L’opera riformatrice di San Giovanni Leonardi nel Monastero di Montevergine (1596-1601)
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Concilio di Trento
Gli avvenimenti straordinari, che interessano la Chiesa universale, si riflettono sulle chiese locali e sugli istituti religiosi. Nella congregazione verginiana, come la decadenza era stata preceduta dal Grande Scisma d’Occidente, così la ripresa fece seguito alla celebrazione del concilio ecumenico di Trento. In particolare il concilio si era posto il problema della riforma degli istituti religiosi nella quinta sessione del 17 giugno 1546 con l’istituzione dei lettorati di sacra scrittura e nella seduta finale del 3 dicembre 1563 con le disposizioni circa l’ammissione e la formazione dei nuovi candidati. Inoltre i papi, da Paolo IV in poi, si impegnarono con energia per l’attuazione del concilio, inviando nei singoli istituti visitatori apostolici con ampie facoltà di convocare i rispettivi capitoli generali per rinnovarne e aggiornarne le costituzioni.
Nelle more del concilio, i monaci di Montevergine imboccarono la strada della rinascita con la riforma scolastica del 1556. Furono disposti due cicli: il primo per lo studio della grammatica della logica e della filosofia, riservato ai nuovi arrivati per accedere al noviziato; il secondo per lo studiò della teologia e del diritto canonico, riservato ai giovani professi, per accedere agli ordini sacri. Alla fine di ciascun ciclo gli allievi venivano sottoposti all’esame di profitto davanti ad una commissione composta da tre o cinque membri, i quali esprimevano il proprio giudizio mediante votazione segreta; era considerato maturo soio chi otteneva la maggioranza dei voti favorevoli.
In questa scuola si formò una nuova generazione di monaci i quali, per santità di vita, per capacità di governo e per elevatezza d’ingegno, illustrarono la congregazione, migliorarono i rapporti con la curia romana e resero possibile la liberazione dall’opprimente commenda laica dell’Ospedale dell’Annunziata. Nel 1567 il papa Pio V rese vincolanti le conclusioni di una commissione cardinalizia, da lui nominata, intese ad eliminare le controversie e ridare la pace e la tranquillità ai monaci. In realtà si trattò di una specie di accordo provvisorio, che prese il nome di Magna Concordia, il quale riconobbe ai monaci le giuste rivendicazioni circa il vitto e il vestito, ma non la piena liberazione dalla commenda; ed inoltre suggerì di ridurre a soli 18 il numero dei monasteri verginiani, che in quel momento ascendevano a 53, in modo che si potesse più facilmente provvedere alla loro manutenzione ordinaria e straordinaria e consentire in essi una più comoda abitazione, assegnando 50 monaci a Montevergine e 22 alle case dipendenti. La stessa commissione elaborò 25 norme di comportamento monastico, che presero il nome di Statuti di Pio V e furono dati alle stampe nel 1571.
I monaci di Montevergine, che avrebbero dovuto non senza rancore e rimpianto abbandonare 35 monasteri, ripresero la via di Roma quando al soglio pontificio fu elevato il francescano Felice Peretti col nome di Sisto V, il quale da semplice frate e da vescovo dì Sant’Agata dei Goti più di una volta si era recato a venerare la sacra icona del Partenio e personalmente aveva constatato gli inconvenienti che comportava l’ibrida unione della congregazione di Montevergine con l’Ospedale dell’Annunziata di Napoli. Le speranze non rimasero deluse. Sisto V con motu proprio del 27 febbraio 1588 liberò definitivamente la congregazione verginiana dalla commenda, fulminando di scomunica qualunque persona, ecclesiastica o laica, avesse osato ingerirsi nelle cose di Montevergine.
San Giovanni Leonardi
Per aiutare i monaci a risanare le gravi ferite inferte dalla commenda e a percorrere il faticoso cammino della rinascita, il papa Clemente VIII nel 1596 inviò a Montevergine Giovanni Leonardi, fondatore dei Chierici Regolari della Madre di Dio a Lucca, col titolo di commissario pontificio con ampie facoltà di visitare i singoli monasteri della congregazione e di deciderne la sopravvivenza in rapporto alla capacità recettiva ed economica, di correggere gli abusi nel capo e nelle membra, e di aggiornare le costituzioni in rapporto ai dettami conciliari e alle mutate situazioni del tempo.
Il Leonardi conservò la carica di commissario apostolico fino al maggio 1601. Nel frattempo ebbe la possibilità di visitare tutti i monasteri che in quel momento formavano la congregazione verginiana, e di controllarne le entrate, di interrogare e di ascoltare tutti i religiosi residenti in quelle case e di lavorare alla redazione delle nuove costituzioni. Dovette purtroppo constatare che, nonostante le disposizioni del papa Pio V e i ripetuti decreti pontifici circa la soppressione dei piccoli monasteri, le case verginiane erano aumentate, passando da 53 a 59; mentre il numero dei monaci era rimasto pressoché immutato passando da il francescano 304 a 343 unità, delle quali ben 110 erano state assegnate al santuario di Montevergine, 20 a Casamarciano, 18 a Napoli, 13 a Capua, 12 a Penta e 10 a Roma, mentre le rimanenti 169 unità erano state distribuite negli altri 54 monasteri con una presenza di monaci che oscillava da 1 a 7 unità.
A giudizio del commissario, l’ostacolo maggiore per una seria e duratura riforma era costituito da quei “piccioli monasteri, sentine di ogni male, e meritatamente da San Bernardo definiti sinagogae satanae”. Tenuto poi presente che l’introito generale della congregazione si aggirava sui 20.000 scudi, di cui bisognava accantonare 5.000 per la manutenzione dei fabbricati, e conteggiato che il costo annuo di ogni religioso si aggirava sui 60 scudi annui, concluse che la congregazione verginiana non avrebbe dovuto superare il numero di 260 religiosi, da distribuirsi in 18 monasteri da conservare, affidando ai rispettivi superiori la gestione provvisoria dei monasteri più vicini da abbandonare.
Secondo i suggerimenti del papa, il Leonardi avrebbe dovuto assicurare la piena attuazione della riforma, procedendo contro i monaci che si erano allontanati dall’osservanza della regola di San Benedetto e degli statuti del papa Pio V, estirpando il vizio della proprietà privata, ripristinando la vita comune nel vitto e nel vestito, riportando all’antico splendore la liturgia e richiamando la perfetta osservanza dei digiuni e del capitolo delle colpe, dell’orazione mentale e della clausura.
I risultati del lungo e laborioso lavoro della riforma, spesso contrastato dall’orgoglio e dalla rivalità dei monaci, furono approvati dal papa Clemente VIII e codificati nelle dichiarazioni alla regola di San Benedetto, data alla stampa nel 1599. Alla redazione delle dichiarazioni, intese a dare una aggiornata e sicura interpretazione all’antico testo della regola di San Benedetto e a migliorare gli statuti del papa Pio V, avevano collaborato il vescovo di Aversa Bernardino Morra e il monaco verginiano Severo Giliberto. Quest’ultimo nel capitolo generale del 1599 venne eletto per un sessennio abate generale direttamente dal commissario apostolico, divenendo così il primo superiore ad accompagnare i monaci sui nuovo binario della riforma.
© P.M. Tropeano, Montevergine nei secoli, 2005, 115-118