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Con Cristo
misurate le cose
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Con Cristo
misurate le cose
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La vulcanica fucina della lingua giovannea ha forgiato le metafore più intense che la letteratura evangelica possieda per designare la grazia indicibile dell'appartenenza umana alla vita del Figlio. Il cristocentrismo su cui si fonda il mistero di una nuova alleanza stretta attorno al corpo umano di Gesù ha bisogno di tradursi in analogie elementari, dense, immediate. Cristo è pane, Cristo è strada, Cristo è pastore, Cristo è porta, Cristo è pietra. Tutto quando sia originario e indispensabile. Questa volta Cristo è vite. La metafora intercetta un'attesa umana radicale. Tutti vivono della grazia di essere attaccati a qualcosa e di appartenere a qualcuno. Sentiamo di essere qualcuno solo quando siamo certi di essere di qualcuno. La vicenda esistenziale di ogni essere umano acquisisce la propria densità nella misura in cui mette positivamente alla prova la tenuta dei propri vincoli affettivi, come nella felicità dei bambini a cui si mostra il video di nozze dei loro genitori, nell'instancabile tenacia con cui i vecchi raccontano sempre la stessa storia, nella gioia con cui due innamorati scoprono di essere reciprocamente la dimora uno dell'altra. La rassicurazione è sempre quella: non è il caso che ti porta, c'è qualcuno che ti vuole, esiste un luogo da cui provieni. L'autodefinizione di Gesù, non a caso fatta pronunciare da Giovanni nel contesto di una cena di congedo, salda queste originarie percezioni umane al mondo della vita divina finalmente in procinto di svelarsi in tutta la sua paterna affidabilità. Non siamo le creature di un demiurgo lontano, non siamo prodotti genetici abbandonati al loro destino, non siamo naufraghi dell'esistenza che hanno come unico appoggio la zattera del loro piccolo io. Siamo esseri degni di essere voluti. Viviamo a patto di non recidere il filo che ci collega a quella volontà. La notizia si accompagna anche al comandamento. Il dono viene sempre col compito. La grazia di aver ricevuto porta con sé la tentazione di dimenticarsene. Perdere coscienza della natura vitale del vincolo. Entrare in un desiderio di emancipazione che frutta solo l'inferno della solitudine. Per questo il comandamento intima di rimanere. Restare nel vincolo. Mantenersi nel legame. Perché sospettarne la natura dispotica o semplicemente superflua è il tema di una tentazione che va in onda fin dalle origini. Questo invito che possiede tutte le tonalità di una implorazione (rimanete in me e io in voi) risuona come il luminoso rovescio dell'insidiosa allusione del tentatore. Nella promessa di amicizia di Gesù si ricuce la ferita del primo peccato. La legge quindi ritorna a risplendere come parola data nella reciprocità. Non più come il documento di una volontà esteriore, arbitraria, anonima. Ma come segno di custodia di un vincolo di cui conservare lo spirito. La legge, del resto, ha definitivamente preso corpo. Parla disinvoltamente nella vita umana del Figlio. Non è più solo un indice scolpito nella pietra. Ha tutta l'intensità di una sapienza incisa nel cuore. Giuliano Zanchi