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Sabato, 30 Maggio 2015 17:22

La Triunità di Dio

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340Domenica scorsa con la Pentecoste, pienezza delle energie della resurrezione di Cristo, abbiamo terminato di vivere il tempo pasquale e siamo così entrati nel tempo per annum. Una recente consuetudine liturgica ci impone però di celebrare in questa domenica la festa della Santissima Trinità, idea non biblica, astratta e insufficiente per farci contemplare con umiltà il mistero del nostro Dio vivente. In realtà questa festa sarebbe più onorata se la si chiamasse con il nome di Triunità di Dio. Questo titolo, infatti, afferma che Dio è uno – come recita lo Shema‘ Jisra’el (cf. Dt 6,4) –, ma è nello stesso tempo comunione plurale, comunione del Padre e del Figlio e dello Spirito santo: un’unica vita divina, ma vissuta nella pluralità, nella sinfonia di soggetti uniti da un unico amore.

Ma proprio perché l’idea della Trinità è insufficiente nel “narrare” il Dio che nessuno ha mai visto (cf. Gv 1,18) né contemplato (cf. 1Gv 4,12), dovremmo non pensare a questa “idea” ma a una realtà: in Dio c’è ormai l’umanità del Figlio morto come uomo ma risuscitato nella forza dello Spirito santo, sicché non si può più parlare di Dio senza parlare dell’uomo e, soprattutto, non si può più andare a Dio se non attraverso “la via” (Gv 14,6) che è suo Figlio Gesù Cristo, uomo nato da Maria, vissuto tra di noi, morto e risorto nella nostra storia. Ecco allora cosa annunciare in questa festa che succede al tempo pasquale: Dio si è unito all’umanità in modo indissolubile e l’umanità trasfigurata è in Dio attraverso il Figlio Gesù che, come era disceso, così è salito al cielo (cf. Ef 4,9-10), “costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della resurrezione dei morti” (Rm 1,4). Questo testo paolino, il prologo della Lettera ai Romani (cf. Rm 1,1-7) sarebbe forse stato più indicato come seconda lettura della festa odierna…

Fatte queste precisazioni, cerchiamo di ascoltare il brano evangelico previsto dalla liturgia, la conclusione del vangelo secondo Matteo. Vorrei sostare soprattutto su una frase molto semplice: “Gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato”. Secondo Matteo solo Maria di Magdala e l’altra Maria, dopo aver trovato la tomba vuota, avevano visto Gesù, il quale le aveva salutate con il dono messianico della pace: “Shalom!” (Mt 28,9). Poi aveva comandato loro di essere messaggere dell’annuncio pasquale presso gli apostoli: “Non temete; andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno” (Mt 28,10). I discepoli intimi di Gesù, ascoltato l’annuncio da parte delle donne discepole, eseguono puntualmente quel comando.

E così quel gruppo di dodici, ridotto a undici perche Giuda se n’è andato, ritorna sulle strade della Galilea. Devono lasciare Gerusalemme, la città santa, e tornare dov’era iniziata la predicazione di Gesù (cf. Mt 4,12-17): nella Galilea delle genti, terra periferica, terra spuria, abitata da ebrei e non ebrei, terra cosmopolita… Devono andare nel mondo, tra gli uomini e le donne, per affermare che tutti sono chiamati alla fede in Cristo, che ormai – come scrive Paolo – “non c’è più né giudeo né greco” (Gal 3,28), per dare vita a una nuova comunità, non più legata da carne e sangue, da lingua o cultura, da vicinanza o lontananza, ma una comunità che trovi in Gesù Cristo un legame, un fondamento al suo credere, sperare e amare. Potremmo dire che quel soggetto di undici persone è “il piccolo gregge” (Lc 12,32), la chiesa sulle strade del mondo, un piccolo gregge non chiuso in un recinto, non pauroso, non autoreferenziale, ma disposto a stare in mezzo ad altri, fossero anche dei lupi. Non è una gran cosa, né quegli undici sono uomini straordinari: di qualcuno si è tramandato qualche fatto della vita, di altri sappiamo appena il nome; povera gente, in mezzo alla quale vi sono anche alcuni che dubitano su Gesù e sulla sua missione…

Eppure, obbedendo all’indicazione delle donne vanno verso la montagna, il nuovo Nebo (cf. Dt 32,49; 34,1), il luogo della manifestazione della volontà di Dio. Sulla montagna Gesù aveva predicato il Vangelo delle beatitudini (cf. Mt 5,1-7,29), sulla montagna aveva moltiplicato il pane (cf. Mt 15,32-39), sulla montagna era stato trasfigurato dal Padre davanti ai discepoli (cf. Mt 17,1-8): ora sulla montagna gli undici devono ascoltare le ultime parole del Risorto, le sue ultime volontà. Ed ecco che salgono sul monte indicato e, non appena vedono Gesù, si prostrano, si inginocchiano a terra e adorano. Gesù, che li aveva visti l’ultima volta all’inizio della passione, quando “tutti i discepoli lo abbandonarono e fuggirono” (Mt 26,56), ora li vede ai suoi piedi, in adorazione: gesto pieno di significato, perché quando un uomo si inchina di fronte a un altro, compie uno dei più grandi gesti umani. Come già accennato, essi adorano Gesù anche tra i dubbi, perché in loro i dubbi rimangono e rimarranno fino alla morte, vinti però e trascesi dall’amore: sì, perché l’amore vince i dubbi della fede, questa è la dinamica nel cuore del cristiano…

Gesù allora si avvicina a questi uomini, chiesa di peccatori fragili e dubbiosi, ma chiesa che sa amare e adorare il suo Signore. Questa è la chiesa quotidiana che noi conosciamo e siamo, non un’istituzione trionfante e che si impone, ma un gruppetto di povere persone che dicono per amore: “Signore, aumenta la nostra fede (cf. Lc 17,5)! Signore, noi veniamo meno, qualcuno se ne va, ma vogliamo restare con te! Signore, siamo fuggiti davanti alla sofferenza e alla morte ma, non appena ci hai richiamati, eccoci qui, inchinati davanti a te! Vieni Signore Gesù, vieni presto, Maràna tha (1Cor 16,22; cf. Ap 22,20)!”.

Gesù, in risposta, si rivolge agli undici con la sua parola di Kýrios, di Signore risorto e vivente, dicendo loro: “Una volta andati tra le genti dell’umanità intera, fino ai confini del mondo, fate discepoli, cioè cercate che gli uomini e le donne accolgano la buona notizia del Vangelo, mettendosi alla sua scuola. E immergeteli (questo significa letteralmente il verbo “battezzare”) nel Nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. È l’unica volta in cui nel Nuovo Testamento si parla di battesimo-immersione nel Nome della Triunità di Dio, mentre di solito si attesta il battesimo nel Nome di Gesù, l’essere immersi con lui nella sua morte e resurrezione, o nello Spirito che rimette i peccati e santifica. Qui Matteo opera un accrescimento teologico, perché nel suo vangelo Gesù rivela il Padre parlando sovente di lui e rivela lo Spirito promettendolo ai discepoli (cf. Mt 10,20). La comunità dei discepoli ha le sue radici nella vita triunitaria del Padre e del Figlio e dello Spirito santo.

Infine, il Signore Gesù proclama se stesso come colui che ha ricevuto ogni potere in cielo e sulla terra. La sua signoria è ben più grande di quella di Ciro, imperatore del mondo (cf. 2Cr 36,23, ultimo versetto della Bibbia ebraica!), perché è quella del Figlio dell’uomo che riceve da Dio stesso il potere (cf. Dn 7,13-14). È una signoria che chiede ai suoi servi solo di vivere il comandamento nuovo dell’amore (cf. Gv 13,34; 15,12); è la signoria di colui che ci assicura di essere l’‘Immanu-El, il Dio-con-noi (cf. Is 7,14; Mt 1,23), sempre, senza mai abbandonarci. Dio ormai non è più nell’alto dei cieli, “Santo, Santo, Santo” (Is 6,3) – ossia Altro, Altro, Altro – ma è il Dio-uomo, il Dio-con-noi, uomo tra gli uomini, che in Gesù ci accompagna sulle vie del mondo; e la comunione di Dio, comunione plurale, è la nostra dimora.

Commento al Vangelo di Enzo Bianchi 
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