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Sabato, 31 Marzo 2012 09:18

Spogliò se stesso

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188La semplice elementare lirica di Filippesi avvolge nell'ovatta di una poesia sublime il dramma di base della rivelazione cristiana. All'essere umano non viene per nulla difficile nutrire il presentimento della trascendenza e restare impigliato nell'attrazione per il sacro. Nemmeno nel diffuso furore della nostra era secolare. Anzi. Più il gelo immanente della procedura avvolge la vita dell'uomo postmoderno, più le pulsioni dei suoi sensi resi orfani cercano avide l'appoggio di divinazioni persino selvagge.

L'uomo è sempre disposto a credere a tutto. Ma nessun istinto umano per il sacro, come nessun itinerario speculativo, avrebbero potuto formulare l'immaginazione di un divino paragonabile allo sconcertante e commovente abbassamento del Dio di Gesù fin sul pianerottolo dell'ultima dimora umana. I teologi direbbero che si tratta di qualcosa che è "indeducibile". Eppure, proprio quello che non era possibile dedurre sta al centro dell'amicizia annunciata nella rivelazione del Figlio. L'immagine troppo umana di un divino impegnato a tempo pieno nella salvaguardia della propria sovrana autosufficienza viene smentita dall'umanissima icona del Figlio spassionatamente disinteressato alle proprie prerogative divine. Al contrario, determinato a realizzarne il senso ultimo, l'eterna ragione di fondo, il remoto motivo teologale, nella forma di un'obbedienza destinata a com­piersi in forma del tutto incondizionata. Della divina paternità il Figlio mette in mostra precisamente il tratto disinteressato della chiamata all'alleanza. Dio non ha nulla da tenere per sé (come efficacemente continua a insinuare la voce del Mentitore) e non ha bisogno di imporre alla sua passione per l'uomo il peso della propria dismisura. Dio, al contrario, si fa a misura umana senza sentirsi diminuito.

Di questa strabiliante umiltà, motore mobilissimo dell'eterna processione trinitaria del divino, il Figlio ha scelto di essere conferma e testimonianza indefettibile. Il suo modo di morire si rende necessario (una volta reso inevitabile), perché qualsiasi tentativo di mettere in salvo la propria sopravvivenza significherebbe l'immediato spegnersi dell'autentica immagine del divino di cui è testimonianza. Dovesse trovare il modo di sopravvivere, Gesù resterebbe il rappresentante del solito Dio potente.

Per questo ogni evangelico resoconto della passione, nella sua laconica e misurata franchezza, contiene un senso palpabile di inevitabilità. Gesù doveva morire. Non per far riapparire sul teatro della storia l'ennesima rappresentazione del divino assetato di sacrifici, ma l'unilateralità di un Dio che si lascia morire pur di non forzare il libero riconoscimento dell'uomo. Anche Dio si sente umiliato se deve obbligare qualcuno ad amarlo. Piuttosto si lascia uccidere. Quando Gesù entra a Gerusalemme sopra un asino, fra inconsapevoli festeggiamenti già intrisi di ipocrisia, sta già sotto il giogo di questa inaudita e splendente libertà divina.
(Giuliano Zanchi) 

 
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