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Domenica, 19 Luglio 2015 10:17

La misericordia di Gesù

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346I discepoli ritornati dalla missione meritano di essere chiamati “inviati”, “missionari”, per questo Marco li definisce “apostoli” (apóstoloi): discepoli di Gesù diventati suoi inviati.

Tornano dunque da Gesù, colui che li aveva inviati e abilitati alla missione, tornano alla fonte, tornano a colui che li aveva chiamati “perché stessero con lui”, oltre che “per mandarli a predicare” (Mc 3,14). Essi “raccontano a Gesù tutto quello che avevano fatto e insegnato”: azioni e parole che erano state comandate da Gesù, ma che soprattutto gli apostoli avevano imparato a ripetere stando con lui, coinvolti nella sua vita, vivendo con lui come con un fratello. Sappiamo di che cosa era fatto questo loro servizio: l’annuncio del Regno di Dio veniente, della necessaria conversione e una prassi di umanità autentica che si manifestava nell’incontrare le persone, nell’accoglierle, nel dare loro fiducia risvegliando la loro fede, nello sperare insieme a loro, nel liberarle, per quanto possibile, da oppressioni diverse dovute alla presenza del male operante nel mondo. Marco non dice che gli inviati hanno fatto cose straordinarie, miracoli, perché ciò che era sufficiente l’hanno eseguito in obbedienza al mandato di Gesù.

Gli apostoli sono stanchi, e Gesù, che è stato raggiunto dalla notizia della decapitazione di Giovanni, il suo rabbi, nella sua tristezza decide di prendere le distanze dalla predicazione che lo impegnava e lo affaticava. Dice dunque ai Dodici: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto (kat’ idian eis éremon tópon), e riposatevi un po’”. Anche per Gesù, come per ciascuno di noi, occorre a volte avere il coraggio e la forza di prendere le distanze da ciò che si fa, occorre uscire dall’agitazione delle moltitudini, dal rumore delle folle, da quel turbinio di occupazioni che rischiano di travolgerci. Lavorare, impegnarsi seriamente con tutta la propria persona è necessario ed è umano, ma lo è altrettanto la dimensione della solitudine, del silenzio, della quiete. Se noi sentissimo nel nostro cuore questa chiamata: “Fuggi, fa’ silenzio, cerca quiete” (Detti dei padri del deserto, Serie alfabetica, Arsenio 2), saremmo certamente più disponibili a trovare un “luogo deserto” in cui pensare, meditare, ascoltando il silenzio, il nostro cuore, le voci diverse con cui Dio tenta di parlarci. Senza ottemperare a questa esigenza, si cade nella superficialità, ci si disperde, si finisce per vivere senza sapere dove si va.

Ma la folla che da giorni segue Gesù lo raggiunge, anzi giunge prima di lui su quella riva deserta del lago. Gesù allora, sbarcando, la vede e la osserva con attenzione: non è preso dalla soddisfazione del successo, del fatto che tanta gente lo cerca e lo trova, ma è mosso a viscerale compassione (verbo splanchnízo). Le sue viscere si commuovono come quelle di Dio nei confronti del suo popolo oppresso (cf. Os 11,8); egli si commuove e soffre con un fremito causato solo dall’amore verso quella gente. Sì, è gente incredula, che cerca Gesù con ambiguità e interessi non trasparenti, ma per Gesù merita compassione. Sono “pecore senza pastore”, non hanno nessuno che dia loro da mangiare cibo, nessuno che si prenda cura di loro, nessuno che rivolga loro la parola per sostenerli nel duro mestiere di vivere e nessuno che li sostenga nei loro dubbi e contraddizioni. Gesù si intenerisce e rivive la compassione di Mosè quando vede il suo popolo senza pastore (cf. Nm 27,17), la compassione dei profeti che soffrono al vedere il popolo di Dio disperso e i cattivi pastori che lo sfruttano (cf. 1Re 22,17; Ez 34,5).

Non resta dunque a Gesù che farsi “buon pastore” (Gv 10,11.14) di quella folla: obbedisce puntualmente e fa ciò che Dio vuole venga fatto a suo nome da lui, il Figlio inviato nel mondo. Per prima cosa Gesù legge la fame di quella gente, fame di cui forse non sono pienamente coscienti, fame della Parola: vogliono che Gesù insegni, cioè “parli loro la Parola”, come Marco dice altrove (cf. Mc 2,2; 4,33). Ciò che è decisivo è che Gesù sia là e parli, perché lui è la Parola di Dio (cf. Gv 1,1.14). Gesù lo fa lungamente, come stando sotto un giogo: il giogo della misericordia che lo spinge a questa compassione, a questa fatica, a questa parola indirizzata a quanti suscitano in lui sentimenti di misericordia. Aveva avuto misericordia degli apostoli ritornati stanchi e li aveva chiamati al riposo, e ora ha misericordia delle folle e interrompe il proprio riposo. Solo la misericordia lo guidava e ne determinava il comportamento e le azioni durante la sua itineranza.

Questo è un grande insegnamento per noi: su ogni nostra decisione, su ogni nostra scelta necessaria e buona, ciò che deve avere il primato è la misericordia. Se ogni nostra scelta e ogni nostra azione non obbediscono innanzitutto alla misericordia, non sono conformi ai “sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5): sentimenti umani ma in profondità sentimenti di Dio, colui che è Santo e mostra la sua santità in mezzo al suo popolo con la compassione, scegliendo che nel suo cuore la misericordia regni sulla giustizia (cf. Os 11,7-9). Noi pastori di comunità dovremmo molto interrogarci su questa disponibilità a dare la precedenza alle domande della comunità rispetto alle nostre scelte e alle nostre pur buone iniziative. Dovremmo chiederci se in noi la misericordia, cioè l’amore viscerale di compassione, è sempre immanente alla giustizia che vogliamo vivere e annunciare. Non lo si dimentichi: nel cristianesimo non si danno giustizia e misericordia, ma solo misericordia nella giustizia o giustizia nella misericordia.

Prima di dare il pane Gesù dà la Parola, per saziare gli uomini e le donne che lo seguono. Ma presto darà anche il pane.

Commento al Vangelo di Enzo Bianchi 
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