che apre cammini e inventa strade, è davanti e non alle spalle. Non un pastore che pungola, incalza, rimprovera per farsi seguire ma uno che precede, e seduce con il suo andare, affascina con il suo esempio: pastore di futuro. Io sono la porta, Cristo è passaggio, apertura, porta spalancata che si apre sulla terra dell'amore leale, più forte della morte ( chi entra attraverso di me si troverà in salvo); più forte di tutte le prigioni ( potrà entrare e uscire), dove si placa tutta la fame e la sete della storia ( troverà pascolo). E poi la conclusione: Sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza . Non solo la vita necessaria, non solo la vita indispensabile, non solo quel respiro, quel minimo senza il quale la vita non è vita, ma la vita esuberante, magnifica, eccessiva, vita che dirompe gli argini e sconfina, uno scialo di vita. Così è nella Bibbia: manna non per un giorno ma per quarant'anni nel deserto, pane per cinquemila persone, carezza per i bambini, pelle di primavera per dieci lebbrosi, pietra rotolata via per Lazzaro, cento fratelli per chi ha lasciato la casa, perdono per settanta volte sette, vaso di nardo per 300 denari sui piedi di Gesù In una piccola parola è sintetizzato ciò che oppone Gesù, il pastore vero, a tuti gli altri, ciò che rende incompatibili il pastore e il ladro. La parola immensa e breve è «vita». Cuore del Vangelo. Parola indimenticabile. Vocazione di Dio e vocazione dell'uomo. «Non ci interessa un divino che non faccia anche fiorire l'umano. Un Dio cui non corrisponda il rigoglio dell'umano non merita che ad esso ci dedichiamo» (Bonhoeffer). Pienezza dell'umano è il divino in noi, diventare figli di Dio: i quali non da sangue, non da carne, ma da Dio sono nati (cfr. Gv 1,13 ). Diventare consapevoli di ciò che già siamo, figli, e non c'è parola che abbia più vita dentro; realizzarlo in pienezza. E questo significa diventare anch'io pastore di vita per il piccolo, per il pur minimo gregge (la mia famiglia, la mia comunità, gli amici, cento persone con nome e volto) che Lui ha affidato alle mie cure. Vocazione di Cristo e dell'uomo è di essere nella vita datori di vita.
Il Vangelo di Emmaus si snoda, come una grande liturgia, in tre momenti: la liturgia della strada, della parola e del pane. La liturgia della strada. Emmaus dista da Gerusalemme due ore di cammino, due ore trascorse a parlare di quel sogno in cui avevano tanto sperato, un sogno naufragato nel sangue. Camminano, benedetti dal salmo 84 dice: beato l'uomo che ha sentieri nel cuore. Che ha il coraggio di mettersi in cammino. Anche la fede è un perpetuo camminare, perché Dio stesso è una vetta mai conquistata, e l'infinito ci attende all'angolo di ogni strada. Pasqua è voce del verbo pèsach, passare. Fa pasqua chi fabbrica passaggi dove ci sono muri e sbarramenti, chi apre brecce, chi inventa strade che ci portino gli uni verso gli altri e insieme verso Dio. Ed ecco Gesù si avvicinò e camminava con loro. Un Dio sparpagliato per tutte le strade, un Dio vestito di umanità ( Turoldo), un Dio delle strade, continuamente in cerca di noi. La liturgia della parola. Spiegava loro le scritture, mostrando che il Cristo doveva patire: la sublime follia della Croce è la parola definitiva che ogni cristiano deve custodire, trasmettere, scrutare, capire, pregare. Gesù fa comprendere che la Croce non è un incidente ma la pienezza dell'amore, che cambia la comprensione di Dio e della vita. I due camminatori scoprono una verità immensa. C'è la mano di Dio posata là dove sembra impossibile, proprio là dove sembrava assurdo: sulla croce. Così nascosta da sembrare assente, mentre invece sta tessendo il filo d'oro della tela del mondo. Non dimentichiamolo: più la mano di Dio è nascosta più è potente. La liturgia del pane. Resta con noi, perché si fa sera. Ed egli rimase con loro. Da allora Cristo entra sempre, se soltanto lo desidero. Rimane con me e mi trasforma, cambiandomi tre cose, il cuore, gli occhi, il cammino. La Parola ha acceso il cuore, il pane apre gli occhi dei discepoli: Lo riconobbero allo spezzare del pane. Il segno di riconoscimento di Gesù è il suo Corpo spezzato, vita consegnata per nutrire la vita. La vita di Gesù è stata un continuo appassionato consegnarsi. Fino alla croce. Infine la parola e il pane cambiano il cammino, la direzione, il senso: Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme. Ma il primo miracolo è stato un altro: non ci bruciava forse il cuore mentre per via ci spiegava il senso delle Scritture e della vita? Efrem Siro presta a Gesù queste parole: chi mangia me, mangia il fuoco! Ricevere Cristo è essere abitati da un calore, da una fiamma, dal dono intermittente, forse, ma favoloso, del cuore acceso.
«Se non vedo, se non tocco, se non metto la mano non credo!». Tommaso vuole delle garanzie, ed ha ragione, perché se Gesù è vivo, cambia tutto. Tommaso sperimenta la fatica di credere, come noi. Eppure in nessuna parte del Vangelo è detto che la fede senza dubbi, granitica, sia più sicura e affidabile della fede intrecciata alle domande (anzi la prima parola di Maria non è un «sì», è invece una domanda... come è possibile che io diventi madre? Non esiste fede esente da domande e da dubbi. Tommaso però, pur dissentendo dagli altri apostoli, non abbandona il gruppo, rimane e il gruppo, a sua volta, non lo esclude. Modello per le nostre assemblee: quando i dubbi sorgono, quando situazioni difficili o errori della comunità ti scoraggiano, non andartene, non isolarti, non sentirti escluso, resta all'interno della comunità. Non stancarti di porre le tue domande: qualcuno, custode della luce, ti porterà la risposta. Otto giorni dopo venne Gesù... Mi conforta pensare che se trova chiuso, Gesù non se ne va; se tardo ad aprire, otto giorni dopo è ancora lì. Venne Gesù... e disse a Tommaso. Gesù viene, non per essere acclamato dai dieci che credono, ma per andare in cerca proprio dell'agnello smarrito, lascia i dieci al sicuro e si dirige verso colui che dubita: Metti qua il tuo dito, stendi la tua mano, tocca! A Tommaso basta quel gesto. Colui che tende le mani verso di te, voce che non ti giudica ma ti incoraggia e ti chiama, corpo offerto ai dubbi dei suoi amici, è Gesù. Non ti puoi sbagliare! C'è un foro nelle sue mani, c'è un colpo di lancia nel suo fianco, sono i segni dell'amore, che Gesù non nasconde, anzi, quasi esibisce: il foro dei chiodi, toccalo; lo squarcio nel costato, puoi entrarci con una mano; piaghe che non ci saremmo aspettati, pensavamo che la Risurrezione avrebbe rimarginato per sempre le ferite del venerdì santo. E invece no. L'amore ha scritto il suo racconto sul corpo di Gesù con l'alfabeto delle ferite. Indelebili ormai, proprio come l'amore. Ma dalle piaghe aperte non sgorga più sangue, bensì luce e misericordia. E nella mano di Tommaso, che trema, ci sono tutte le nostre mani. Tommaso passa dall'incredulità all'estasi: Mio Signore, mio Dio. Mio come lo è il respiro e, senza, non vivrei. Mio come lo è il cuore e, senza, non sarei. La vitalità di Dio mi è compagna, l'avverto, energia che sale, si dilata dentro, dà appuntamenti, mette gemme di luce, mi offre due mani piagate perché ci riposi e riprenda fiato e coraggio. E dico a me stesso: Io appartengo a un Dio vivo, non a un Dio compianto. E questa parola mi è di dolce, fortissima compagnia. Io appartengo a un Dio vivo!
Ciò che ci fa credere è la croce. Ma ciò in cui crediamo è la vittoria della croce (Pascal): la vittoria sulla morte e sulla violenza. Cristo risorto, eternamente risorgente in me e in ogni cosa, apre l'immensa migrazione degli uomini verso la vita. L'esistenza non scivola ineluttabilmente come su di un piano inclinato verso la morte, ma all'incontrario si dirige instancabilmente da morte a vita.
Maria di Magdala esce di casa quando è ancora notte, buio in cielo, buio nel cuore. Notte dell'Incarnazione, in cui il Verbo si fa carne. Notte della Risurrezione in cui la carne indossa l'eternità. Così respira la fede, da una notte all'altra. Pasqua ci invita a mettere il nostro respiro in sintonia con quell'immenso soffio che unisce incessantemente l'istante e l'eterno, il visibile e l'invisibile, la nostra povertà e la ricchezza di Dio. Non ha niente tra le mani, ha soltanto la sua vita risorta: da lei Gesù aveva cacciato sette demoni, cioè la totalità del male. E una attesa ardente, come la sposa del Cantico: lungo la notte cerco l'amato del mio cuore.
Maria si ribella all'assenza di Gesù: «amare è dire: tu non morirai!» (Gabriel Marcel). Non a caso chi si reca alla tomba in quell'alba è chi ha avuto più forte esperienza dell'amore di Gesù: le donne, Maddalena, il discepolo amato. E vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Il sepolcro è spalancato, vuoto e risplendente nel fresco dell'alba, aperto come il guscio di un seme. E fuori è primavera. Qualcosa si muove in Maria: un'ansia, un fremito, un'urgenza che cambiano di colpo il ritmo del racconto.
Corse allora... Può correre ora perché sta nascendo il giorno, deve correre perché è il parto di un universo nuovo, le doglie della vita. Il mondo è un immenso pianto (Dio naviga in un fiume di lacrime, scrive Turoldo) ma a Pasqua diventa un immenso parto. Di vita, di futuro, di speranza, di nuovi orizzonti, di lacrime asciugate.
Corre da Pietro e dal discepolo amato: «correvano insieme tutti e due...». Perché tutti corrono nel mattino di Pasqua? Corrono, sospinti da un cuore in tumulto, perché l'amore ha sempre fretta, non sopporta indugi, la vita ha fretta di rotolare via i macigni che la bloccano. Chi ama è sempre in ritardo sulla fame di abbracci.
L'altro discepolo, quello che Gesù amava, corse più veloce. Giovanni arriva per primo al sepolcro, arriva per primo a capire il significato della risurrezione, e a credere in essa. Chi ama o è amato capisce di più, capisce prima, capisce più a fondo. Il discepolo amato ha intelletto d'amore (Dante), ha l'intelligenza del cuore. Intuisce che un amore come quello di Gesù non può essere annullato dalla morte, che tutto ciò che anche noi vivremo e faremo nell'amore non andrà perduto, non sarà vinto da nulla.
In questa settimana per due volte la Chiesa si raccoglie nella lettura della Passione di Cristo, del patire di un Dio appassionato. La lettura più bella e regale che si possa fare, dove tutto ruota attorno alle due cose che toccano il nervo di ogni vita: l'amore e il dolore, la lingua universale dell'uomo. Lo ha capito per primo, sul Calvario, non un discepolo, ma un estraneo. Alla morte di Gesù, infatti il primo atto di fede è quello di un lontano, un centurione pagano: davvero costui era figlio di Dio. Non da un sepolcro che si apre, non dallo sfolgorio di luce, di giorni nuovi, di un sole mai visto, no, ma davanti e dentro la tenebra del venerdì, vedendolo sulla croce, sul patibolo, sul trono dell'infamia, un verme nel vento, questo soldato esperto di morte dice: era figlio di Dio. Morire così è rivelazione. Morire d'amore è cosa da Dio. Il nostro Dio è differente. Perché è salito sulla croce? Per essere con me e come me. Perché io possa essere con lui e come lui. Essere in croce è ciò che Dio, nel suo amore, deve all'uomo che è in croce. L'amore conosce molti doveri, ma il primo di questi doveri è di essere insieme con l'amato, come una mamma quando il figlio sta male... e vorrebbe prendere su di sé il male del suo bambino, ammalarsi lei per guarire suo figlio. Dio entra nella morte perché là va ogni suo figlio. Per trascinarlo fuori, in alto, con sé. La croce è l'abisso dove Dio diviene l'amante. È qualcosa che mi stordisce: un Dio che mi ha lavato i piedi e non gli è bastato, che ha dato il suo corpo da mangiare e non gli è bastato. Lo vedo pendere nudo e disonorato, e devo distogliere lo sguardo. Poi giro ancora la testa e riguardo la croce e vedo uno a braccia spalancate che mi grida: ti amo. Proprio me? Sanguina e grida, o forse lo sussurra, per non essere invadente: ti amo. C'erano là molte donne che stavano ad osservare da lontano. Piccolo gregge sgomento e coraggioso: la chiesa nasce dalla contemplazione del volto del Dio crocifisso (C.M.Martini), la chiesa nasce in quelle donne, che hanno verso Gesù lo stesso sguardo di amore e di dolore che Dio ha sul mondo. Le prime «pietre viventi» sono donne. Per diventare chiesa, dobbiamo anche noi sostare con queste donne accanto alle infinite croci del mondo dove Cristo è ancora oggi crocifisso nei suoi fratelli, disprezzato, umiliato, ricacciato indietro, naufragato. Con santa Maria e le donne sentiamo nostra la passione di ogni figlio dell'uomo: il mondo è tutto una collina di croci. Restiamo accanto, a portare conforto, speranza, pane, umanità, vita. Solo così sentiremo a Pasqua che «rotola armoniosamente la nostra vita nella mano di Dio» (H. Illesum).
Nella vita degli amici di Gesù irrompono la morte e il miracolo. Se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto. Dolcemente, come si fa con chi amiamo, Marta rimprovera l'amico: va diritta al cuore di Gesù, e Gesù va diritto al cuore delle cose: Tuo fratello risorgerà . E Marta: so che risorgerà nell'ultimo giorno. Ma quel giorno è così lontano dal mio desiderio e dal mio dolore. Marta parla al futuro: So che risorgerà, Gesù parla al presente: Io sono, e incide due parole tra le più importanti del Vangelo: Io sono la risurrezione e la vita. Come alla samaritana è ancora a una donna che Gesù regala parole che sono al centro di tutta la fede: Io ci sono e sono la vita! Sono colui che adesso, qui, fa rinascere e ripartire da tutte le cadute, gli inverni, gli abbandoni. Notiamo la successione delle due parole «Io sono la Risurrezione e la vita». Prima viene la Risurrezione, poi la vita, e non viceversa. Risurrezione è un'esperienza che interessa prima di tutto il nostro presente e non solo il nostro futuro. A risorgere sono chiamati i vivi, noi, prima che i morti: a svegliarci e rialzarci da tutte le vite spente e immobili, addormentate e inutili; a fare cose che rimangano per sempre: Da morti che eravamo ci ha fatti rivivere con Cristo, con lui risuscitati (Efesini 2,5-6). La vita avanza di risurrezione in risurrezione, verso l'uomo nuovo, verso la statura di Cristo, verso la sua misura. O uomo prendi coscienza della tua dignità regale, Dio in te... (Gregorio di Nissa), che ti trasforma, e fa la vita più salda, amorevole, generosa, sorridente, creativa, libera. Eterna. Che rotola armoniosa nelle mani di Dio. Gesù si commosse profondamente e scoppiò in pianto. Dissero allora: guarda come lo amava! Piange e le sue lacrime sono la sua dichiarazione d'amore a Lazzaro e alle sorelle. Dio piange e piange per me: sono io Lazzaro, io sono l'amico, malato e amato, che Gesù non accetta gli sia strappato via. Dalle lacrime di Dio impariamo il cuore di Dio. Il perché della nostra risurrezione sta in questo amore fino al pianto. Risorgiamo adesso, risorgeremo dopo la morte, perché amati. Il vero nemico della morte non è la vita ma l'amore. Forte come la morte è l'amore, dice il Cantico. Ma l'amore di Dio è più forte della morte. Se il nome di Dio è amore, allora il suo nome è anche Risurrezione. Lazzaro, vieni fuori! Liberatelo e lasciatelo andare. Tre parole per risorgere, tre ordini che risuonano per me: esci, liberati e vai. Con passo libero e glorioso, per sentieri nel sole, in un mondo abitato ormai dalla più alta speranza: qualcuno è più forte della morte.
Dentro la luce del giorno cerchiamo tutti un'altra luce, come il cieco dalla nascita che scopre progressivamente la verità di Gesù: è un profeta, è il figlio dell'Uomo, è il Signore. Come lui, abbiamo bisogno di fede visibile e vigorosa, di fede che sia pane, che sia visione nuova delle cose. Gesù, dopo un gesto iniziale carico di simboli e di tenerezza, scompare, lasciando la scena alla dialettica degli altri, tutti a difendersi, ad attaccare, a parlare senza sosta e senza gioia. E nessuno che provi pena per gli occhi vuoti del cieco; nessuno che si entusiasmi per i nuovi occhi illuminati. Gesù non ci sta, non ha nulla da spartire con un mondo fatto di parole e di teorie. Egli è la «compassione», non la spiegazione. Esattamente ciò che cerca la muta speranza del cieco: mani che lo tocchino, e qualcuno che sugli occhi spenti metta qualcosa di proprio, come quella piccola liturgia di mani, di fango, di saliva, di cura, che Gesù celebra. Cerca partecipazione, non spiegazione. Invece i farisei hanno edificato un mondo di parole e di sofismi, che non sa più ascoltare la vita. Come loro anch'io talvolta chiudo l'uomo vivente e dolente dentro la griglia della teoria religiosa o della norma etica. È un mondo cieco, dove coloro che si dicono sapienti non sanno più parlare alla speranza. Burocrati delle regole e analfabeti del cuore. Infatti nelle parole dei farisei il termine più ricorrente è peccato: «noi sappiamo che quest'uomo è un peccatore»; «sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?». Prima ancora i discepoli avevano chiesto: «chi ha peccato? Lui o i suoi genitori?». La loro è una religione immiserita a questioni di peccato. E il peccato è innalzato a teoria che spiega il mondo e interpreta la realtà. E perfino l'agire di Dio. Ma il peccato non è rivelatore, rende ciechi, davanti all'uomo e davanti a Dio. E Gesù capovolge immediatamente questa mentalità: l'uomo non coincide con il suo peccato, ma il bene possibile. E non parlerà di peccato se non per dire che è perdonato; e per assicurare che Dio non spreca la sua eternità in castighi, che non può essere appiattito sul nostro moralismo. Egli è compassione, futuro, approccio ardente, mano viva che tocca il cuore e lo apre, porta luce e fa nascere. Egli vive per me e dalle sue mani la vita fluisce per me, come fiume e come sole, gioiosa, inarrestabile, eterna.
Gesù attraversa il paese dei samaritani, forestiero in mezzo a gente d'altra tradizione e religione, e il suo agire è già messaggio: incontra, parla e ascolta, chiede e offre, instaura un dialogo vero, quello che è «reciproca fecondazione» (R. Panikkar). In questo suo andare libero e fecondo fra gli stranieri, Gesù è maestro di umanità. Lo è con il suo abbattere barriere: la barriera tra uomo e donna, tra la gente del luogo e i forestieri, tra religione e religione. È maestro perché fonte di nascite: - fa nascere un incontro e un dialogo là dove sembrava impossibile, e questo a partire dalla sua povertà: «Ho sete!». Ha sete della nostra sete, desiderio del nostro desiderio. Dobbiamo imparare a dare come dà Gesù: non con la superiorità di chi ha tutto, ma con l'umiltà di chi sa che può molto ricevere da ogni persona; - fa nascere una donna nuova. Quando parla con le donne Gesù va diritto al cuore, conosce il loro linguaggio, quello del sentimento, del desiderio, della ricerca di ragioni forti per vivere: «Vai a chiamare colui che ami». Perché l'amore è la porta di Dio, ed è Dio in ciascuno. Hai avuto cinque mariti. E quello di ora... Gesù non giudica la samaritana, non la umilia, anzi: hai detto bene! Non esige che si metta in regola prima di affidarle l'acqua viva, non pretende di decidere il suo futuro. È il Messia di suprema delicatezza, di suprema umanità, che incarna il volto bellissimo di Dio. Gesù raggiunge la sete profonda di quella donna offrendo un «di più» di bellezza, di bontà, di vita, di primavera: «Ti darò un'acqua che diventa sorgente che zampilla». L'acqua è vita, energia di vita, grazia che io ricevo quando mi metto in connessione con la Fonte inesauribile della vita. Gesù dona alla samaritana di ricongiungersi alla sua sorgente e di diventare lei stessa sorgente. Un'immagine bellissima: un'acqua che tracima, dilaga, che va, un torrente che è ben più di ciò che serve alla sete. La sorgente non è possesso, è fecondità. «A partire da me ma non per me» (M. Buber). La samaritana abbandona la brocca, corre in città, ferma tutti per strada, testimonia, profetizza, contagia d'azzurro e intorno a lei nasce la prima comunità di discepoli stranieri. La donna di Samaria capisce che non placherà la sua sete bevendo a sazietà, ma placando la sete d'altri; che si illuminerà illuminando altri, che riceverà gioia donando gioia. Diventare sorgente, bellissimo progetto di vita per ciascuno: far sgorgare e diffondere speranza, accoglienza, amore. A partire da me, ma non per me.
Dal deserto di pietre al monte di luce. Dalle tentazioni alla trasfigurazione. Il cammino di Cristo è quello di ogni discepolo, cammino ascendente e liberante: dal buio delle tentazioni attraversato fino alla luce di Dio. Cos'è la luce di Dio? È energia e bellezza. Per il corpo: sostiene la nostra vita biologica. Per la mente: sapienza che fa vedere e capire. Per il cuore, che rende capaci di amare bene. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Come il sole, come la luce. Quante volte nella Bibbia, nei salmi, Dio sorge glorioso come un sole: il sole chiama alla vita, a fiorire a maturare a dare frutto. Accende la bellezza dei colori e degli occhi. Come la pianta che cattura la luce del sole e la trasforma in vita, così noi, fili d'erba davanti a Dio, possiamo imbeverci, intriderci della sua luce e tradurla in calore umano, in gioia, in sapienza. Gesù ha un volto di sole, perché ha un sole interiore, per dirci che Dio ha un cuore di luce. Ma quel volto di sole è anche il volto dell'uomo: ognuno ha dentro di sé un tesoro di luce, un sole interiore, che è la nostra immagine e somiglianza con Dio. La vita spirituale altro non è che la gioia e la fatica di liberare tutta la luce sepolta in noi. Signore, Pietro prende la parola, che bello essere qui! Restiamo quassù insieme. L'entusiasmo di Pietro, la sua esclamazione stupita: che bello! Ci fanno capire che la fede per essere forte e viva deve discendere da uno stupore, da un innamoramento, da un «che bello!» gridato a pieno cuore. Come Pietro sul monte: è bello con te, Signore! Questo Vangelo è per dirci che la Quaresima più che un tempo di lutto e penitenza, è un girarsi verso la bellezza e la luce. Acquisire fede significa acquisire bellezza del vivere, acquisire che è bello amare, abbracciare, dare alla luce, esplorare, lavorare, seminare, ripartire perché la vita ha senso, va verso un esito buono, qui e nell'eternità. San Paolo scrive a Timoteo una frase bellissima: Cristo è venuto ed ha fatto risplendere la vita. Non solo il suo volto, non solo le sue vesti sul Tabor, non solo i nostri sogni. Ma la vita, qui, adesso, di tutti. Ha riacceso la fiamma delle cose. Ha messo nelle vene del mondo frantumi di stelle. Ha dato splendore e bellezza all'esistenza. Ha dato sogni e canzoni bellissime al nostro andare di uomini e donne. Basterebbe ripetere senza stancarci: ha fatto risplendere la vita, per ritrovare la verità e la gioia di credere in questo Dio. Allora tutto il creato si fa trasparente e il divino traspare nel fondo di ogni essere (Teilhard de Chardin) e gronda di luce ogni volto di uomo (Turoldo).
Altro...
Il racconto delle tentazioni ci chiama al lavoro mai finito di mettere ordine nelle nostre scelte, a scegliere come vivere Le tentazioni di Gesù sono anche le nostre: investono l'intero mondo delle relazioni quotidiane. La prima tentazione concerne il rapporto con noi stessi e con le cose (l'illusione che i beni riempiano la vita). La seconda è una sfida aperta alla nostra relazione con Dio (un Dio magico a nostro servizio). La terza infine riguarda la relazione con gli altri (la fame di potere, l'amore per la forza). Dì che queste pietre diventino pane! Il pane è un bene, un valore indubitabile, ma Gesù risponde giocando al rialzo, offrendo più vita: «Non di solo pane vivrà l'uomo». Il pane è buono ma più buona è la parola di Dio, il pane dà vita ma più vita viene dalla bocca di Dio. Accende in noi una fame di cielo: L'uomo vive di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. Parola di Dio è il Vangelo, ma anche l'intero creato. Se l'uomo vive di ciò che viene da Dio, io vivo della luce, del cosmo, ma anche di te: fratello, amico, amore, che sei parola pronunciata dalla bocca di Dio per me. La seconda tentazione è una sfida aperta a Dio. «Buttati e credi in un miracolo». Quello che sembrerebbe il più alto atto di fede - gettati con fiducia! - ne è, invece, la caricatura, pura ricerca del proprio vantaggio. Gesù ci mette in guardia dal volere un Dio magico a nostra disposizione, dal cercare non Dio ma i suoi benefici, non il Donatore ma i suoi doni. «Non tentare il Signore»: io so che sarà con me, ma come lui vorrà, non come io vorrei. Forse non mi darà tutto ciò che chiedo, eppure avrò tutto ciò che mi serve, tutto ciò di cui ho bisogno. Nella terza tentazione il diavolo alza ancora la posta: adorami e ti darò tutto il potere del mondo. Il diavolo fa un mercato, esattamente il contrario di Dio, che non fa mai mercato dei suoi doni. È come se dicesse: Gesù, vuoi cambiare il corso della storia con la croce? non funzionerà. Il mondo è già tutto una selva di croci. Cosa se ne fa di un crocifisso in più? Il mondo ha dei problemi, tu devi risolverli. Prendi il potere, occupa i posti chiave, cambia le leggi. Così risolverai i problemi: con rapporti di forza e d'inganno, non con l'amore. «Ed ecco angeli si avvicinarono e lo servivano». Avvicinarsi e servire, verbi da angeli. Se in questa Quaresima ognuno di noi volesse avvicinarsi e prendersi cura di una persona che ha bisogno, perché malata o sola o povera, regalando un po' di tempo e un po' di cuore, allora per lei sarebbe come se si avvicinasse un angelo, come se fiorissero angeli nel nostro deserto.
Gesù rilancia la sua sfida per un altro modo di essere uomini: non preoccupatevi delle cose, c'è dell'altro che vale di più. È la sfida contenuta nella preghiera nel Padre Nostro: dacci oggi il nostro pane quotidiano. Ti chiediamo solo il pane sufficiente per oggi, il pane che basta giorno per giorno, come la manna nel deserto, non l'affanno del di più. È la sfida del monaco: conosco monasteri che vivono così, come uccelli e come gigli, quotidianamente dipendenti dal cielo. Ma questa sfida è anche per tutti noi, pieni di cose e spaventati dal futuro. La vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Occuparsi meno delle cose e di più della vita vera, che è fatta di relazioni, consapevolezza, libertà, amore. Vuoi volare alto, come un uccello, vuoi fiorire nella vita come un giglio? Allora devi deporre dei pesi. Madre Teresa di Calcutta soleva dire: tutto ciò che non serve pesa! Meno cose e più cuore! Non una rinuncia, ma una liberazione. Dalle cose, dalla 'roba' diventata padrona dei pensieri. Guardate gli uccelli del cielo... Osservate i gigli del campo... se l'uccello avesse paura perché domani può arrivare il falco o il cacciatore, non canterebbe più, non sarebbe più una nota di libertà nell'azzurro. Se il giglio temesse la tempesta che domani può arrivare, o ricordasse il temporale di ieri, non fiorirebbe più. Gesù osserva la vita, e la vita gli parla di fiducia e di Dio. E a noi dice: beati i puri di cuore perché vedranno Dio, vedranno in tutto ciò che esiste un punto verginale e fiducioso che è la presenza di Dio, vi scopriranno un altare dove si celebra la comunione tra visibile e invisibile. Allora: non affannatevi, quell'affanno che toglie il respiro, per cui non esistono feste o domeniche, non c'è tempo per chi si ama, per contemplare un fiore, una musica, la primavera. Cercate prima di tutto il Regno di Dio e queste cose vi saranno date in più. Non è moralista il Vangelo, non si oppone al desiderio di cibo e vestito, dicendo: è sbagliato, è peccato, non serve. Anzi, tutto questo lo avrete, ma in tutt'altra luce. «Il cristianesimo non è una morale ma una sconvolgente liberazione» ( Vannucci). Libera dai piccoli desideri, per desiderare di più e meglio, per cercare ciò che fa volare, ciò che fa fiorire e ti mette in armonia con tutto ciò che vive. Insegna un rapporto fiducioso e libero con se stessi, con il corpo, con il denaro, con gli altri, con le più piccole creature e con Dio. Cercate il regno, occupatevi della vita interiore, delle relazioni, del cuore; cercate pace per voi e per gli altri, giustizia per voi e per gli altri, amore per voi e per gli altri. Meno cose e più cuore! E troverete libertà e volo.
Avete inteso che fu detto: occhio per occhio... Ma io vi dico se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l'altra: sii disarmato, non incutere paura, mostra che non hai nulla da difendere, e l'altro capirà l'assurdo di esserti nemico. Tu porgi l'altra guancia; non la passività morbosa di chi ha paura, ma una iniziativa decisa: riallaccia tu la relazione, fa' tu il primo passo, perdonando, ricominciando, rattoppando coraggiosamente il tessuto della vita, continuamente lacerato. Il cristianesimo non è una religione di servi, che si mortificano e si umiliano e non reagiscono; non è «la morale dei deboli che nega la gioia di vivere» (Nietzsche). Ma la religione dei re, degli uomini totalmente liberi, padroni delle proprie scelte anche davanti al male, capaci di disinnescare la spirale della vendetta e di inventare reazioni nuove, attraverso la creatività dell'amore, che fa saltare i piani, non ripaga con la stessa moneta, scombina le regole ma poi rende felici. Amerai il prossimo e odierai il tuo nemico, Ma io vi dico: amate i vostri nemici. Gesù intende eliminare il concetto stesso di nemico. Violenza produce violenza come un catena infinita. Lui sceglie di spezzarla. Mi chiede di non replicare su altri ciò che ho subito. Ed è così che mi libero. Tutto il Vangelo è qui: amatevi altrimenti vi distruggerete. Cosa possono significare allora gli imperativi di Gesù: amate, pregate, porgete, prestate? Non sono ordini, non si ama infatti per decreto, ma porte spalancate verso delle possibilità, offerta di un potere, trasmissione da Dio all'uomo di una forza divina. E tutto questo perché siate figli del Padre vostro celeste che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi. Da Padre a figli: c'è come una trasmissione di eredità, un'eredità di comportamenti, di affetti, di valori, di forza. Voi potete amare anche i nemici, potete fare l'impossibile, io ve ne darò la capacità se lo desiderate, se me lo chiedete, e proseguite sulla strada del cambiamento interiore, della conformazione al Padre. Allora capisco: io posso (potrò) amare come Dio! Ci sarà dato un giorno il cuore stesso di Dio. Ogni volta che noi chiediamo al Signore: «Donaci un cuore nuovo», noi stiamo invocando di poter avere un giorno il cuore di Dio, di conformarci agli stessi sentimenti del cuore di Dio. È straordinario, verrà il giorno in cui il nostro cuore che ha fatto tanta fatica a imparare l'amore, sarà il cuore di Dio e allora saremo capaci di un amore che rimane in eterno, che sarà la nostra anima, per sempre, e l'anima del mondo.
Avete inteso che fu detto, ma io vi dico... Gesù non annuncia una nuova morale più esigente e impegnativa. Queste, che sono tra le pagine più radicali del Vangelo, sono anche le più umane, perché qui ritroviamo la radice della vita buona. Il discorso della montagna vuole condurci alla radice, lungo una doppia direttrice: la linea del cuore e la linea della persona. Il grande principio di Gesù è il ritorno al cuore, che è il laboratorio dove si forma ciò che poi uscirà fuori e prenderà figura di parola, gesto, atto. È necessario guarire il cuore per guarire la vita. Fu detto: non ucciderai; ma io vi dico: chiunque si adira, chiunque alimenta dentro di sé rabbie e rancori, è già omicida. Gesù risale alla radice prima, a ciò che genera la morte o la vita. E che san Giovanni esprimerà in un'affermazione colossale: «Chi non ama suo fratello è omicida» (1Gv 3,15). Cioè: chi non ama uccide. Non amare qualcuno è togliergli vita; non amare è un lento morire. Ma io vi dico: non giurate affatto; il vostro dire sia sì, sì; no, no. Dal divieto del giuramento, Gesù arriva al divieto della menzogna. Di' la verità sempre, e non servirà più giurare. Così porta a compimento, sulla linea del cuore, le conseguenze già implicite nella legge antica. E poi la linea della persona: Se tu guardi una donna per desiderarla sei già adultero... Non dice: se tu, uomo, desideri una donna; se tu, donna, desideri un uomo. Il desiderio è un servitore indocile, ma importante. Dice: Chi guarda per desiderare, e vuol dire: se tu guardi solo per il tuo desiderio, se guardi il suo corpo per il tuo piacere, allora tu pecchi contro la sua persona. Tu allora sei un adultero, nel senso originario di adulterare: tu falsifichi, tu inquini, tu impoverisci la persona. Perché riduci a oggetto per te, a corpo usa e getta la persona, che invece è abisso, oceano, cielo, angelo, profondità, vertigine. Pecchi non tanto contro la legge, ma contro la profondità e la dignità della persona, che è icona di Dio. Perché la legge è sempre rivelazione dei comportamenti che fanno crescere l'uomo in umanità, o che ne diminuiscono l'umanità e la grandezza, che è come dire rivelazione di ciò che rende felice l'uomo. È un unico salto di qualità quello che Gesù propone, la svolta fondamentale: passare dalla legge alla persona, dall'esterno all'interno, dalla religione del fare a quella dell'essere. Il ritorno al cuore, là dove nascono i grandi «perché» delle azioni. Allora il vangelo è facile, umanissimo, anche quando dice parole come queste, che danno le vertigini.