Cookie Consent by Popupsmart Website

stemma e nome

Archivio luce sul mistero

Archivio luce sul mistero (242)

Sabato, 31 Ottobre 2015 09:32

Le Beatitudini, promessa e programma

358Celebriamo oggi una festa che riguarda soprattutto noi cristiani, discepoli di Gesù Cristo, ma non solo. Sia che siamo ancora viventi, sulla terra, sia che siamo passati attraverso l’esodo della morte e siamo dunque “in cielo”, nel regno di Dio, tutti noi siamo partecipi della beatitudine, della felicità. In un salmo risuona questa domanda: “C’è un uomo che desidera la vita e vuole giorni felici?” (Sal 34,13). L’essere umano cerca la felicità, la vita piena e senza fine, e Gesù vuole dare una risposta a questa sete profonda presente nel cuore di ogni persona.

Ecco dunque davanti a noi le beatitudini di Gesù attestate dal vangelo secondo Matteo, una pagina talmente conosciuta, citata, commentata e predicata che rischiamo di presumere di conoscerla già e di non avere più bisogno di ricominciare a leggerla, meditarla, comprenderla. Gesù ha iniziato il suo ministero pubblico predicando la venuta del Regno (cf. Mt 4,17) e chiamando alla sua sequela alcuni che sono diventati suoi discepoli (cf. Mt 4,18-22). Ormai è un rabbi, un profeta anche per molti credenti di Galilea e di Giudea, e attorno a lui c’è una piccola folla, nella quale abbondano malati, oppressi, poveri, persone che soffrono e piangono (cf. Mt 4,23-25). Gesù sa guardare a quelli che lo cercano, lo incontrano e lo seguono, sa discernere innanzitutto la loro fatica e la loro sofferenza ed è profondamente toccato dai mali delle persone. Non è un predicatore distaccato, che annuncia e parla guardando solo a Dio che lo ha inviato e lo ispira in ogni momento; sa anche guardare all’uditorio concreto, a chi ha di fronte e, come sa ascoltare Dio, così sa ascoltare questa gente che si rivolge a lui con gemiti, invocazioni, lamenti, domande senza risposta…

Secondo Matteo, Gesù decide allora di consegnare a queste persone le promesse di Dio, che possono essere anche un programma per chi vuole seguirlo. Sale sul monte, il luogo delle rivelazioni di Dio e, quale nuovo Mosè, ultimo e definitivo (dopo il quale non ce ne saranno altri!), dà la buona notiziail Vangelo. Attenzione: non dà “una nuova Legge” – definizione ambigua e sviante – ma dà una parola di Dio che risuona in modo nuovo e crea il regno dello Spirito santo, non più della Legge. Ecco allora il grido: “‘Ashrè”, parola che in ebraico significa soprattutto un invito ad andare avanti, promessa che è certa e precede quanti vivono una determinata situazione, parola che indica uno stile da assumere, parola che cambia l’ottica con la quale si guardano la vita, la realtà, gli altri.

Noi traduciamo quest’espressione tante volte presente nei Salmi e nella sapienza di Israele con “beati” (dal greco makárioi, che i vangeli prendono dalla versione dei LXX), ma purtroppo non abbiamo un termine italiano che ne sveli adeguatamente il contenuto. “Beati” non è un aggettivo, è un invito alla felicità, alla pienezza di vita, alla consapevolezza di una gioia che niente e nessuno può rapire né spegnere (cf. Gv 16,23). “Beati” ha anche il valore di “benedetti” (cf. Mt 25,34), in opposizione ai “guai” (cf. Mt 23,13-32; Lc 6,24-26), ma indica qualcosa che non è soltanto un’azione di Dio che rende giusti e salvati nel giorno del giudizio (cf. Sal 1,1; 41,2), ma che già da ora dà un senso, una speranza consapevole e gioiosa a chi è destinatario di tale parola. Promessa e programma! Nessuno dunque pensi alla beatitudine come a una gioia esente da prove e sofferenze, a uno “stare bene” mondano. No, la si deve comprendere come la possibilità di sperimentare che ciò che si è e si vive ha senso, fornisce una “convinzione”, dà una ragione per cui vale la pena vivere. E certo questa felicità la si misura alla fine del percorso, della sequela, perché durante il cammino è presente, ma a volte può essere contraddetta dalle prove, dalle sofferenze, dalla passione.

La promessa fatta solennemente da Gesù, parola potente di Dio, è il regno dei cieli, non un luogo, ma una relazione: essere con Dio, essere suoi figli, così come chi non è beato resta lontano e separato da Dio. Questo regno, dove Dio regna pienamente, è la comunione dei santi del cielo e della terra, la comunione dei fratelli di Gesù, dei figli di Dio, che noi cristiani dovremmo vivere con consapevolezza, ma che, a causa della nostra philautía, del nostro egoismo, non arriviamo neppure a credere saldamente. Questa esperienza del regnare di Dio su di noi possiamo farla qui e ora, alla sequela di Gesù: ciò accade quando su di noi non regnano né idoli, né poteri di nessun tipo, quando sentiamo che solo Dio e il Vangelo di Gesù ci determinano, ci muovono, ci tengono in piedi. È questo il caso in cui possiamo dire, umilmente ma con stupore, senza pensare di avere meriti, che Dio regna in noi, su di noi, dunque il regno di Dio è venuto: sempre però in modo non osservabile (cf. Lc 17,20), da noi riconosciuto solo parzialmente, sempre in modo fragile, che possiamo negare con il nostro venir meno all’amore.

Essere “poveri nello spirito”, nel cuore – precisa Matteo –, non semplicemente “poveri” (Lc 6,20), ma esserlo nell’umiltà di chi sa attendere Dio e la sua giustizia (cf. Mt 6,33) può aprire alla beatitudine di chi riceve in dono il regno di Dio.

Essere piangenti è una condizione frequente: le lacrime scorrono sul viso come un’invocazione, un grido a volte muto, ma il Signore raccoglie le lacrime (cf. Sal 56,9), non le dimentica. Ed ecco, manda già ora il Consolatore (cf. Gv 15,26; 16,7) a consolare, affinché ci aiuti ad attraversare la sofferenza e poi alla fine ci doni la gioia eterna, quando Dio asciugherà lacrime da ogni volto (cf. Is 25,8; Ap 7,17; 21,4).

Essere miti tra gli uomini e le donne, miti su questa terra, senza abitarla con prepotenza né violenza, senza riconoscere solo se stessi, rinunciando a ogni volontà di aggressione, fosse anche per difesa, è non solo possedere la terra promessa da Dio, ma già oggi pregustare una risposta amorosa da parte dell’umanità. San Francesco e papa Giovanni con la loro mitezza hanno “posseduto la terra”, nel senso più vero, evangelico, senza attraversare i sentieri del potere e della ricchezza.

Chi ha fame e sete di giustizia, cioè non è mosso dalla legge del vivere nella forza senza riconoscere l’altro, ma è vittima dei fratelli e delle sorelle che non si accorgono di lui, non desista da questa fame e combatta affinché Dio gli dia ora un cibo che lo sostiene e poi nel Regno quella giustizia della quale tanto ha avuto fame e sete.

Chi fa misericordia agli altri “obbligherà” Dio a fargli misericordia, perché Dio – dicevano i padri del deserto – obbedisce ai misericordiosi che sono come lui (cf. Lc 6,36), hanno lo stesso cuore, sono cioè santi come lui è santo (cf. Lv 19,2; 1Pt 1,16).

Essere puri di cuore significa vedere tutte le persone e gli eventi con gli occhi di Dio, vederli con “gli occhi del cuore” (Ef 1,18). Allora la gioia è quella di essere trasparenti, di non dover impiegare il tempo a organizzare la “maschera” con la quale desideriamo apparire agli altri ed essere da loro conosciuti. È la gioia di capire che l’altro è altro, è un dono di Dio, è un fratello o una sorella, e che io accetto di non mettere le mani su di lui o su di lei, di non possederli, sfruttarli, strumentalizzarli.

Un uomo, una donna che sa “fare pace” in ogni situazione di conflitto, da quelle tra i fratelli e le sorelle a quelle tra i popoli, siccome compie ciò che Dio vorrebbe fosse fatto, mostra di essere già qui sulla terra figlio, figlia di Dio, cioè partecipe della sua natura (cf. 2Pt 1,4), e lo sarà definitivamente nel regno dei cieli.

Infine, per tutti i discepoli la beatitudine riguarda il loro stare nel mondo tra le ostilità e le persecuzioni. Se un discepolo di Gesù riceve solo approvazione, applauso, abbia timore e si interroghi se è veramente tale! Almeno l’ostilità, la calunnia, l’opposizione deve conoscerla. Ha detto Gesù: “Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi!” (Lc 6,26). Cercare questo consenso è una delle peggiori tentazioni nella chiesa: compiacere tutti per essere da tutti approvati; sedurre gli altri per ricevere il plauso e avere successo; mancare di parrhesía cristiana (che sembra essere scambiata, all’interno della propria comunità o della chiesa, con la libertà di mormorare!) per essere da tutti apprezzati. Che miseria! Certo, in tal modo si sarà apprezzati e si avrà successo, ma non si conoscerà dentro di sé la gioia più vera, la beatitudine di essere in piena comunione con Gesù Cristo. Per rallegrarsi in profondità occorre invece non guardare ai propri interessi né mettere in atto alcuna strategia, ma “tenere fisso lo sguardo su Gesù” (cf. Eb 12,2) e solo da lui accettare la ricompensa, che consiste nel poter condividere il suo amore.

La comunione dei santi che festeggiamo oggi è gioia, festa per quanti con umiltà, senza arroganza, senza vanti, si riconoscono in queste situazioni sulle quali Gesù ha posto come sigillo la beatitudine.

Commento al Vangelo di ENZO BIANCHI

 
Sabato, 24 Ottobre 2015 12:53

"La tua fede ti ha salvato"

357Con il brano che leggiamo in questa domenica il vangelo secondo Marco conclude il racconto della salita di Gesù a Gerusalemme, ossia l’itinerario del discepolato durante il quale Gesù ha dato insegnamenti, ha formato quanti lo seguivano, nella consapevolezza che giunti a Gerusalemme sarebbe avvenuta “la fine del profeta”, mediante la sua condanna a morte. Subito dopo Gesù entrerà nella città santa, scortato festosamente e acclamato figlio di David, cioè Messia (cf. Mc 11,7-11), evento in qualche modo anticipato nella nostra pagina.

Siamo a Gerico, la porta della Giudea a oriente. Mentre non solo i discepoli ma molti altri seguono Gesù, un cieco che porta il nome di Bar-Timeo (figlio di Timeo), un uomo marginale, ridotto a mendicare sulla strada, uno “scarto” di cui nessuno si prende cura, sente dire che sta per passare Gesù di Nazaret. Essendo cieco, non l’aveva ovviamente mai visto, né l’aveva incontrato, ma la fama di questo rabbi galileo l’aveva raggiunto. Nel suo cuore era certamente presente almeno il desiderio di vedere, la speranza di avere la vista, per poter uscire dalla notte. Udito che Gesù sta passando, inizia dunque a gridare: “Figlio di David, Gesù, abbi pietà di me!”. In questo grido vi è una grande spontaneità, vi è la sua fede giudaica nel Messia veniente, vi è l’attesa di una guarigione, della salvezza, vi è la forza di gridare e di farsi sentire, nella personale convinzione che quel rabbi può fare qualcosa per lui, dunque è un maestro capace di cura e di amore verso chi incontra.

Ma allora come adesso tra Gesù e chi lo cerca ci sono altri: qui è la folla, in altri casi sono i discepoli stessi, cioè la sua comunità, a diventare ostacolo, barriera tra Gesù e chi desidera incontrarlo. Attenzione, ciò accade anche per sante ragioni: paura di disturbare il maestro, volontà di proteggerlo dagli assalti della gente… Bartimeo, però, non desiste, si mette a gridare più forte, e così la sua invocazione raggiunge Gesù. Questi si ferma e lo manda a chiamare. Ciò avviene puntualmente, con le parole che tante volte i discepoli di Gesù avevano udito durante i suoi incontri con chi si trovava nella sofferenza o nel peccato: “Coraggio, alzati!”. Nell’invito espresso con “Coraggio!” (cf. Mt 9,2-22; 14,27; Mc 6,50) c’è il cuore di Gesù, che dice innanzitutto: “Coraggio, non temere, abbi fiducia!”. Questo il primo atteggiamento necessario all’incontro con Gesù: occorre uscire dal timore, dalla sfiducia, dalla mancanza di attesa, dalla visione di se stessi come non degni di essere da lui amati. A quel punto si tratta di alzarsi – verbo egheíro, che esprime anche il risorgere (cf. Mc 5,41; 6,14.16; 12,26; 14,28; 16,6)! – dal giaciglio alla postura dell’uomo che ha speranza (homo spe erectus). Una volta in piedi, si può ascoltare e comprendere che il Signore chiama ciascuno in modo personalissimo e pieno di affetto (“Chiama te”).

Quel cieco, allora, “getta via il suo mantello, balza in piedi e viene da Gesù”. È un povero che non ha nulla, se non il mantello, segno della sua identità di escluso, unica sua inalienabile proprietà (cf. Dt 24,13). Gettandolo, si spoglia di ogni pur minima sicurezza, per stare in piedi di fronte a Gesù. Quest’ultimo non presume il bisogno di chi lo ha invocato, non si rivolge a lui in modo meccanico e anonimo, ma proprio per conoscere dalle sue parole il bisogno che lo abita gli domanda: “Che cosa vuoi che io faccia per te?”. E Bartimeo risponde: “Rabbunì, mio grande maestro, che io veda di nuovo!”. La preghiera è desiderio espresso davanti a Gesù, e Bartimeo desidera vedere, ben oltre la semplice visione con gli occhi: vuole vedere anche con il cuore, vuole vedere nella fede, vuole essere nella luce e non nella tenebra…

Di fronte a questa preghiera Gesù allora replica: “Va’, la tua fede ti ha salvato”, parole che egli ha ripetuto spesso di fronte a chi gli chiedeva salvezza (cf. Mc 5,34 e par.; Lc 7,50; 17,19; 18,42). “Va’”, cioè “non essere più paralizzato dalla cecità, rimettiti in cammino, cammina nella luce, perché la tua fede, cioè la tua fiducia nel cercare, nel chiedere, in questo sconosciuto che sono io”, dice Gesù, “ti ha salvato”. Straordinario, Gesù non dice: “Io ti ho salvato”, bensì: “La tua fede ti ha salvato”. Guarigione non solo fisica quella di Bartimeo, ma salvezza che lo investe interamente: infatti, “subito si mette a seguire Gesù lungo la strada”. Si pone alla sequela di Gesù, come i discepoli che sempre lo seguono (cf. Mc 1,18; 2,14.15; 5,37, 6,1; 8,34; 10,21.28.32; 11,9; 14,51.54; 15,41), vanno dietro a lui (cf. Mc 1,17.20; 8,33.34). Colui che era cieco, ai bordi della strada, mendicante, dopo l’incontro con Gesù è capace di seguirlo come un discepolo, verso Gerusalemme. Di più, il suo grido rivolto a Gesù – “Figlio di David!” – subito dopo viene ripreso dalla folla, durante l’ingresso di Gesù nella città santa: “Benedetto il Regno veniente di David nostro padre!” (Mc 11,10). Si potrebbe dire che è questo cieco ad aver intonato per primo le grida di gloria nei confronti di Gesù…

Questo episodio è molto di più di un semplice racconto di miracolo, come il lettore di Marco può ormai capire. Gesù sta per entrare nella città santa per la sua passione e morte, ma i suoi Dodici discepoli lungo tutto quel cammino sono rimasti ciechi. Ascoltavano le sue parole ma non capivano, mostrando di essere ben lontani dal vedere gli eventi come li vedeva Gesù: prima Pietro (cf. Mc 8,32), poi tutti e Dodici (cf. Mc 9,34), infine Giacomo e Giovanni (cf. Mc 10,35-37) sono sembrati ciechi di fronte a ogni rivelazione fatta loro da Gesù. Ma ora ogni lettore può identificarsi con questo cieco di Gerico; deve solo prendere coscienza della propria cecità, gridare al Signore: “Abbi pietà di me!” e avere fede che egli può strapparlo dalla tenebra e fargli vedere ciò che i suoi occhi non riescono a vedere. Sì, in quel mettersi in cammino dietro a Gesù, Bartimeo è per noi più esemplare dei Dodici. E allora? Ognuno di noi si metta davanti al Signore Gesù e, guardando a lui con fede e attesa, si scoprirà non vedente. Allora abbia la forza e il coraggio di gridargli solo: “Signore, abbi pietà di me”, “Kýrie eleison”, questa invocazione brevissima eppure così completa rivolta a lui, con piena fiducia che egli può salvarci.

Commento al Vangelo di ENZO BIANCHI 
Sabato, 17 Ottobre 2015 07:43

Tra voi non è così

359Nel vangelo secondo Marco dopo ognuno dei tre annunci della passione fatti da Gesù nella sua salita a Gerusalemme è registrata una scena di incomprensione da parte dei discepoli. Dopo il primo annuncio (cf. Mc 8,31), è Pietro che arriva a contestare le parole di Gesù (cf. Mc 8,32), facendosi “ostacolo” – “Satana” (Mc 8,33), come lo chiama Gesù  sul cammino che Dio ha assegnato a suo Figlio. Quando Gesù afferma per la seconda volta la necessitas passionis (cf. Mc 9,31), tutti i discepoli, come intontiti, non comprendono, anzi si mettono a discutere su chi tra loro può essere considerato il più grande (cf. Mc 9,32-34).

Nel brano evangelico di questa domenica, dopo il terzo annuncio della sua sofferenza e morte, passaggio inevitabile verso la resurrezione (cf. Mc 10,32-34), sono Giacomo e Giovanni che mostrano quanto sono distanti dal modo di pensare di Gesù. I due fratelli hanno seguito Gesù fin dall’inizio del suo ministero pubblico, sono i suoi primi compagni insieme a Pietro e ad Andrea, hanno abbandonato tutto, famiglia e professione, per stare con lui (cf. Mc 1,16-20), e in qualche modo si sentono gli “anziani” della comunità. Essendo figli di Salome, probabilmente sorella di Maria, la madre di Gesù (cf. Mc 15,40; Mt 27,56; Gv 19,25), sono cugini di Gesù, dunque suoi parenti, appartenenti alla famiglia, al clan, e per questo pensano di vantare precedenze sugli altri. Eccoli allora presentarsi a Gesù per dirgli ciò che pensano di “meritare” per l’avvenire, quando Gesù, il Re Messia, stabilirà il suo regno: “Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”. È una pretesa più che una domanda, fatta da chi ragiona esattamente come tante volte facciamo noi nel quotidiano: le relazioni contano, dunque occorre rivendicare il loro peso… E questo non avviene solo tra noi uomini e donne, fratelli e sorelle, perché anche nei confronti di Dio vantiamo pretese: siamo noi i credenti, siamo noi i cristiani, dunque presso Dio dobbiamo avere una precedenza sugli altri…

Gesù risponde a Giacomo e Giovanni con infinita pazienza: “Non sapete quello che chiedete”. Risposta anche ironica, perché Gesù sa che nella sua vera gloria, quella sulla croce, alla sua destra e alla sua sinistra ci saranno due malfattori, crocifissi e suppliziati come lui. Vi è qui lo scontro tra due visioni della gloria: i due discepoli la intendono come successo, potere, splendore, mentre Gesù l’ha appena indicata nel servizio, nel dono della vita, nell’essere rigettato in quanto obbediente alla volontà di Dio. Per questo egli tenta ancora una volta di portare i discepoli a guardare non alla gloria come termine finale, ma al cammino che conduce alla vera gloria, quella che essi neppure riescono a immaginare. E lo fa ponendo loro una domanda: “Potete bere il calice che io sto per bere, o ricevere l’immersione nella quale io devo essere immerso?”.

Gesù chiede innanzitutto se sono disposti a bere “il calice della sofferenza”, espressione biblica per indicare la sofferenza da subire (cf. Sal 75,9; Is 51,17.22, ecc.). Si ricordi che Gesù stesso nell’agonia del Getsemani sarà tentato di allontanare da sé quel calice: “Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice!” (Mc 14,36)… Nella sequela di Gesù, nel condividere la sua strada e la sua sorte, vi è per i discepoli una sofferenza da accogliere, senza rivolte e senza la tentazione di esserne esenti. Non solo, c’è anche un’immersione, un “andare sotto”, un affogare momentaneo nei “flutti della morte” (Sal 18,5), che sarà un evento prima per Gesù, ma che poi dovrà essere condiviso da chi si sente coinvolto nella sua vita e vuole stare con lui ovunque egli vada (cf. Ap 14,4). Viene qui impiegato il termine greco báptisma (e il verbo corrispondente baptízein), di cui non comprendiamo più il significato: battesimo è immersione, è andare sott’acqua, è affogare come creatura vecchia per uscire dall’acqua come creatura nuova. Si noti l’insistenza del testo originale, come appare da una traduzione alla lettera: “Potete voi con l’immersione con cui sono immerso essere immersi?”. Ecco il battesimo, che dà inizio sacramentalmente alla vita cristiana, ma che deve diventare esperienza, vita concreta, fino al momento finale della morte, quando i flutti ci travolgeranno, e poi dopo la morte, quando Dio ci chiamerà alla vita eterna attraverso la resurrezione.

Giacomo e Giovanni, sempre “boanèrghes, cioè ‘figli del tuono’” (Mc 3,17), rispondono affermativamente alla domanda di Gesù, e capiranno solo più tardi il prezzo di questa disponibilità: quando Marco scrive il vangelo, intorno all’anno 70, sa che nel 44 Giacomo era stato martirizzato da Erode a Gerusalemme (cf. At 12,2) e Giovanni secondo alcune tradizioni farà la stessa fine… In ogni caso, Gesù accoglie questa loro spontanea professione di disponibilità alla croce, ma ricorda anche che non spetta a lui concedere di sedere alla sua destra o alla sua sinistra, ma “è per coloro per i quali è stato preparato” dal Padre (passivo divino). Sta di fatto che questa che questa richiesta dei due fratelli – che Matteo, per riguardo a Giacomo e a Giovanni, pone in bocca alla loro madre (cf. Mt 20,20) – suscita subito una reazione sdegnata negli altri con-discepoli, che li contestano per gelosia e perché infastiditi dalla loro pretesa.

Allora Gesù li chiama tutti e dodici intorno a sé e dà loro una lezione molto istruttiva, perché è un’apocalisse del potere mondano, politico. Dice: “Voi sapete”, perché basta guardare, osservare, “che coloro i quali sono considerati i governanti delle genti dominano, spadroneggiano su di esse, e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così (Non ita est autem in vobis)”. Attenzione, Gesù non dice: “Tra voi non sia così”, facendo un augurio o impartendo un comando, ma: “Tra voi nonè così”, ovvero, “se è così, voi non siete la mia comunità!”. Non è possibile che la comunità cristiana abbia come modello il potere mondano, che si lasci conformare a ciò che fanno i governi, quasi sempre ingiusti e spesso totalitari: il governo nella comunità cristiana è “altro”, oppure non è governo, ma dominio. D’altra parte, Gesù non nega la necessità di un governo nella società umana, ma lo legge nella sua realtà, come si manifesta in concreto. Sì, a volte c’è qualcuno che merita il governo perché sa esercitarlo nella giustizia, ma è evento raro, perché le forze mondane, i poteri oscuri lo rimuovono presto…

Ecco dunque la vera “costituzione” data alla chiesa: una comunità di fratelli e sorelle, che si servono gli uni gli altri, e tra i quali chi ha autorità è servo di tutti i servi. Nella chiesa non c’è possibilità di acquisire meriti di anzianità, di fare carriera, di vantare privilegi, di ricevere onori: occorre essere servi dei fratelli e delle sorelle, e basta! Il fondamento di questa comunità è proprio l’evento nel quale il Figlio dell’uomo, Gesù, si è fatto servo e ha dato la sua vita in riscatto per le moltitudini, cioè per tutti. Gesù non ha dominato, ma ha sempre servito fino a farsi schiavo, fino a lavare i piedi, fino ad accettare una morte ignominiosa, assimilato ai malfattori. Sì, Gesù è il Servo sofferente tratteggiato dal profeta Isaia nel brano che in questa domenica ascoltiamo come prima lettura: “Dopo il suo intimo tormento”, cioè dopo aver conosciuto la sofferenza, “il giusto mio Servo” – dice il Signore – “giustificherà le moltitudini (rabbim), egli si addosserà le loro iniquità” (Is 53,11).

Questo vangelo non riguarda solo la comunità storica di Gesù, i Dodici, ma riguarda soprattutto noi, la chiesa oggi. In particolare, riguarda quelli che nella comunità cristiana esercitano un servizio, sempre tentati di farlo diventare dominio, potere, sempre tentati di lavorare per sé e non per il bene della comunità.
Venerdì, 09 Ottobre 2015 10:53

"Fissò lo sguardo su di lui e lo amò"

258Anche il brano evangelico di questa domenica, come quello di domenica scorsa, giorno di apertura del sinodo, sembra scritto appositamente per l’evento di grazia che la chiesa sta vivendo. Se infatti domenica scorsa la buona notizia era quella della volontà del Dio creatore sull’uomo e sulla donna uniti nell’alleanza della famiglia (cf. Mc 10,6-9), oggi il vangelo ci annuncia che, a causa del regno di Dio, la famiglia va relativizzata: se è vero che la via ordinaria della sequela di Cristo è il matrimonio, tuttavia “a causa di Gesù e del Vangelo” la famiglia può essere abbandonata (come è successo realmente e concretamente ai dodici discepoli) o può non essere scelta da quanti accolgono la chiamata a “farsi eunuchi per il regno dei cieli” (Mt 19,12). Di più, se nel vangelo di domenica scorsa Gesù, citando l’in-principio della Genesi, affermava: “L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna” (Mc 10,7; Gen 2,24), all’inizio della vicenda di Gesù con i suoi discepoli si legge un’affermazione significativamente parallela: “Giacomo e Giovanni lasciarono il loro padre Zebedeo … e andarono dietro a Gesù” (Mc 1,20). Lasciare i precedenti legami familiari per vivere l’avventura del matrimonio, lasciarli per vivere l’avventura del celibato alla sequela di Gesù…

Ora, è bene che un sinodo che nel suo Instrumentum laboris non contiene una parola sul celibato per il Regno la riceva dalle Scritture lette nella liturgia. Questo brano evangelico è talmente conosciuto, è stato così tante volte predicato e usato a fini vocazionali, che rischiamo di pensare di averlo compreso una volta per tutte e dunque, “conoscendolo già”, di poterlo leggere rapidamente. Cerchiamo invece, innanzitutto, di ascoltarlo bene, con cuore docile e aperto. L’episodio narrato da Marco, collocato sempre durante la salita di Gesù e dei suoi discepoli a Gerusalemme, ha come protagonista “un tale”, un uomo anonimo, certamente un giudeo, un uomo che condivide con molti l’ammirazione per il rabbi di Galilea. Con venerazione si presenta a Gesù e, inginocchiandosi davanti a lui (come davanti al Signore nella liturgia), lo chiama: “Maestro buono”. Gesù però reagisce a tale qualifica e ricorda che “buono” (agathós) si può dire solo di Dio, perché solo Dio è veramente la bontà, l’amore, la grazia (cf. Es 34,6-7).

Quest’uomo pone a Gesù una domanda significativa per la fede giudaica: “Che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”. Sì, c’è una salvezza, una beatitudine futura promessa da Dio a chi crede, a chi appartiene al suo popolo, ma concretamente, nella vita ordinaria, quotidiana, che cosa occorre fare? Domanda pertinente anche per noi, oggi, perché la fede nel Dio vivente non può essere solo adesione intellettuale, desiderio di lui, sentimento di amore, seppur profondo… Anche l’amore comandato da Dio, amore per lui, il Signore (“Amerai il Signore tuo Dio…”: Dt 6,5), deve significare un modo di vivere, un “fare”, un comportarsi secondo la sua volontà (cf. Gv 14,15; 1Gv 5,3). Non è sufficiente avere una fede ortodossa, puntuale, e non basta confessare Dio con le labbra, nel culto!

Per questo Gesù, da interprete acuto e fedele della Legge di Mosè, risponde citando le parole dell’alleanza, i comandamenti tratti dalle dieci parole, ma significativamente solo quelli che riguardano le relazioni con il prossimo: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso” (Es 20,13-16; Dt 5,17-20). Riassume poi i precetti in “non fare torto a nessuno” (Dt 24,14), e al vertice mette quello che nella lista è il primo in riferimento al prossimo: “Onora tuo padre e tua madre” (Es 20,12; Dt 5,16). Questo modo di rispondere di Gesù a un credente è significativo: egli afferma che la salvezza si gioca nei rapporti con gli altri, con il prossimo. Non gli dice come vivere il rapporto con Dio, né cosa credere o sperare: per la salvezza e la beatitudine futura tutto si decide sull’amore concreto vissuto qui e ora verso gli altri, verso i fratelli e le sorelle in umanità. Sì, “non fare torto a nessuno”, “amare il prossimo come se stesso” (cf. Mt 19,19; Lv 19,18) è ciò che è indispensabile per la salvezza!

Quello (solo secondo Matteo è “giovane”: Mt 19,20) allora ribatte: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”. Parole oggettivamente straordinarie: chi infatti potrebbe dire lo stesso di sé? Parole dunque pretenziose, prive della necessaria umiltà? Marco non ci permette di giudicare queste parole, ma forse sono proprio esse a spiegare l’esito dell’incontro con Gesù. Quest’ultimo, udita l’affermazione dell’altro, “fissò lo sguardo su di lui e lo amò” (egápesen autòn). Sì, Gesù lo ama, come se gli avesse fatto giungere un suo bacio, e in quel flusso di amore preveniente e gratuito gli dice: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!” (deûro akoloúthei moi). Non c’è vocazione, chiamata se non nell’amore: solo amando il Signore chiama, solo baciando Gesù chiede di seguirlo! Ma conosciamo l’esito: quest’uomo si rattrista e se ne va addolorato. Sì, perché quando si rifiuta l’amore, l’esito è la tristezza. Ciò che era determinante era l’amore di Gesù, non le sue parole, che potevano anche essere altre. Gesù lo ha amato, ed egli non ha accolto quell’amore: questa la causa della tristezza.

Allora Gesù rivela ai discepoli che, per accogliere l’amore, occorre non avere degli altri amori che seducono e alienano, come il denaro, la ricchezza, il potere. Chi possiede queste cose non sa discernere l’amore, che chiede accoglienza, perché è già sazio, autosufficiente, non ha bisogno di essere amato da un altro. Pietro allora interviene per ricordare che lui e gli altri hanno lasciato tutto per seguire Gesù: hanno lasciato la casa, la famiglia (madre, padre, fratelli e sorelle), i figli che avevano o ai quali avevano rinunciato… Forse Pietro mendicava un riconoscimento di Gesù per la loro rinuncia a ciò che è buono e santo come una famiglia, ma che per loro era una perdita, non un guadagno (cf. Fil 3,7), se paragonato allo “stare con Gesù” (cf. Mc 3,14). E Gesù, in risposta, gli dice: “Non c’è nessuno che abbia lasciato tutto questo a causa mia e del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà”.

Oggi si dimentica troppo facilmente anche nella chiesa (ma ci si crede ancora?) che Gesù può chiedere a “chi può fare spazio” (ho dynámenos choreîn choreîto: Mt 19,12) di rinunciare alla famiglia che aveva e a quella che avrebbe potuto crearsi. Il celibato per il Regno non può essere ridotto alla rinuncia all’esercizio sessuale, ma è molto di più: è una “non coniugazione” né psicologica né affettiva, è non avere più una famiglia umana ma vivere e sentire come sufficiente la famiglia dei fratelli e delle sorelle di Gesù. Come gli stesso ha annunciato: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? … Chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre” (Mc 3,33.35). Nella sequela di Gesù si può abbandonare la famiglia carnale per un nuova famiglia, si può vivere il celibato nella fecondità dell’amore di Cristo, dei suoi fratelli e delle sue sorelle. Stiamo attenti a non annacquare lo scandalo della sequela di Cristo, a non nascondere la rinuncia, che è determinante nel seguire Gesù. Abbandonare tutto può essere, per alcuni chiamati dal Signore, il loro “fare” in questo mondo: sempre nel servizio degli altri; sempre nell’amore per il prossimo, chiunque esso sia; sempre mendicando una salvezza che non può mai essere meritata, neanche vivendo le persecuzioni. Nella sequela di Gesù non ci sono primi o ultimi per diritto acquisito, ma solo destinatari dell’amore preveniente di Gesù e della sua misericordia.

Commento al Vangelo di ENZO BIANCHI 
Domenica, 27 Settembre 2015 15:16

Il Signore conosce i suoi

354Il testo evangelico di questa domenica si presenta composito, riportando una serie di parole di Gesù appartenenti a contesti diversi ed eterogenei, eppure legate da alcune espressioni ricorrenti: “nel tuo/mio nome”, “scandalizzare”. Mi soffermerò dunque unicamente sull’episodio dell’esorcista che compie azioni di liberazione pur non seguendo Gesù.

Gesù sta continuando il cammino verso Gerusalemme insieme ai suoi discepoli, ma il clima comunitario non è pacifico. Egli fa annunci della sua passione e i discepoli non capiscono (cf. Mt 9,32) o si ribellano, come Pietro (cf. Mc 8,31-33); quando, in assenza di Gesù, viene chiesto ai discepoli di guarire un ragazzo epilettico, forse giudicato posseduto da uno spirito impuro, essi si mostrano incapaci di liberarlo dalla malattia (cf. Mc 9,14-29); infine, tutti i Dodici si mettono a discutere su “chi tra loro fosse più grande” (Mc 9,34). Sì, ormai tra Gesù e la sua comunità vi è distanza, incomprensione. Se il passo di Gesù è sempre convinto, con uno scopo preciso che gli richiede una radicale obbedienza, quello dei discepoli è invece incerto e sbandato. Nel vangelo secondo Marco tutto il viaggio verso la città santa sarà caratterizzato da questa tensione tra Gesù e i suoi, dall’incomprensione da parte di tutti, nessuno escluso.

Ed ecco, puntualmente, un nuovo episodio che attesta tale stato di cose: Giovanni, il fratello di Giacomo, uno dei primi quattro chiamati (cf. Mc 1,16-20), uno dei discepoli più intimi di Gesù, testimone privilegiato della sua trasfigurazione (cf. Mc 9,2), vede un tale che scaccia demoni, compie azioni di liberazione sui malati nel nome di Gesù, pur non facendo parte della comunità, dunque non seguendo Gesù con gli altri discepoli. Allora si reca da Gesù e dichiara risolutamente: “Lo abbiamo visto fare ciò e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva”. Cosa c’è in questa reazione di Giovanni? Certamente uno zelo mal riposto, ma uno zelo che rivela un amore per Gesù, una gelosia nei suoi confronti: se uno usa il nome di Gesù, dovrebbe seguirlo e dunque fare corpo con la sua comunità… Mescolato a questo sentimento vi è però anche uno spirito di pretesa, il pensiero che solo i Dodici siano autorizzati a compiere gesti di liberazione nel nome di Gesù; c’è un senso di appartenenza che esclude la possibilità del bene per chi è fuori dal gruppo comunitario; c’è la volontà di controllare il bene che viene fatto, affinché sia imputato all’istituzione alla quale si appartiene.

Sono qui ritratte le nostre patologie ecclesiali, che a volte emergono fino ad avvelenare il clima nella chiesa, fino a creare al suo interno divisioni e opposizioni, fino a fare della chiesa una cittadella che si erge contro il mondo, contro gli altri uomini e donne, ritenuti tutti nello spazio della tenebra. Dobbiamo confessarlo con franchezza: negli ultimi trent’anni il clima della chiesa è stato avvelenato in questo modo e tale malattia non è ancora stata vinta. Vi sono movimenti ecclesiali che si ergono a giudici degli altri, che si ritengono una chiesa migliore di quella degli altri. Vi sono cristiani che, con certezze granitiche, giudicano gli altri fuori della tradizione o della chiesa cattolica e aspettano di poter ascoltare da parte dell’autorità ecclesiastica condanne verso quanti non somigliano a loro o non fanno parte del loro movimento, che cede a tentazioni settarie. Non possiamo negare che molti hanno dovuto soffrire e sentirsi figli bastardi, poco amati da una chiesa che privilegiava altri in quanto militanti, facili e ben disposti a essere ingaggiati in battaglie contro il mondo.

Guai alla comunità cristiana che pensa di essere chiesa autentica, guai all’autoreferenzialità e all’autarchia spirituale, atteggiamenti di chi pensa di non avere bisogno delle altre membra, perché si crede lui il corpo di Cristo (cf. 1Cor 12,12-27). Cristo è Signore, è il Signore di tutta la chiesa e lui solo conosce i suoi (cf. 2Tm 2,19): non spetta dunque ai suoi, o ai pretesi suoi, giudicare altri come zizzania, fino a tentare di estirparli (cf. Mt 13,24-30). Cristo trascende le frontiere di ogni comunità cristiana e può operare il bene in molte forme attraverso la potenza del suo Spirito santo, che “soffia dove vuole” (Gv 3,8). Nella chiesa, purtroppo, si soffre di questa malattia dell’“esclusivismo” e facilmente non si riconosce all’altro la capacità di compiere il bene, di operare per la liberazione dell’uomo dai mali che lo opprimono.

Papa Francesco in questi pochi anni di pontificato è tornato più volte a denunciare questi mali ecclesiastici, chiedendo soprattutto ai cristiani appartenenti ai movimenti di imparare a camminare insieme agli altri cristiani, non separati, non al di sopra, non con itinerari in opposizione. La diversità è ricchezza, è multiforme grazia dello Spirito che rende policroma la chiesa (cf. Ef 3,10), la sposa del Signore, la rende più bella. Se uno fa il bene in nome di Cristo, questo bene va innanzitutto riconosciuto, non negato, e poi occorre avere fiducia in lui: se compie il bene in nome di Gesù, potrà forse subito dopo parlare male di lui? “Chi non è contro di noi è per noi”, chiosa lo stesso Gesù. Ovvero, egli esorta ad accettare di non essere i soli a compiere il bene, ad accettare che altri, diversi da noi, che neppure conosciamo, possano compiere azioni segnate dall’amore. Si tenga anche presente che vi sono molti che sembrano seguire Gesù, profetizzare, scacciare demoni e compiere miracoli nel suo nome (cf. Mt 7,22), che magari hanno anche una pratica di ascolto delle sue parole e una pratica sacramentale eucaristica (“Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza”: Lc 13,26). Tutti costoro, però, risulteranno estranei al Signore, che dirà loro: “Non vi ho mai conosciuti: allontanatevi da me, voi che avete operato il male!” (Mt 7,23; cf. Lc 13,27).

La vera domanda che dobbiamo porci non è dunque: “Chi è contro di me, contro di noi?”, bensì: “Sono io, siamo noi di Cristo?”. Scrive l’Apostolo Paolo: “Tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” (1Cor 3,22-23). Ovvero: se non siamo di Cristo, se non abbiamo i suoi “modi” (cf. Didaché 11,8) e il suo pensiero (cf. 1Cor 2,16), non siamo nulla: non abbiamo sale in noi stessi, ma siamo come il sale insipido (cf. Mc 9,50), che “serve solo ad essere gettato via e calpestato” (Mt 5,13). La nostra responsabilità è quella di lottare ogni giorno contro noi stessi, non contro presunti nemici esterni, perché niente e nessuno può impedirci di vivere il Vangelo, se non noi!

Commento al Vangelo di ENZO BIANCHI 
Sabato, 19 Settembre 2015 09:54

"Se uno vuole essere il primo..."

353La confessione di Pietro che proclamava Gesù quale Messia (cf. Mc 8,29) rappresenta nel vangelo secondo Marco una svolta nel tempo della predicazione di Gesù. A partire da quell’evento, Gesù cerca di raggiungere Gerusalemme discendendo dalle pendici dell’Hermon e passando per Cafarnao in Galilea.

Questa è l’unica salita di Gesù verso la città santa testimoniata da Marco, e quindi dagli altri sinottici, una salita durante la quale Gesù intensifica l’insegnamento rivolto ai suoi discepoli, alla sua comunità itinerante, continuando ad annunciare loro la necessitas della sua passione e morte. Come già aveva detto all’inizio del viaggio, a Cesarea di Filippo (cf. Mc 8,31), qui ribadisce: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà”; e lo farà ancora poco dopo (cf. Mc 10,33-34). Gesù sta per essere consegnato (paradídomi), verbo forte che indica un essere dato in balìa, in potere di qualcuno. Così avverrà, e Gesù sarà sempre un soggetto passivo di tale azione: consegnato da Giuda ai sacerdoti (cf. Mc 14,10), dai sacerdoti a Pilato (cf. Mc 15,1), consegnato da Pilato perché fosse crocifisso (cf. Mc 15,15).

Il passivo usato negli annunci della passione e la medesima necessitas espressa in tutti e tre i casi indica tuttavia che, sebbene questa consegna avvenga per mano di uomini responsabili delle loro azioni, essa però non accade come un semplice accidente (“a Gesù è andata male…”), bensì secondo ciò che è conforme alla volontà di Dio. Ovvero, che un giusto non si vendichi, non si sottragga a ciò che gli uomini vogliono e possono fare nella loro malvagità: rigettare, odiare, perseguitare, mettere a morte chi è giusto, perché gli ingiusti non lo sopportano (cf. Sap 1,16-2,20). Necessitas umana, dunque, innanzitutto: in un mondo di ingiusti, il giusto non può che patire ed essere condannato. È stato sempre così, in ogni tempo e luogo, e ancora oggi è così… Dio non vuole la morte di Gesù, ma la sua volontà è che il giusto resti tale, fino a essere consegnato alla morte, continuando ad “amare fino alla fine” (cf. Gv 13,1). Il giusto mai e poi mai consegna un altro alla morte ma, piuttosto di compiere il male, si lascia consegnare: ecco la necessitas divina della passione di Gesù.

Come Pietro al primo annuncio (cf. Mc 8,32-33), qui tutti i discepoli si rifiutano di comprendere le parole di Gesù e, chiusi nella loro cecità, neppure lo interrogano. Ma ecco che, giunti nella loro casa di Cafarnao, Gesù e i suoi sostano per riposarsi. In quell’intimità Gesù domanda loro: “Di che cosa stavate discutendo per la strada?”. La risposta è un silenzio pieno di vergogna. I discepoli, infatti, sanno di che cosa hanno parlato, sanno che in quella discussione vi era stato in loro un desiderio e un atteggiamento peccaminoso: ognuno era stato tentato – e forse lo aveva anche espresso a parole – di aspirare e di pensarsi al primo posto nella comunità. Avevano rivaleggiato gli uni con gli altri, avanzando pretese di riconoscimento e di amore. Gesù allora li chiama a sé, chiama soprattutto i Dodici, quelli che dovranno essere i primi responsabili della chiesa, e compie un gesto. Prende un piccolo (paidíon), un povero, uno che non conta nulla, lo mette al centro, e abbracciandolo teneramente, afferma: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”. Un bambino, un piccolo, un povero, un escluso è posto in mezzo al cerchio di un’assemblea di primi, di uomini destinati ad avere il primo posto nella comunità, per insegnare loro che se uno vuole il primo posto, quello di chi governa, deve farsi ultimo e servo di tutti.

Stiamo attenti alla radicalità espressa da Gesù nel vangelo secondo Marco. Se c’è qualcuno che pensa di poter giungere al primo posto della comunità, allora per lui è semplice: si faccia ultimo, servo di tutti, e si troverà a essere al primo posto della comunità. Non ci sono qui dei primi designati ai quali Gesù chiede di farsi ultimi, servi, ma egli traccia il cammino opposto: chi si fa ultimo e servo di tutti si troverà ad avere il primo posto, a essere il primo dei fratelli. Sì, un giorno nella chiesa si dovrà scegliere che deve stare al primo posto, chi deve governare: si tratterà solo di riconoscere come primo colui che serve tutti, colui che sa anche stare all’ultimo posto. Gesù confermerà e anzi amplierà questo stesso annuncio poco più avanti: “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servo, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti” (Mc 10,42-44).

E invece sappiamo cosa accadrà in ogni comunità cristiana: si sceglierà il più brillante, il più visibile, quello che s’impone da sé, magari il più munito intellettualmente e il più forte, addirittura il prepotente, lo si acclamerà primo e poi gli si faranno gli auguri di essere ultimo e servo di tutti. Povera storia delle comunità cristiane, chiese o monasteri… Non a caso gli stessi vangeli successivi prenderanno atto che le cose stanno così, e allora Luca dovrà esprimere in altro modo le parole di Gesù: “Chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve” (Lc 22,26). Ma se la parola di Gesù fosse realizzata secondo il tenore del vangelo più antico, allora saremmo sempre fedeli al pensiero e alla volontà di Gesù!

Al termine di questo brano evangelico soprattutto chi è pastore nella comunità (ad esempio, per ora, anch’io) si domandi se, tenendo il primo posto, essendo chi presiede, il più grande, sa anche tenere l’ultimo posto e sa essere servo dei fratelli e delle sorelle, senza sogni o tentativi di potere, senza ricerca di successo per sé, senza organizzare il consenso attorno a sé e senza essere prepotente con gli altri. Da questo dipende la verità del suo servizio, che potrà svolgere più o meno bene, ma senza desiderio di potere sugli altri o, peggio ancora, di strumentalizzare gli altri. Nessuno può essere “pastore buono” come Gesù (Gv 10,11.14), e le colpe dei pastori della chiesa possono essere molte: ma ciò che minaccia il servizioè il non essere servi degli altri, il fare da padrone sugli altri.

Commento al Vangelo di ENZO BIANCHI 
Sabato, 12 Settembre 2015 21:11

Gesù, "Messia al contrario"

352È facilissimo dare a Gesù un’identità secondo i nostri desideri ed è anche facile giungere a dire chi lui è, ma è molto più difficile accettare che sia lui a spiegare e a dire la propria identità. Il brano evangelico di questa domenica vuole proprio interrogarci sulla nostra fede-adesione conoscitiva a Gesù. Ascoltiamolo dunque.

Gesù nel suo ministero, con la sua parola autorevole, con il suo comportamento e con le azioni di liberazione dal male che compiva, destava domande sulla sua identità: “Che è mai questo?” (Mc 1,27); “Chi è mai costui?” (Mc 4,41); “Da dove gli vengono queste cose? E che tipo di sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria?” (Mc 6,2-3). Vi erano giudizi su di lui: veniva definito bestemmiatore (cf. Mc 2,7), “pazzo, fuori di sé” (Mc 3,21), posseduto dal demonio (cf. Mc 3,22). Vi erano, infine, anche urla di demoni che, scacciati da Gesù, gli gridavano: “Tu sei il Santo di Dio” (Mc 1,24), “il Figlio del Dio Altissimo” (Mc 5,7).

Sono dunque i demoni che sanno esprimere la vera identità di Gesù, con la loro conoscenza sovrumana, mentre gli uomini non sanno o sanno poco. Al massimo arrivano a pensare che sia un profeta mandato da Dio (cf. Mc 6,15), perché compie i segni di Elia e di Eliseo, perché parla come gli antichi profeti, con la loro franchezza e autorevolezza, dovuta al fatto che dice quello che pensa e che vive, senza ipocrisie e senza vantare autorità acquisite per qualità sacerdotale o professionale. Queste si acquisivano per appartenenza a una discendenza o per aver frequentato una scuola rabbinica, come quelle di Gerusalemme o di Tiberiade. Ma Gesù non può vantare nulla di tutto ciò: dunque, chi è in verità?

Egli approfitta di un viaggio insieme alla sua comunità fuori della terra santa, in una regione sirofenicia e pagana, alle pendici dell’Hermon, presso le sorgenti del Giordano, per chiedere ai discepoli la loro opinione su di lui. È Gesù stesso a interrogarli, nei dintorni di Cesarea di Filippo (la città che porta il nome di Cesare, il potente dominatore di questo mondo!), innanzitutto chiedendo che cosa la gente dice di lui. Essi lo sanno, perché quanti non osavano avvicinare Gesù potevano parlare con loro, manifestando opinioni sul loro rabbi. I discepoli, in risposta, riferiscono a Gesù l’opinione più diffusa: la gente pensa che egli sia un uomo autorevole, un profeta, così simile al Battista suo maestro ucciso da Erode (cf. Mc 6,17-29), al punto da pensare che quest’ultimo fosse risuscitato dai morti (cr. Mc 6,16); oppure lo paragonano a Elia, il profeta degli ultimi tempi. In ogni caso, è percepito come un profeta.

Gesù però non si ferma a questa prima domanda, e pone loro quella seria e decisiva: “E voi, ciascuno di voi, chi dite che io sia?”. Questa domanda esige che i discepoli si chiedano se anche loro seguono l’opinione comune, ciò che quasi tutti pensano, oppure se hanno un proprio pensiero. Certamente tra i discepoli gli stessi Dodici non la pensavano tutti allo stesso modo. Per Marco è però importante la dichiarazione di Pietro, colui che tra i Dodici teneva il primo posto. È lui – e non a nome di tutti, o come portavoce, ma personalmente – a proclamare: “Tu sei il Cristo, il Messia!”. Pietro dice che Gesù è più di un profeta, è l’inviato di Dio, unto dal Signore per stabilire il regno di Dio. Quella di Pietro è una vera confessione di fede, nella sua espressione teologica, perché Gesù è veramente il Cristo, il Messia (come appare fin dal primo versetto del vangelo secondo Marco), e questo sarà il suo titolo più importante per i giudei, per Israele. E tuttavia l’evangelista non mette in bocca a Gesù parole che confermino tale confessione, che dicano un “amen” un “sì” a Pietro (come invece in Mt 16,17-19). Nel vangelo più antico questa confessione è accolta da Gesù nel silenzio e con l’imposizione del silenzio, perché era vera, ma poteva essere insufficiente, dunque doveva essere messa alla prova.

Ed è ciò che puntualmente avviene subito dopo. Non appena Pietro ha confessato la sua fede di giudeo credente, in attesa del compimento della promessa di Dio, ecco che Gesù può iniziare un insegnamento nuovo rispetto a quello della tradizione. Per questo “incominciò” (érxato) a dire che egli, Messia sì, ma – come amava definirsi – Figlio dell’uomo, “doveva soffrire molte cose, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere”. Ecco l’insegnamento nuovo e scandaloso, ma fatto apertamente da Gesù. E allora Pietro che, insieme agli altri Undici, stava dietro a lui (opíso autoû), secondo l’usanza dei discepoli nei confronti del loro rabbi, accelera il passo, gli si pone davanti, lo precede e lo rimprovera. Per Pietro è impossibile un Messia che non trionfi, che non sia vittorioso sui nemici, un Messia rigettato dalle autorità legittime della comunità dei credenti di Israele, un Messia che subisca una morte violenta. E poi, cosa significa questo rialzarsi il terzo giorno?

Gesù allora può solo rispondergli: “Passa dietro a me (opíso mou), alla mia sequela, al tuo posto di discepolo”, e lo definisce “Satana”, cioè oppositore, avversario: a Pietro viene dato il nome del demonio! È facile dire a Gesù che egli è il Cristo, il Messia, ma è impossibile accettare un “Messia al contrario”, un Messia sofferente sconfitto; si tratta davvero di un insegnamento nuovo, e Pietro non è pronto ad accoglierlo… Mosè era morto “sulla bocca di Dio” (Dt 34,5), Elia era stato da Dio assunto in cielo (cf. 2Re 2,1-18), e invece proprio il Messia deve subire violenza, condanna, rifiuto? Non può essere, pensa Pietro… E invece è così – dice Gesù – e in effetti così è stato.

Un abisso separa il piano, la volontà di Dio dai pensieri degli umani (cf. Is 55,8-9), anche dai nostri, dai miei! In verità è tanto facile acclamare Gesù come Cristo, cantarlo e invocarlo; ma accettarne la fine ignominiosa, il fallimento della missione, è scandalo, inciampo, è quasi impossibile per le nostre attese religiose. E poi, al pensiero che dietro a un tale Messia, maestro e profeta si è coinvolti nella sua vicenda, allora siamo presi da paura e preferiamo non credere, non conoscere la vera identità di Gesù. E così siamo cristiani non del Vangelo, ma del campanile; cristiani culturalmente, non perché seguiamo Gesù; cristiani pii e devoti, ma lontani dall’ombra della croce.
Sabato, 05 Settembre 2015 14:01

Effatà, apriti!

352Gesù lascia la regione di Tiro e, passando attraverso il territorio di Sidone, va oltre il lago di Tiberiade, nel territorio della Decapoli. Il suo viaggiare fuori della Galilea, della terra santa, in regioni abitate da pagani, ha un preciso significato: Gesù non fa il missionario in mezzo ai pagani, perché secondo la volontà del Padre la sua missione è rivolta al popolo di Israele, il popolo delle alleanze e delle benedizioni; ma con questo lambire o attraversare velocemente terre impure, vuole quasi profetizzare ciò che avverrà dopo la sua morte, quando i suoi discepoli si rivolgeranno alle genti.

Attorniato da dodici uomini e da alcune donne, Gesù fa strada insegnando ai discepoli e vivendo un essere in disparte rispetto alle folle della Galilea, il che permette a lui e al suo gruppo una certa vita raccolta, intima, più adatta alla formazione e a una più efficace trasmissione della parola di Dio. In questa terra pagana Gesù aveva già guarito la figlia di una donna siro-fenicia, cioè realmente e pienamente pagana, dopo aver opposto un iniziale rifiuto che però non aveva placato l’insistenza della donna: sua figlia era stata liberata dal male che la attanagliava, dietro al quale stava una forza demoniaca (cf. Mc 7,24-30). Ora gli viene presentato un sordo balbuziente, con la preghiera che egli compia il gesto che comunica la benedizione, le energie salutari di Dio: l’imposizione delle mani. Quest’uomo sperimenta una menomazione fisica che è anche simbolica, vera immagine della condizione dei pagani: è sordo alla parola di Dio, che non può ascoltare perché a lui non è rivolta, ed è balbuziente perché tenta di lodare, di confessare Dio, ma non ci riesce pienamente. Ma è soprattutto un uomo menomato nelle facoltà della comunicazione: non può parlare chiaramente a un altro né può ascoltarlo.

Gesù incontra dunque anche quest’uomo. Volendo liberarlo dal male, lo porta in disparte, lontano dalla folla, e con le sue mani agisce su quel corpo altro dal suo, il corpo di un uomo malato. Gli pone le dita negli orecchi, quasi per aprirli, per circonciderli e renderli capaci di ascolto, sicché quest’uomo è reso come il servo del Signore descritto da Isaia: un uomo al quale Dio apre gli orecchi ogni mattina, in modo che possa ascoltare senza ostacoli la sua parola (cf. Is 50,4-5). Poi Gesù prende con le dita un po’ della propria saliva e gli tocca la lingua: è un gesto audace, equivalente a un bacio, dove la saliva dell’uno si mescola con quella dell’altro. C’è qualcosa di straordinario in questo “fare di Gesù”: Gesù tocca gli orecchi e apre la bocca dell’altro per mettervi la sua saliva, compie gesti di grande confidenza, quasi per forzare il sordo balbuziente a sentire le sue mani, il suo lavoro, carne contro carne, corpo a corpo…

L’azione di Gesù è accompagnata da un’invocazione rivolta a Dio: egli guarda verso il cielo ed emette un sospiro, che indica contemporaneamente il suo sdegno per la malattia, l’invocazione della salvezza, la fatica nel guarire. Gesù sta gemendo insieme e tutta la creazione, a tutte le creature imbrigliate nella sofferenza, nella malattia, nella morte (cf. Rm 8,22-23). Qui viene mostrata la capacità di solidarietà di Gesù, che con-soffre con il sofferente, entra in empatia con chi è malato e si pone dalla sua parte per invocare la liberazione. Tutto ciò è accompagnato da una parola emessa da Gesù con forza: “Effatà, apriti!”, che è molto di più di un comando agli orecchi e alla lingua, ma è rivolto a tutta la persona. Aprirsi all’altro, agli altri, a Dio, non è un’operazione che va da sé, occorre impararla, occorre esercitarsi in essa, e solo così si percorrono vie umane terapeutiche, che sono sempre anche vie di salvezza spirituale. Gesù ci insegna che tutta la nostra persona, il nostro corpo deve essere impegnato nel servizio dell’altro: non bastano sublimi pensieri spirituali, non bastano parole, fossero pure le più sante; occorre l’incontro delle carni, dei corpi, degli organi malati, per poter intravedere la guarigione che va sempre oltre quella meramente fisica. Ed ecco che quel sordo balbuziente è guarito, parla correttamente e ascolta senza ostacoli! Gesù però lo rimanda a casa e gli chiede di tacere, così come comanda a quanti avevano visto di non divulgare l’accaduto. Ma i pagani, che non sono giudei e non attendono né il Messia né il profeta escatologico, sono costretti ad ammettere: “Tutto ciò che Gesù fa è ammirabile: fa ascoltare i sordi e fa parlare i muti!”.

Oggi questo compito spetterebbe ai cristiani, alla chiesa: non tanto guarire i malati nell’udito o nella mente, dove stanno gli impedimenti alla parola… Ma cosa sarebbe una chiesa che sa dare l’ascolto a quelli che ne sono privi, che sa parlare a coloro ai quali nessuno parla? Cosa sarebbe una chiesa che sa dare la parola, che autorizza a prendere la parola il semplice fedele, a volte non istruito e incapace di prendere la parola in assemblea? Perché noi cristiani noi diventiamo capaci di “logoterapia”, della quale vi è tanto bisogno nelle nostre comunità sovente mute, incapaci di esprimere un’opinione pubblica e, ancor più, incapaci di dare eloquenza alla loro fede, di annunciare la buona notizia che è nel cuore dei credenti? Sono troppi oggi i sordi balbuzienti che non sanno ascoltare gli altri e parlare loro, comunicando e instaurando una relazione. Nella comunità cristiana occorrerebbe pensare a questo elementare servizio di carità, prima di inventarsene altri (e sono molti nella chiesa!) che Gesù non si è mai sognato di comandarci…

E tu, lettore, esercitati a dire con il tuo cuore: “Effatà, apriti!”, a esprimerlo con il tuo atteggiamento, con il tuo volto capace di dare fiducia all’altro. Ripeti con convinzione: “Effatà, apriti!”, non restare chiuso, entra nella vita, entra nella danza, apriti a ciò che ogni giorno come novità spunta e fiorisce!

Commento al Vangelo di ENZO BIANCHI 
Sabato, 29 Agosto 2015 15:18

Che cosa è impuro?

351Dopo i brani tratti dal capitolo sesto del vangelo secondo Giovanni, la catechesi su Gesù quale “parola e pane della vita”, ritorniamo alla lettura cursiva del vangelo secondo Marco. Lo avevamo lasciato con il racconto della prima moltiplicazione dei pani (cf. Mc 6,30-44), lo ritroviamo con la lettura di alcuni estratti del capitolo settimo, che raccoglie parole di Gesù eco di controversie con i farisei e gli scribi.

Si tratta di parole certamente tramandate e attualizzate dalle chiese, ma che restano sempre Vangelo di Gesù Cristo e nient’altro. Tuttavia, va confessato che di fronte a queste parole, che appaiono una rottura con il giudaismo, i commentatori si dividono tra quanti le interpretano come discorsi partoriti dalla chiesa della fine del primo secolo in polemica contro i farisei, il giudaismo più presente e “combattivo”, e quanti invece insistono sulla rottura radicale, sul misconoscimento da parte di Gesù della Legge che lo precedeva. Non è facile fare discernimento in questa lettura, ma tentiamo tale operazione cercando di non essere debitori verso ideologie giudaizzanti né, d’altra parte, marcionite.

Cosa vuol dire Gesù? Di fronte a “farisei e scribi venuti da Gerusalemme”, dunque ad autorità ufficiali del giudaismo, egli entra in polemica, arriva ad attaccarli direttamente, perché giudica il loro sguardo, il loro spiare lui e i suoi discepoli come comportamento non conforme alla volontà di Dio. I discepoli di Gesù, infatti, vanno a tavola senza prima aver fatto l’abluzione rituale delle mani, comando che nella Torah e è rivolto solo ai sacerdoti che devono fare l’offerta, il sacrificio (cf. Es 30,17-21). Al tempo di Gesù vi erano movimenti che radicalizzavano la Legge, gruppi intransigenti e integralisti che chiedevano ai loro membri di comportarsi come i sacerdoti officianti al tempio, che moltiplicavano e radicalizzavano le prescrizioni della Legge, con una particolare ossessione per il tema della purità. Tra questi vi erano gli chaverim(compagni, amici) e i perushim (separati, farisei) – da alcuni identificati come un unico movimento –, la cui minuziosa legislazione casistica porterà alla formazione della Mishnah.

Gesù lasciava liberi i suoi discepoli da queste osservanze che non erano state richieste da Dio, ma dagli interpreti della parola di Dio, diventando “tradizioni”; e quando gli uomini producono tradizioni vogliono che queste siano “la tradizione”, e perciò le danno la stessa autorità attribuita alla parola di Dio. Ciò avveniva allora, così come avviene oggi nelle chiese! I vangeli ci testimoniano che su tanti temi Gesù si è espresso contestando queste tradizioni che alienano i credenti, non sono a loro servizio, ma creano una mancanza di libertà e sovente finiscono per erigere barriere, per tracciare confini e frontiere tra gli esseri umani. Quanto al caso di cui si tratta in questa pagina, occorre riconoscere che la tavola, da luogo di condivisione, di comunicazione, di esercizio dell’amore, di alleanza, nel giudaismo era progressivamente diventata un luogo di divisione e di scomunica dell’altro: lo straniero pagano, il peccatore, l’impuro non potevano prendervi parte insieme al pio giudeo. Così l’impurità dei cibi vietati a Israele rendeva impossibile agli ebrei stare a tavola insieme a chi apparteneva alle genti pagane, perché ogni non ebreo era ritenuto koinós, profano, e akáthartos, impuro (cf. At 10,28).

Ma per Gesù queste distinzioni non sussistono, e chi le fa non ha conosciuto il pensiero del Signore. Per questo, di fronte al rimprovero rivolto dai farisei ai suoi discepoli, Gesù risponde attaccandoli con la parola stessa di Dio contenuta nei profeti: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi adorano, insegnando dottrine che sono solo precetti umani” (Is 29,13). Gesù è venuto per liberare da quella religione che è fabbrica di immagini di Dio e di suoi precetti che gli esseri umani di ogni cultura si sono dati. E si faccia attenzione: Gesù non vuole contraddire la Legge né la tradizione, ma sa sempre risalire all’intenzione del Legislatore, Dio, come facevano i profeti, affinché la Legge sia accolta nel cuore, con libertà e amore. Gesù accoglie le parole dell’alleanza di Dio con Mosè, ma non accoglie senza operare un discernimento i 613 precetti della tradizione, anche perché sa bene che, se si moltiplicano i precetti, si accrescono anche le possibilità di non osservarli, dunque si moltiplicano le occasioni di ipocrisia. E poi “la parola del Signore rimane in eterno” (Is 40,8; 1Pt 1,24), mentre la tradizione evolve con i mutamenti culturali, con le generazioni e, anche se carica di venerabilità a causa della sua antichità, resta umana, involucro e rivestimento della parola del Signore. È a tutto ciò che Gesù fa riferimento quando afferma, rivolto ai suoi interlocutori: “Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione umana”; e subito dopo, addirittura: “Annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi” (Mc 7,13).

Poi, rivolgendosi alla folla, spiega: “Ascoltatemi tutti e capite in profondità, riflettete, siate intelligenti! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro”. I discepoli, però, non capiscono, e allora Gesù, spazientito, deve dare loro ulteriori chiarimenti: “Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va nella fogna?”. In tal modo Gesù “dichiara puri tutti i cibi”, e poco importa se tale precisazione sia uscita letteralmente dalla sua bocca o sia stata generata dalla chiesa a partire dal suo insegnamento… Infine, Gesù conclude con parole che dovrebbero chiarire la questione una volta per tutte: “Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. Dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo”.

Occorre notare che i peccati enumerati sono tutti contro l’amore, contro il prossimo, perché il peccato si ha solo nei rapporti tra ciascuno di noi e gli altri; non a caso, Gesù ha detto che saremo giudicati solo sull’amore verso gli altri (cf. Mt 25,31-46), sul cuore e sulla sua capacità di relazione, misericordia, purezza, fedeltà. Sì, il male, l’impurità, sta dove manca l’amore e non in altri luoghi in cui gli uomini religiosi vorrebbero trovarlo per mantenere in vita la loro costruzione. Il male, l’impurità, non sta nelle cose, ma è in noi, nella nostra scelta tra l’amore e l’odio, tra il riconoscere l’altro e l’affermare solo noi stessi, tra la nostra volontà di comunione e la nostra voglia di separazione.

Non dimentichiamo, dunque, che possiamo sedere alla tavola dei peccatori, perché Gesù si è seduto alla tavola in cui erano commensali i peccatori, fino a essere definito “un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori” (Mt 11,19; Lc 7,34). Non dimentichiamo che per tutti gli uomini e le donne la tavola è un luogo di comunione, di raduno, di faccia a faccia, di relazione, di celebrazione dell’amicizia, dell’amore e dell’affetto. Perciò non possiamo escludere nessuno dalla tavola: se lo faremo, saremo esclusi noi dalla tavola del Regno! Quanto poi alla tavola eucaristica, non ne è escluso chi è peccatore, si ritiene tale e porge la mano come un mendicante verso il corpo del Signore, mentre ne dovrebbe essere escluso chi non sa discernere il corpo di Cristo (cf. 1Cor 11,29) nel fratello e nella sorella, nel povero, nel peccatore, nell’ultimo, nel senza dignità. Purtroppo, però, è più facile fare l’abluzione delle mani durante la liturgia eucaristica, ripetendo un versetto di un salmo, che non riconoscere il proprio peccato e dire al Signore: “Io non sono degno, ma tu per misericordia entra nella mia casa!”.
 
Commento al Vangelo di ENZO BIANCHI 
Sabato, 22 Agosto 2015 18:57

"Volete andarvene anche voi?"

351Siamo giunti alla fine del capitolo sesto del vangelo secondo Giovanni e in questi ultimi versetti ci viene posto davanti tutto l’urto, lo scandalo che le parole di Gesù hanno causato non solo nelle folle dei giudei ma anche tra i suoi discepoli.

Questa crisi nelle relazioni tra Gesù e la sua comunità è testimoniata da tutti e quattro i vangeli al momento di una parola decisiva di Pietro che confessava, anche se non pienamente, l’identità di Gesù come Messia (cf. Mc 8,29 e par.) e come inviato dal Padre quale Figlio. Perché questa crisi? Perché le parole di Gesù a volte erano dure e urtavano anche gli orecchi di discepoli che lo seguivano con devozione ma non riuscivano ad accettare, ritenendola una pretesa, che Gesù fosse “disceso dal cielo” e che nella carne di un corpo umano fragile e mortale raccontasse il Dio vivente. Nel suo discorso Gesù aveva detto più volte: “Io sono il pane vivente disceso dal cielo” (Gv 6,51; cf. 6,33.38.41-42.58), ma proprio quelli che lo avevano acclamato come “il grande profeta che viene nel mondo” (cf. Gv 6,14) e che avevano voluto farlo re (cf. Gv 6,15), di fronte a queste parole si sentono scandalizzati nella loro fede. Profeta sì, ma disceso dal cielo e corpo consegnato (verbo paradídomi) fino alla morte violenta, corpo da mangiare e sangue da bere (cf. Gv 6,51-56), questo proprio no: sono parole che suonano come una pretesa insopportabile, impossibili da ascoltare!

Gesù, che conosce queste mormorazioni dei discepoli contro di sé, a questo punto non ha paura di dire tutta la verità, a costo di causare una divisione tra i suoi e un abbandono della sua sequela. Potremmo dire che “attacca” i mormoratori: “Questo vi scandalizza? E quando vedrete il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima?”. Cioè, “quando sarete messi di fronte alla realtà del Figlio dell’uomo che, attraverso l’innalzamento sulla croce, sale a Dio dal quale è venuto (cf. Gv 3,14; 8,28; 12,32); quando sarà manifestata la mia piena identità di colui che è disceso da Dio e che a Dio è risalito nella sua umanità assunta come condizione carnale, mortale, ‘simile alla carne del peccato’ (Rm 8,3), allora lo scandalo sarà più grande!”. Gesù fa questo attacco soffrendo tutto il peso dell’incredulità, della non comprensione da parte di quelli che da anni erano coinvolti con lui e assidui alla sua parola. Com’è possibile questo loro comportamento?

Ecco perché egli non può fare altro che constatare che in realtà nessuno può venire a lui se il Padre non lo attira, non glielo concede. Occorre questo dono che non è dato arbitrariamente da Dio ma va cercato, va accolto come dono che non richiede alcun merito da parte di chi lo riceve. Ma anche questo scandalizza le persone religiose, che pretendono sempre che Dio faccia doni non solo secondo i loro desideri ma anche secondo quanto hanno meritato e conseguito. Ciò che di Gesù è scandaloso è il suo consegnarsi in una carne fragile e in un corpo mortale a carni fragili e corpi mortali, cioè gli umani. Com’è possibile che Dio si consegni in un uomo, “il figlio di Giuseppe” (Gv 6,42), creatura che può essere consegnata, tradita, data in mano ai peccatori, come farà proprio uno dei Dodici, Giuda, un servo del diavolo (cf. Gv 6.70)? Qui la fede inciampa nel dover accogliere l’immagine di un “Dio al contrario”, di un “inviato divino, un Messia al contrario”, che è fragile, povero, debole e del quale gli uomini possono fare ciò che vogliono… È lo scandalo dell’umanizzazione di Dio, patito lungo i scoli da molti cristiani, da molte chiese, dall’Islam stesso, e ancora oggi dagli uomini religiosi che accusano di non credere in Dio chi accoglie dal Vangelo il messaggio scandaloso di un Dio fattosi realmente, veramente uomo, carne mortale, in Gesù di Nazaret. La fede cristiana facilmente diventa docetismo, perché preferisce, come tutte le religioni, un Dio sempre e solo onnipotente, un Dio che non può diventare umano.

Per questo Gesù incalza: “Volete andarvene anche voi?”, rivolgendosi a quelli che sono rimasti, in realtà pochi. Gesù non teme, anche se soffre, di restare solo, perché ha fede nella parola che il Padre gli ha rivolto, nella promessa di Dio che non verrà meno. Possono venire meno gli altri, ma Dio resta fedele! A volte mi chiedo perché nella chiesa non si abbia il coraggio di far risuonare ancora oggi queste parole di Gesù, perché si insegni sempre il successo, si guardi al numero dei credenti, si compiano sforzi mirando alla grandezza della comunità cristiana e non alla qualità della fede. Siamo tutti genti di poca fede! La crisi invece, che è sempre fallimento, la allontaniamo il più possibile, la dissimuliamo, la tacciamo, affinché non appaia che a volte perdiamo, cadiamo, falliamo anche nelle nostre imprese ecclesiali e comunitarie più conformi alla volontà del Signore. D’altronde, Gesù userà l’immagine della potatura della vite, per dire che vi sono tralci che vanno potati (cf. Gv 15,2): determinante, però, è che la potatura la compia il Padre, non noi e neppure chi nella comunità cristiana presiede o la lavora come un operaio. Di per sé il Vangelo ha la forza di attrarre e di lasciar cadere: basta che sia annunciato nella sua verità e con franchezza, senza essere edulcorato. Sì, il Vangelo è la Parola di vita eterna, come Pietro risponde a Gesù, confessando che la fede della chiesa è fede nel “Santo di Dio”, cioè fede che in Gesù c’è laShekinah, la Presenza di Dio. dov’è Dio i questo mondo? Non nel Santo del tempio di Gerusalemme, ma nell’umanità fatta carne e sangue di Gesù, il Figlio.

Così termina il discorso di Gesù sul pane della vita. Alla fine probabilmente sono più le cose che non capiamo, le realtà che non riusciamo a percepire, rispetto a ciò che abbiamo compreso. Anche noi siamo forse urtati da queste parole, magari non intellettualmente, ma nell’accoglierle fino a viverle. Se però, come i Dodici, non ce andiamo, ma restiamo con le nostre insufficienze presso Gesù e tentiamo di essergli discepoli, ciò è sufficiente per accogliere il dono gratuito e non rifiutarlo o misconoscerlo: Gesù uomo come noi, nel quale “abita corporalmente tutta la pienezza della vita di Dio” (Col 2,9), Dio stesso.

Commento al Vangelo di ENZO BIANCHI 
© 2024 Ordine della Madre di Dio. All Rights Reserved. Powered by VICIS