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Venerdì, 09 Ottobre 2015 10:53

"Fissò lo sguardo su di lui e lo amò"

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258Anche il brano evangelico di questa domenica, come quello di domenica scorsa, giorno di apertura del sinodo, sembra scritto appositamente per l’evento di grazia che la chiesa sta vivendo. Se infatti domenica scorsa la buona notizia era quella della volontà del Dio creatore sull’uomo e sulla donna uniti nell’alleanza della famiglia (cf. Mc 10,6-9), oggi il vangelo ci annuncia che, a causa del regno di Dio, la famiglia va relativizzata: se è vero che la via ordinaria della sequela di Cristo è il matrimonio, tuttavia “a causa di Gesù e del Vangelo” la famiglia può essere abbandonata (come è successo realmente e concretamente ai dodici discepoli) o può non essere scelta da quanti accolgono la chiamata a “farsi eunuchi per il regno dei cieli” (Mt 19,12). Di più, se nel vangelo di domenica scorsa Gesù, citando l’in-principio della Genesi, affermava: “L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna” (Mc 10,7; Gen 2,24), all’inizio della vicenda di Gesù con i suoi discepoli si legge un’affermazione significativamente parallela: “Giacomo e Giovanni lasciarono il loro padre Zebedeo … e andarono dietro a Gesù” (Mc 1,20). Lasciare i precedenti legami familiari per vivere l’avventura del matrimonio, lasciarli per vivere l’avventura del celibato alla sequela di Gesù…

Ora, è bene che un sinodo che nel suo Instrumentum laboris non contiene una parola sul celibato per il Regno la riceva dalle Scritture lette nella liturgia. Questo brano evangelico è talmente conosciuto, è stato così tante volte predicato e usato a fini vocazionali, che rischiamo di pensare di averlo compreso una volta per tutte e dunque, “conoscendolo già”, di poterlo leggere rapidamente. Cerchiamo invece, innanzitutto, di ascoltarlo bene, con cuore docile e aperto. L’episodio narrato da Marco, collocato sempre durante la salita di Gesù e dei suoi discepoli a Gerusalemme, ha come protagonista “un tale”, un uomo anonimo, certamente un giudeo, un uomo che condivide con molti l’ammirazione per il rabbi di Galilea. Con venerazione si presenta a Gesù e, inginocchiandosi davanti a lui (come davanti al Signore nella liturgia), lo chiama: “Maestro buono”. Gesù però reagisce a tale qualifica e ricorda che “buono” (agathós) si può dire solo di Dio, perché solo Dio è veramente la bontà, l’amore, la grazia (cf. Es 34,6-7).

Quest’uomo pone a Gesù una domanda significativa per la fede giudaica: “Che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”. Sì, c’è una salvezza, una beatitudine futura promessa da Dio a chi crede, a chi appartiene al suo popolo, ma concretamente, nella vita ordinaria, quotidiana, che cosa occorre fare? Domanda pertinente anche per noi, oggi, perché la fede nel Dio vivente non può essere solo adesione intellettuale, desiderio di lui, sentimento di amore, seppur profondo… Anche l’amore comandato da Dio, amore per lui, il Signore (“Amerai il Signore tuo Dio…”: Dt 6,5), deve significare un modo di vivere, un “fare”, un comportarsi secondo la sua volontà (cf. Gv 14,15; 1Gv 5,3). Non è sufficiente avere una fede ortodossa, puntuale, e non basta confessare Dio con le labbra, nel culto!

Per questo Gesù, da interprete acuto e fedele della Legge di Mosè, risponde citando le parole dell’alleanza, i comandamenti tratti dalle dieci parole, ma significativamente solo quelli che riguardano le relazioni con il prossimo: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso” (Es 20,13-16; Dt 5,17-20). Riassume poi i precetti in “non fare torto a nessuno” (Dt 24,14), e al vertice mette quello che nella lista è il primo in riferimento al prossimo: “Onora tuo padre e tua madre” (Es 20,12; Dt 5,16). Questo modo di rispondere di Gesù a un credente è significativo: egli afferma che la salvezza si gioca nei rapporti con gli altri, con il prossimo. Non gli dice come vivere il rapporto con Dio, né cosa credere o sperare: per la salvezza e la beatitudine futura tutto si decide sull’amore concreto vissuto qui e ora verso gli altri, verso i fratelli e le sorelle in umanità. Sì, “non fare torto a nessuno”, “amare il prossimo come se stesso” (cf. Mt 19,19; Lv 19,18) è ciò che è indispensabile per la salvezza!

Quello (solo secondo Matteo è “giovane”: Mt 19,20) allora ribatte: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”. Parole oggettivamente straordinarie: chi infatti potrebbe dire lo stesso di sé? Parole dunque pretenziose, prive della necessaria umiltà? Marco non ci permette di giudicare queste parole, ma forse sono proprio esse a spiegare l’esito dell’incontro con Gesù. Quest’ultimo, udita l’affermazione dell’altro, “fissò lo sguardo su di lui e lo amò” (egápesen autòn). Sì, Gesù lo ama, come se gli avesse fatto giungere un suo bacio, e in quel flusso di amore preveniente e gratuito gli dice: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!” (deûro akoloúthei moi). Non c’è vocazione, chiamata se non nell’amore: solo amando il Signore chiama, solo baciando Gesù chiede di seguirlo! Ma conosciamo l’esito: quest’uomo si rattrista e se ne va addolorato. Sì, perché quando si rifiuta l’amore, l’esito è la tristezza. Ciò che era determinante era l’amore di Gesù, non le sue parole, che potevano anche essere altre. Gesù lo ha amato, ed egli non ha accolto quell’amore: questa la causa della tristezza.

Allora Gesù rivela ai discepoli che, per accogliere l’amore, occorre non avere degli altri amori che seducono e alienano, come il denaro, la ricchezza, il potere. Chi possiede queste cose non sa discernere l’amore, che chiede accoglienza, perché è già sazio, autosufficiente, non ha bisogno di essere amato da un altro. Pietro allora interviene per ricordare che lui e gli altri hanno lasciato tutto per seguire Gesù: hanno lasciato la casa, la famiglia (madre, padre, fratelli e sorelle), i figli che avevano o ai quali avevano rinunciato… Forse Pietro mendicava un riconoscimento di Gesù per la loro rinuncia a ciò che è buono e santo come una famiglia, ma che per loro era una perdita, non un guadagno (cf. Fil 3,7), se paragonato allo “stare con Gesù” (cf. Mc 3,14). E Gesù, in risposta, gli dice: “Non c’è nessuno che abbia lasciato tutto questo a causa mia e del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà”.

Oggi si dimentica troppo facilmente anche nella chiesa (ma ci si crede ancora?) che Gesù può chiedere a “chi può fare spazio” (ho dynámenos choreîn choreîto: Mt 19,12) di rinunciare alla famiglia che aveva e a quella che avrebbe potuto crearsi. Il celibato per il Regno non può essere ridotto alla rinuncia all’esercizio sessuale, ma è molto di più: è una “non coniugazione” né psicologica né affettiva, è non avere più una famiglia umana ma vivere e sentire come sufficiente la famiglia dei fratelli e delle sorelle di Gesù. Come gli stesso ha annunciato: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? … Chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre” (Mc 3,33.35). Nella sequela di Gesù si può abbandonare la famiglia carnale per un nuova famiglia, si può vivere il celibato nella fecondità dell’amore di Cristo, dei suoi fratelli e delle sue sorelle. Stiamo attenti a non annacquare lo scandalo della sequela di Cristo, a non nascondere la rinuncia, che è determinante nel seguire Gesù. Abbandonare tutto può essere, per alcuni chiamati dal Signore, il loro “fare” in questo mondo: sempre nel servizio degli altri; sempre nell’amore per il prossimo, chiunque esso sia; sempre mendicando una salvezza che non può mai essere meritata, neanche vivendo le persecuzioni. Nella sequela di Gesù non ci sono primi o ultimi per diritto acquisito, ma solo destinatari dell’amore preveniente di Gesù e della sua misericordia.

Commento al Vangelo di ENZO BIANCHI 
Letto 11437 volte Ultima modifica il Venerdì, 09 Ottobre 2015 10:57

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