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Mercoledì, 24 Agosto 2011 15:44

GLI ANGELI nella catechesi di S. Giovanni Leonardi

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161210Innegabili radici ambientali
Nell’Archivio Generale dell’Ordine dei Chierici Regolari della Madre di Dio è conservata un’ampia raccolta di omelie del Santo Fondatore. Gli scritti sono asserbati dentro una elegante custodia in cartapecora sul cui dorso compare stampigliato il titolo: SERMONI. In quella silloge è presente un dialogo, di cui purtroppo mancano le prime carte, nel quale Giovanni Leonardi espone la dottrina cattolica riguardante gli Angeli sotto forma di un breve compendio dotato di notevole capacità divulgativa.
Volendo perlustrare le lontane premesse dei futuri orientamenti dottrinali di una qualsiasi anima, non si deve prescindere dal prendere in esame anche certe motivazioni che, in apparenza, sembrerebbero solo di tipo emozionale-affettivo. Difatti, la loro riconosciuta incidenza nella concretezza del quotidiano vissuto, spesso diviene determinante cifra per definire dei singolari approdi rintracciabili solo attraverso valenze espresse, appunto, da oggettive realtà esistenziali.
Partendo allora da queste ovvie considerazioni, va ben al di là di un banale interesse, quasi di genere turistico, constatare come -nella città di Lucca e in un’area assai vicina alla zona nella quale il Santo attua la propria maturazione ascetica e dove finirà per fissare la stabile dimora della sua famiglia religiosa- persistano ancora oggi notevoli retaggi di ben definite memorie.
Queste sono in grado di rivelare possibili e non casuali radici alla base del culto degli Angeli che perciò ritroviamo ben presente tra le varie e differenziate note carismatiche dell’articolata spiritualità del Leonardi.
Difatti, siamo al cospetto di una suggestiva toponomastica particolarmente atta a sollecitare esplicite quanto nitide allusioni che vanno in direzione di un definito e preciso contesto culturale.

Tra storia e leggenda
La centralissima chiesa, contraddistinta dal suo purissimo stile romanico pisano-lucchese ed eretta nell’area dove una volta era ubicato il foro dell’antica città romana, è dedicata all’Arcangelo San Michele. Non a caso poi, sulla medesima piazza, viene ad affacciarsi un noto ristorante il cui nome non lascia dubbi: Locanda dell’Angelo. Parallela al tracciato dello storico “decumano”  -come dire al fondamentale asse viario della originaria urbanistica tipicamente castrense, quale era stata Lucca a suo tempo dove Cesare, Pompeo e Crasso si erano ritrovati per il secondo triumvirato-  scorre la Via dell’Angelo Custode. Mentre a metà circa della stessa, si ammira l’Oratorio degli Angeli Custodi. Vero è che questo ultimo fu edificato solo nel 1638, quando cioè il nostro Santo era salito al cielo ormai da una trentina di anni; ma è altrettanto certo che si trattò, in sostanza, della riedizione estremamente raffinata di un edificio sacro peraltro già fondato nel 1579 e dedicato a Santa Maria degli Angeli o dell’Angelo). Giova poi ricordare come presso Porta San Pietro, uno degli ingressi delle Mura  cinquecentesche che sono tra le attrattive più significative di questa città con i suoi 4,3 chilometri di percorso assolutamente intatto, ci fosse -fin dal lontano 1220- la Chiesa e Monastero degli Angeli. Una ulteriore attestazione toponomastica viene rappresentata dalla Via degli Angeli oggi perpendicolare a Palazzo Lucchesini, sede del Liceo Classico Nicolò Machiavelli, e quindi a poco più di un centinaio di metri dalla chiesa di Santa Maria Corteorlandini dove, cioè, risiedeva il Leonardi con la comunità religiosa da lui fondata. Il nome di quella strada deriva dal modesto ospedale e dal cimitero una volta presenti in quella zona con annesso un piccolo oratorio dedicato, appunto, agli Angeli precisamente a seguito della tradizionale devozione verso questi spiriti eletti pronti ad accompagnare le anime dei trapassati, come devotamente recita la liturgia dei defunti.
Naturalmente, per il successivo evolversi urbanistico, buona parte di queste realtà -oggi ormai assai remote anche nella comune memoria- sono del tutto scomparse. Ma, ciononostante, ne è rimasto il persistente ricordo trasmessoci, appunto, grazie alla specifica targa che tuttora indica quella via.
Infine va rammentato che la vicina basilica di San Frediano, oltre agli ingressi della facciata, dispone anche di un accesso laterale che viene chiamato: “porta dell’Angelo”. Ebbene, la ragione di questo ultimo dettagliato vestigio, che ancora una volta evoca una chiara presenza, risiede nella sorprendente e, per certi versi, fabulosa vicenda attestata, però, da precise testimonianze firmate. Infatti nei pressi riposa il corpo ancora incontaminato della vergine lucchese S.Zita (1218-1278), patrona delle domestiche e dei fiori tanto che, in suo onore, ogni anno il 27 aprile, giorno della sua memoria liturgica, in città si celebra la vivace e pittoresca sagra dei fiori. Le antiche cronache raccontano che nella vigilia di Natale dell’ultimo anno di vita della santa, allorché Zita si accingeva a recarsi in San Frediano per la solenne celebrazione liturgica, il padrone presso il quale prestava servizio -il signor Fatinelli- la ricoprì di un ricco mantello bordato di pelliccia per difenderla da quell’inverno particolarmente pungente. Essa però ritenne di farne dono a un poveretto che, su quella porta della chiesa, sembrava morire dal freddo. Tuttavia, una volta tornata al nobile palazzo dove appunto prestava servizio quale domestica, fu ricoperta di invettive dal Fatinelli andato su tutte le furie. Ma, mentre essa tentava vanamente di scusarsi, ricomparve quella strana figura di povero che, restituito il mantello, sparì subito agli occhi dei presenti tra un abbagliante fulgore di luce. Tutti quanti allora, sbigottiti e ammirati, non esitarono a riconoscere, in quelle singolari sembianze, gli inconfondibili tratti di una figura angelica.
Dunque, in estrema sintesi: ben prima rispetto alla data del 1568, cioè l’anno in cui il giovane farmacista Giovanni Leonardi avrebbe lasciato la bottega dello speziale, secondo quella che era la ricorrente dizione di allora, al fine di prepararsi adeguatamente per accedere al sacerdozio, come di fatto poi sarebbe accaduto nel 1571, era avvenuto nel suo animo, per spontanea e naturale induzione, un intenso travaso di sane tradizioni e di secolari costumi che -di fatto-  rimandavano a una ricchezza di popolare e devota spiritualità.
Secondo quanto è tuttora possibile constatare attraverso molteplici attestazioni radicate fin dal lontano alto medioevo, l’ambiente solitamente assai religioso della Repubblica aveva offerto perciò, con generosa larghezza, al neo presbitero un patrimonio culturale di notevole spessore capace di sollecitarlo verso una rispettosa venerazione degli Angeli, sia pure tramite il personale filtro di proprie e convinte coordinate intellettuali coltivate attraverso gli studi biblici e i molteplici commenti acquisiti dall’appassionata lettura della patristica.

Una catechesi senza orpelli


Venendo alla diretta osservazione del manoscritto, l’impatto che incuriosisce in prima istanza verte intorno al suo abito più appariscente ed esteriore. In questo senso il dialogo proposto dal Santo Fondatore si presenta in una veste espositiva piuttosto scolasticistica, vale a dire che lo sviluppo tematico avviene grazie a strutture comunicative articolate attraverso essenziali quesiti cui seguono risposte altrettanto scheletriche. Il tutto risulta formalmente predisposto sulla scorta di una ben acquisita falsariga. L’elaborazione appare perciò in perfetta linea con i moduli dei vari catechismi che si andavano sempre più diffondendo.
Il documento si manifesta speculare riflesso dell’impegno da tempo oggetto di promozione, all’interno del corpo ecclesiale, da parte delle anime più avvertite ormai ben consapevoli della necessità di una catechesi che rendesse percepibile l’annuncio rivelato tramite agevoli operazioni di sintesi. Cioè, c’era bisogno di facili strumenti che mediassero l’approccio al sacro soprattutto in funzione delle persone culturalmente più indifese di fronte alle devianze dottrinali.
Si trattava dunque di una pedagogia verso la quale già due secoli prima si era espresso, e con notevole intuito, il cancelliere dell’Università di Parigi Giovanni Gerson (1363-1429) redigendo il suo: De parvulis ad Christum trahendis.
Grande senso pastorale aveva manifestato Sant’Antonino a Firenze(1389-1459) nel comporre il Libreto de la doctrina christiana la quale è utile et molto necessaria per li pizoli et zovenzelli. L’impara per saper amare et honorare Idio benedetto et schivare le temptationi et peccati.
La bolla De reformatione curiae del concilio Lateranense V espresse la necessità di rinnovamento e puntualizzò il richiamo affinché si curassero le più fondamentali nozioni religiose come il credo, gli inni sacri, i salmi, ecc.  
Nel 1528 Lutero emise un testo adatto ai fanciulli e l’anno seguente pubblicò il Der grosse Katechismus come agile guida per i parroci. Calvino stampò altri due catechismi: uno nel 1536 col titolo Le formulaire d’instruire les enfants en la chretienté e poi quello cosiddetto “di Ginevra”. Da ricordare poi è il Catechismo, ovvero simbolo apostolico di Pietro Martire Vermigli il quale aveva esposto le sue dottrine di dissenso religioso anche a Lucca in S.Frediano proprio negli anni (1540-1541) della nascita del Leonardi.
In campo cattolico, ci furono i manuali di Witzel (1535), del Castellino (1537), dell’oratoriano Crispoldi (1539), del Contarini (1542), del Canisio (1554) e di Domenico Soto (1563). Ma quello che dette una decisiva svolta in proposito fu il testo conciliare del 1566: Catechismus ex decreto Concilii Tridentini ad parochos Pii V Pont. Max. jussu editus.
Da quel documento fiorirono molteplici prontuari finalizzati ad una capillare catechesi. Tra gli stessi, rilevante collocazione meritò quello approntato dal nostro Santo nel 1574 con una precisa finalità pastorale: Doctrina christiana da insegnarsi dalli curati nelle loro parrocchie a’ fanciulli della città di Lucca e sua Diocesi. Lo scritto si colloca, dunque, tra i vari modi di fronteggiare una necessità di vasto respiro ecclesiale qui solo parzialmente tratteggiata.

La conoscenza angelica


Secondo una precisa chiave di lettura, per Giovanni Leonardi ogni tipo di conoscenza va sempre decodificata attraverso puntuali criteri teologici. Ossia qualsiasi pura e semplice gnoseologia non può inverarsi se non in rapporto ad una qualificante acquisizione spirituale. Per cui, solo in quanto accessibile esempio, l’umano apprendimento viene da lui assunto per riflettere sulle modalità di una conoscenza così singolare come è quella degli Angeli.
Da questo punto di vista, il manoscritto affronta il tema dell’apprendere angelico come speculare riflesso della infinita luce di Dio. Per cui alla domanda: ”Intendeno l’Angeli come noi?” e proprio riferendosi al procedimento abituale del nostro modo di acquisizione del reale, la risposta è duplice.  
Essi non avvertono davvero il mortificante limite umano: “Non; perché noi pigliamo la cognitione da queste cose quaggiù materiali”, evocando così la nota sintesi lapidaria del tomismo circa una percezione realizzata lungo i gradini di una faticosa ascesa:“Per sensibilia ad intelligibilia”.
Quindi, prima di tutto l’autore nega con fermezza che avvenga per gli Angeli un simile passaggio. In seguito tiene a chiosare subito la loro unica e irripetibile specificità realizzata grazie a una dinamica esclusivamente“visiva”. Difatti, è proprio questa che costituisce la base della conoscenza angelica. Essa viene a qualificarsi come del tutto originale perché correlata, appunto, alla visione beatifica già in atto e realizzata solo in virtù di un imperscrutabile disegno provvidenziale: “Ma l’Angelo non così. Poiché da Dio nella creatione loro li furno infuse le specie et similitudini di tutte le cose naturali”.
In altri termini, nell’uomo avvengono molteplici passaggi attuati con modalità ascensionali, nel senso che egli cresce per successive gradazioni fino allo sforzo massimo di pervenire ad attingere finalmente il limite del trascendente.
Per gli Angeli, viceversa, il sapere deriva dalla diretta e immediata “lettura” del volto di Dio infusa, in ognuno di essi, nel momento stesso della loro chiamata all’esistenza. Quindi, grazie a questo singolarissimo e incommensurabile dono creativo, per essi il conoscere è già in qualche modo immissione, sia pure solo partecipativa, dentro l’enigma del divino.

La suggestiva bellezza degli Angeli
Infine il dialogo si avvia alla conclusione ponendo particolarmente in luce come una delle note più caratterizzanti che, nella comune sensibilità popolare, viene associata alle figure angeliche sia la incantevole bellezza, quasi come fosse sicuro ed inconfondibile contrassegno di riconosciuta appartenenza.
Cioè il lettore viene indotto a rilevare quanto talvolta -proprio in relazione ad un  percorso di revisione interiore- l’ammaliante fascino degli Angeli possa rivelarsi  così determinante al punto da catturare le anime in virtù di quel singolare e seducente riflesso della divina perfezione. Giovanni Leonardi avverte, quindi, quella incantevole ed armonica presenza angelica quale impercettibile, ma esaltante intuizione di una tale contiguità alla infinita ed assoluta bellezza di Dio che davvero suggestiona e genera nell’animo stupefatta meraviglia.
Ulteriore conferma di un simile convincimento è facilmente desumibile anche da suo “sermone” che potremmo definire quasi concettualmente parallelo al presente passaggio del dialogo che ho appena finito di commentare.
L’omelia -intitolata, neanche a dirlo, De divina pulchritudine- vede segnato il suo abbrivio da un incipit decisamente assiomatico: “Dio è somma beltà…della quale volendo parlare, è come volere votare tutto il mare a goccia a goccia”.
Il brulicante e variegato senso del bello rinvenibile nel creato si dipana, poi, tra  numerose ed armoniche forme con un ruolo di spicco riservato alle figure angeliche rimirate nei loro affascinanti e suggestivi profili. A quel punto l’autore sembra avvertire come una irresistibile ed estatica cattura ancorché sollecitata da indicibile, quasi fisico, diletto e da intimo appagante gaudio.
“La bellezza delli Angioli tutta serà in Dio quale è tanta che non si puol dire.
“Che, se tanta è quella di un’anima, che serà di un Angelo ? “Che se un Angelo solo vidde San Giovanni, ancor’ che fusse quel gran intelletto, così fu bastante di farlo buttare a terra per adorarlo; dal qual fu ripreso dicendoli: <<Noli facere, quia conservus tuus>>[Cfr. Ap. 19,10]. Cosa che serà poi la bellezza di quello ? E che mai e che serà poi di tanti miglioni di miglioni ? E questa poi se tutta fosse unita in una essentia sole, che saria ?
“O Dio, o quor mio, o anima mia! Divengo muto! Perdo il senso! Non so che dirmi, rimango attonito!”
Dalla sdrucita carta di Archivio, attraverso quelle poche e incantate espressioni del Santo, così intensamente cariche di indicibile e gratificata sorpresa, traspare chiarissimo e si consegna alla nostra meditata riflessione un messaggio di piena gratitudine a Colui che, essendo la stessa bellezza infinita, ha voluto elargirne proprio in quelle celestiali creature, e con tanta generosa abbondanza, i tratti più ammalianti e suggestivi.

Vittorio Pascucci OMD

Letto 75747 volte Ultima modifica il Lunedì, 07 Marzo 2022 10:59

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