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Con Cristo
misurate le cose
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Archivio luce sul mistero (242)
L'Assunzione di Maria al cielo in anima e corpo è l'icona del nostro futuro, anticipazione di un comune destino: annuncia che l'anima è santa, ma che il Creatore non spreca le sue meraviglie: anche il corpo è santo e avrà, trasfigurato, lo stesso destino dell'anima. Perché l'uomo è uno. I dogmi che riguardano Maria, ben più che un privilegio esclusivo, sono indicazioni esistenziali valide per ogni uomo e ogni donna. Lo indica benissimo la lettura dell'Apocalisse: vidi una donna vestita di sole, che stava per partorire, e un drago . Il segno della donna nel cielo evoca santa Maria, ma anche l'intera umanità, la Chiesa di Dio, ciascuno di noi, anche me, piccolo cuore ancora vestito d'ombre, ma affamato di sole. Contiene la nostra comune vocazione: assorbire luce, farsene custodi (vestita di sole), essere nella vita datori di vita ( stava per partorire): vestiti di sole, portatori di vita, capaci di lottare contro il male ( il drago rosso). Indossare la luce, trasmettere vita, non cedere al grande male. La festa dell'Assunta ci chiama ad aver fede nell'esito buono, positivo della storia: la terra è incinta di vita e non finirà fra le spire della violenza; il futuro è minacciato, ma la bellezza e la vitalità della Donna sono più forti della violenza di qualsiasi drago. Il Vangelo presenta l'unica pagina in cui sono protagoniste due donne, senza nessun'altra presenza, che non sia quella del mistero di Dio pulsante nel grembo. Nel Vangelo profetizzano per prime le madri. «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo». Prima parola di Elisabetta, che mantiene e prolunga il giuramento irrevocabile di Dio: Dio li benedisse (Genesi 1,28), e lo estende da Maria a ogni donna, a ogni creatura. La prima parola, la prima germinazione di pensiero, l'inizio di ogni dialogo fecondo è quando sai dire all'altro: che tu sia benedetto. Poterlo pensare e poi proclamare a chi ci sta vicino, a chi condivide strada e casa, a chi porta un mistero, a chi porta un abbraccio: «Tu sei benedetto», Dio mi benedice con la tua presenza, possa benedirti con la mia presenza. «L'anima mia magnifica il Signore». Magnificare significa fare grande. Ma come può la piccola creatura fare grande il suo Creatore? Tu fai grande Dio nella misura in cui gli dai tempo e cuore. Tu fai piccolo Dio nella misura in cui Lui diminuisce nella tua vita. Santa Maria ci aiuta a camminare occupati dall'avvenire di cielo che è in noi come un germoglio di luce. Ad abitare la terra come lei, benedicendo le creature e facendo grande Dio.
I discepoli si sentono abbandonati nel momento del pericolo, lasciati soli a lottare contro le onde per una lunga notte. Come loro anche noi ci siamo sentiti alle volte abbandonati, e Dio era lontano, assente, era muto. Eppure un credente non può mai dire: «Io da solo, io con le mie sole forze», perché non siamo mai soli, perché intrecciato al nostro respiro c'è sempre il respiro di Dio, annodata alla nostra forza è la forza di Dio. Infatti Dio è sul lago: è nelle braccia di chi rema, è negli occhi che cercano l'approdo. E la barca, simbolo della nostra vita fragile, intanto avanza nella notte e nel vento non perché cessa la tempesta, ma per il miracolo umile dei rematori che non si arrendono, e ciascuno sostiene il coraggio dell'altro. Dio non agisce al posto nostro, non devia le tempeste, ma ci sostiene dentro le burrasche della vita. Non ci evita i problemi, ci dà forza dentro i problemi. Poi Pietro vede Gesù camminare sul mare: «Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque». Pietro domanda due cose: una giusta e una sbagliata. Chiede di andare verso il Signore. Domanda bellissima, perfetta: che io venga da te. Ma chiede di andarci camminando sulle acque, e questo non serve. Non è sul mare dei miracoli che incontrerai il Signore, ma nei gesti quotidiani; nella polvere delle strade come il buon samaritano e non nel luccichio di acque miracolose. Come Pietro, fissare lo sguardo su Gesù che ti viene incontro quando intorno è buio, quando è tempesta, e sentire cosa ha da dire a te, solo a te: vieni! Con me tutto è possibile . «E venne da Gesù» dice il Vangelo. Pietro guarda a lui, non ha occhi che per quel volto, ha fede in lui, e la sua fede lo rende capace di ciò che sembrava impossibile. Poi la svolta: ma vedendo che il vento era forte, si impaurì e cominciò ad affondare. In pochi passi, dalla fede che è saldezza, alla paura che è palude dove sprofondi. Cosa è accaduto? Pietro ha cambiato la direzione del suo sguardo, la sua attenzione non va più a Gesù ma al vento, non fissa più il Volto ma la notte e le onde. Quante volte anch'io, come Pietro, se guardo al Signore e alla sua forza posso affrontare qualsiasi tempesta; se guardo invece alle difficoltà, o ai miei limiti, mi paralizzo. Tuttavia dalla paura nasce un grido: Signore salvami! Un grido nel buio, nel vento, nel gorgo che risucchia. E dentro il grido c'è già un abbraccio: ho poca fede, credo e dubito, ma tu aiutami! Ed è proprio là che il Signore Gesù ci raggiunge, al centro della nostra debole fede. Ci raggiunge e non punta il dito per accusarci, ma tende la mano per afferrare la nostra, e tramutare la paura in abbraccio.
Vorrei tanto essere uno dei cinquemila, quella sera, sul lago. Li invidio, non per il miracolo dei pani, ma per la seduzione che hanno provato, più forte di ogni paura: sono andati da Gesù, ascoltano e vivono, ascoltano e brucia il cuore, ascoltano e risplende la vita. Stare con lui: e quando scende la sera, la notte e il deserto profumano di pane. Stare con lui: e sentire che più vivo di così non sarà mai. I discepoli, uomini pratici, dicono a Gesù: Congeda la folla, perché vadano a comprarsi da mangiare. Se non li congeda lui, non se ne andranno spontaneamente. Ma Gesù non li manda via, non ha mai mandato via nessuno. E’ bello questo preoccuparsi dei discepoli, ma più bello è Gesù che prova compassione. Anzi, letteralmente,preso alle viscere per loro è dice:date loro voi stessi da mangiare. I discepoli parlano di comprare, Gesù parla di dare. Apre un altro modo di essere: dare senza calcolare, dare senza chiedere, generosamente, gratuitamente, per primi. A noi, che quotidianamente preghiamo: Dacci oggi il nostro pane, il Signore risponde:Voi date il vostro pane.Dacci, noi invochiamo. Donate, ribatte lui. Ci sono molti miracoli in questo racconto: il primoquello della folla che, scesa ormai la notte nel deserto, non se ne va e rimane con Gesù. Il secondo sono i cinque pani e i due pesci che qualcuno mette nelle sue mani, fidandosi, senza calcolare, senza trattenere qualcosa per sé è poco, ma è tutta la sua cena. Terzo miracolo: è poco, eppure quel poco basta, secondo una misteriosa regola divina: quando il mio pane diventa il nostro pane, è il dono seme di miracolo. Infine il quarto: la sovrabbondanza, tipica di Dio: raccolsero gli avanzi in dodici ceste. Una per ogni tribù, una per ogni mese. Tutti mangiano e ne rimane per tutti, e per sempre. E hanno valore anche gli avanzi, le briciole, il poco che sei, il poco che sai fare, il bicchiere d'acqua dato. Nulla è troppo piccolo di ciò che è donato con tutto il cuore. L'unico merito che i cinquemila possono vantare, l'unico loro diritto al pane è la fame. Davanti a Dio mio vanto esclusivo è il bisogno.Di nulla mi vanterò se non della mia debolezza ( 2 Cor 12, 5). Davanti a Dio non c'è nulla di meglio che essere nulla, come l'aria davanti al sole, come il polline nel vento ( Simone Weil), nutrendo così la nostra fame di sole e di pane, di cielo e di mani che conoscano il dono.
Tesoro: parola rara, parola da innamorati, da avventure grandi, da favole. Oggi, parola di Vangelo e nome di Dio. Un contadino e un mercante trovano tesori. Lo trova uno che, per caso, tra rovi e sassi, su un campo non suo, è folgorato dalla sorpresa; lo trova uno che è intenditore appassionato e sa bene quello che cerca: Dio non sopporta statistiche, è possibile a tutti incontrare o essere incontrati. Trovato il tesoro, l'uomo pieno di gioia va, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. La gioia è il primo tesoro che il tesoro regala. Dio ci seduce ancora perché parla il linguaggio della gioia, che muove, mette fretta, fa decidere: «ogni uomo segue quella strada dove il suo cuore gli dice che troverà la felicità» (sant'Agostino). La gioia è un sintomo, è il segno che stai camminando bene, sulla strada giusta. Noi avanziamo nella vita non a colpi di volontà, ma per una passione, per scoperta di tesori ( dov'è il tuo tesoro, là corre felice il tuo cuore); avanziamo per innamoramenti e per la gioia che accendono. Vive chi avanza verso ciò che ama. La vita non è etica ma estetica (H.U. Von Balthasar) nel senso che avanza non per ordini, ma per seduzione di tesori e di perle, si muove per una passione, e la passione sgorga da una bellezza, dall'aver intravisto la bellezza di Cristo, la vita bella, buona e beata del Vangelo. Ma il dono deve essere accolto, alla scoperta deve rispondere l'impegno: il contadino e il mercante vendono tutto, ma per guadagnare tutto. Lasciano molto, ma per avere tutto. Non perdono niente, lo investono. Così sono i cristiani, non più buoni degli altri, ma più ricchi: hanno un tesoro di speranza, di luce, di cielo, di cuore, di Dio. Tesoro e perla è Cristo per me, averlo seguito è stato l'affare migliore della mia vita. Mi sento contadino fortunato, mercante ricco. Non è un vanto, ma una responsabilità! E dico grazie a Colui che mi ha fatto inciampare in un tesoro, anzi in molti tesori, lungo molte strade, in molti giorni della mia vita, facendola diventare come «una finestra di cielo» (Antonia Pozzi), una vita intensa, vibrante, appassionata, gioiosa, pacificata, e spero anche, almeno un po', buona e non inutile. Tesoro e perla sono nomi di Dio. Con la loro carica di affetto e di gioia, con la travolgente energia, con il futuro che aprono, si rivolgono a me, un po' contadino e un po' mercante, e mi domandano: ma Dio per te è un tesoro o soltanto un dovere? È una perla o un obbligo? È tesoro, perché il Vangelo non è mortificazione, ma dilatazione di vita; il cristianesimo non è sacrificio e rinuncia, ma offerta di solarità che fa rifiorire instancabilmente la rosa del mondo, la rosa del vivere.
C'è un campo nel cuore in cui intrecciano le loro radici, spesso inestricabili, il bene e il male: nessuno è solo zizzania, nessuno puro grano. La parabola racconta due modi di leggere e lavorare il cuore. Il primo è quello dei servi che fissano l'attenzione sulla zizzania: «Da dove viene? Vuoi che andiamo a raccoglierla?» Il secondo è quello del padrone del campo che ha invece gli occhi fissi al buon grano: «Non raccogliete la zizzania, per non sradicare anche il grano: una sola spiga conta più di tutta la zizzania». Quale dei due sguardi è il nostro? Quello opaco e triste dei servi che vede il mondo e le persone invasi dal male, che giudica con durezza manichea? Quello positivo e solare del signore che intuisce, dovunque, spighe, pane e mietiture fiduciose, e che ha messo la sua forza nella mitezza? «Non strappate la zizzania». Noi abbiamo sempre una violenta fretta di moralizzare e mettere a posto. L'uomo infantile che è in noi grida: strappa via da te, e soprattutto intorno a te, ciò che è puerile, fragile, difettoso. Il signore del campo suggerisce: preoccupati del buon seme, ama i tuoi germi di vita, custodisci ogni germoglio. Tu non sei le tue debolezze, ma le tue maturazioni; l'uomo non coincide con i suoi peccati, ma con le potenzialità di bene. Vero esame di coscienza è leggere la vita con quello sguardo divino che cerca non l'assenza di difetti, illusione inutile e spesso mortifera, ma la fecondità come etica della vita. Impariamo a vedere ciò che di vitale, di bello, di promettente Dio ha seminato in noi (non è orgoglio, ma responsabilità), facciamo sì che porti frutto, che ogni granellino di senapa cresca con il dono di attrarre e accogliere vite, che ogni pizzico di lievito abbia il tempo per sollevare e rialzare i giorni inerti. Facciamo nostra l'attività positiva, solare, vitale del Creatore che per vincere le tenebre accende ogni giorno il suo mattino, per muovere la massa immobile vi nasconde il lievito. Preoccupiamoci non della zizzania, dei difetti, delle debolezze, ma di avere un amore grande, ideali forti, desideri positivi, una venerazione profonda per le forze di bontà, generosità e coraggio che la mano viva di Dio semina in noi. Facciamo che esse erompano in tutta la loro bellezza, in tutta la loro potenza, e vedremo le tenebre ritirarsi e la zizzania senza più terreno. E tutto il nostro essere maturare nel sole.
Il seminatore uscì a seminare. Già solo questa frase vibra di gioia e di profezia, è colma di promesse e di mietiture, presagio di pane e di fame saziata. Ancora adesso Dio esce a seminare, e diffonde i suoi germi di vita a piene mani, e le strade del mondo e dell'anima esultano davanti a Dio, il fecondatore infaticabile delle nostre vite. Dio non è il mietitore che valuta e pesa il raccolto, ma è il seminatore: mano che dona, forza che sostiene, giorno che inizia, voce che risveglia. Ma quante volte io ho rallentato il corso del miracolo! Io che sono strada, io che sono campo di pietre e sassi, io che sono groviglio di spine, cuore calpestato, superficie di pietra, che coltivo spine e radici di veleno... Mi piace tanto questo Gesù che racconta in parabole: il seminatore uscì a seminare e il mondo è gravido di vita. La parabola fa parlare la vita. La vita non è vuota, non è assenza: c'è qualcosa di Dio nella vita. Se noi avessimo occhi per guardare la vita, se avessimo la profondità degli occhi di Gesù, anche noi in questa vita comporremmo parabole, racconteremmo di Dio con parabole e poesia, come faceva Gesù. Noi siamo chiamati ad essere contadini della Parola, a diffonderla, con l'ostinazione fiduciosa della parabola; con fiducia, perché la forza non è nel seminatore, ma nel seme; la forza non è in me, ma nella Parola. Che non tornerà a Dio senza aver portato frutto. Il seminatore uscì a seminare: oggi, questa mattina, adesso, esce ancora a seminare; ed è grande questo Dio seminatore, questo Dio contadino: è grande perché crede nella bontà e nella forza della Parola più ancora che nei frutti visibili. Crede nella Parola più ancora che nei risultati della Parola: è la Parola che è vera, non i suoi esiti. Egli mi chiama a un atto di fede purissima, a credere nella bontà del Vangelo più ancora che nei risultati visibili di quella parola, a credere che Dio trasforma la terra e le persone anche quando non ne vedo i frutti. Mi chiama ad amare la sua promessa più ancora della realizzazione della promessa, ad amare Dio più ancora delle promesse di Dio. Questo atto di fede gioiosa e forte, oggi, il Vangelo propone. Io non ho bisogno di raccolti, ho solo bisogno di grandi campi da seminare e di un cuore non derubato; ho bisogno di un Dio seminatore, che le mie aridità non stancano mai. E ancora le strade del mondo potranno esultare di vita.
Ti benedico, Padre, perché queste cose le hai rivelate ai piccoli. I piccoli: di essi è pieno il Regno dei cieli, pieno il vangelo. Dio ha delle preferenze, non è neutrale: i poveri, come passeri, hanno il nido nella sua mano. Davanti a Dio non c'è nulla di meglio che essere nulla, come l'aria davanti al sole, polline nel vento di primavera (Simone Weil). L'unico merito dell'annunciatore è di essere infinitamente piccolo, solo così l'annuncio sarà infinitamente grande gioia. Venite a me, voi tutti, che siete stanchi e oppressi, imparate da me e troverete ristoro. Gesù non viene portando una nuova etica, viene recando una coppa colma di pace. Non porta precetti nuovi, ma una promessa: il Regno di Dio è pace e gioia nello Spirito (Rm 14,17). È legittimato a proporsi ancora agli uomini perché conforta la vita, perché parla il linguaggio della gioia. Imparate dal mio cuore... Cristo si impara imparandone il cuore, cioè il modo di amare. Il cuore non è un maestro fra gli altri, è «il» maestro della vita. Inizia, allora, il discepolato del cuore, per noi, discepoli sapienti e dotti, che corriamo il rischio di restare degli analfabeti del cuore. Burocrati delle regole e analfabeti del cuore. Perché Dio non è un concetto, non è una regola o una disciplina, è il cuore dolce e forte della vita. E troverete ristoro. Ristoro dell'esistenza è un cuore mite, senza violenza e senza inganno, una creatura in pace e senza presunzione, che diffonde un senso di ristoro nell'arsura del vivere. Il mio giogo è dolce e il mio peso leggero. Come può il giogo essere un ideale per l'uomo moderno, geloso di ogni più piccola porzione di libertà, per l'uomo che nell'ultimo secolo ha lottato proprio per scrollarsi di dosso tutti i gioghi? Nel linguaggio della Bibbia «giogo» indica la legge di Mosè (cf. Ne 9, 29) che Gesù ha riassunto nel comandamento nuovo dell'amore, l'antica novità. Ma amare Dio con tutto il cuore non è cristiano; anche ebrei e musulmani hanno da amare Dio con tutto il cuore. Amare il prossimo come se stessi non è ancora cristiano, vale anche per scribi e dottori della legge. Io non amerò Dio, amerò il Padre di Gesù Cristo, l'Abbà, lo amerò come figlio. Non amerò il prossimo come me stesso, lo amerò come Gesù lo ama (non quanto, ma come, o ne resteremmo schiacciati) col cuore mite e umile dell'unico che è Figlio e fratello. Anch'io figlio nel Figlio, fratello nel Fratello.
Gesù interroga i suoi, quasi per un sondaggio d'opinione: La gente, chi dice che io sia? L'opinione della gente è bella e incompleta: Dicono che sei un profeta! Una creatura di fuoco e di luce, come Elia o il Battista; che sei bocca di Dio e bocca dei poveri. Ma Gesù non è semplicemente un profeta di ieri che ritorna, fosse pure il più grande. Bisogna cercare ancora: Ma voi, chi dite che io sia? Prima di tutto c'è un «ma voi», in opposizione a ciò che dice la gente. Voi non accontentatevi di ciò che sentite dire. Più che offrire risposte, Gesù fornisce domande; non dà lezioni, conduce con delicatezza a cercare dentro. E in questo appare come un maestro dell'esistenza, ci vuole tutti pensatori e poeti della vita; non indottrina nessuno, stimola risposte. E così, feconda nascite. Pietro risponde: Tu sei il Figlio del Dio vivente. Sei il figlio, vuol dire «tu porti Dio qui, fra noi. Tu fai vedere e toccare Dio, il Vivente che fa vivere. Sei il suo volto, il suo braccio, il suo progetto, la sua bocca, il suo cuore».Provo anch'io a rispondere: Tu sei per me crocifisso amore, l'unico che non inganna. Tu sei disarmato amore, che non si impone, che mai è entrato nei palazzi dei potenti se non da prigioniero. Tu sei vincente amore. Pasqua è la prova che la violenza non è padrona della storia e del cuore, che l'amore è più forte. Oggi o in un terzo giorno, che forse non è per domani ma che certamente verrà, perché «la luce è sempre più forte del buio» (papa Francesco). Tu sei indissolubile amore. «Nulla mai, né vita né morte, né angeli né demoni, nulla mai né tempo né eternità, nulla mai ci separerà dall'amore» (Rom 8,38). Nulla, mai: due parole totali, assolute, perfette: mai separati. Poi i due simboli: a te darò le chiavi; tu sei roccia. Pietro, e secondo la tradizione i suoi successori, sono roccia per la Chiesa nella misura in cui continuano ad annunciare: Cristo è il Figlio del Dio vivente. Sono roccia per l'intera umanità se ripetono senza stancarsi che Dio è amore; che Cristo è vivo, vivo tesoro per l'intera umanità. Essere roccia, parola di Gesù che si estende a ogni discepolo: sulla tua pietra viva edificherò la mia casa. A tutti è detto: ciò che legherai sulla terra... i legami che intreccerai, le persone che unirai alla tua vita, le ritroverai per sempre. Ciò che scioglierai sulla terra: tutti i nodi, i grovigli, i blocchi che scioglierai, coloro ai quali tu darai libertà e respiro, avranno da Dio libertà per sempre e respiro nei cieli. Tutti i credenti possono e devono essere roccia e chiave: roccia che dà appoggio e sicurezza alla vita d'altri; chiave che apre le porte belle di Dio, le porte della vita intensa e generosa.
Io sono il pane vivo: Gesù è stato geniale a scegliere il simbolo del pane. Il pane è una realtà santa perché fa vivere, e che l'uomo viva è la prima legge di Dio e nostra. Il pane mostra come la vita dell'uomo è indissolubilmente legata ad un po' di materia, dipende sempre da un poco di pane, di acqua, di aria, cose semplici che confinano con il mistero e il sublime. Le cose semplici sono le più divine: questo è proprio il genio del cristianesimo. In esso Dio e uomo non si oppongono più, materia e spirito si abbracciano e sconfinano l'uno nell'altro. È come se il movimento dell'incarnazione continuasse ogni giorno. Non dobbiamo disprezzare mai la terra, la materialità, perché in esse scende una vocazione divina: assicurare la vita, il dono più prezioso di Dio. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno. Una parola scorre sotto tutte le parole di Gesù nel Vangelo di oggi, e forma la nervatura del suo discorso: la parola «vita». Che hai a che fare con me o Pane di Cristo? La risposta è una pretesa perfino eccessiva, perfino sconcertante, e tanto semplice: «io ti faccio vivere».
Gesù è nella vita datore di vita, come lo è il pane. Il convincimento assoluto di Gesù è quello di poter offrire qualcosa che noi prima non avevamo: un incremento, un accrescimento, una intensificazione di vita per tutti coloro che fanno di lui il loro pane quotidiano. Cristo diventa mio pane quando prendo la sua vita buona bella e beata, come misura, energia, seme, lievito della mia umanità. Mangiare e bere la vita di Cristo è un evento che non si limita alle celebrazioni liturgiche, ma che si moltiplica dentro il vivere quotidiano, si dissemina sul grande altare del pianeta, nella «messa sul mondo» (Th. de Chardin). Io mangio e bevo la vita di Cristo quando cerco di assimilare il nocciolo vivo e appassionato della sua esistenza, quando mi prendo cura con tenerezza di me stesso, degli altri e del creato. Quando cerco di fare mio il segreto di Cristo, allora trovo il segreto della vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. La parola determinante: io in lui, lui in me. Questa è tutta la ricchezza del mistero: Cristo in voi! (Col 1,27). La ricchezza del mistero della fede è di una semplicità abbagliante: Cristo che vive in me, io che vivo in Lui. Evento d'Incarnazione che continua: il Verbo di Dio che ha preso carne nel grembo di Maria, continua ostinato e infaticabile a incarnarsi in noi, ci fa tutti gravidi di Vangelo, incinti di luce. Dio in me: il mio cuore lo assorbe, lui assorbe il mio cuore, e diventiamo una cosa sola, un'unica vocazione: diventare, nella vita, pezzo di pane buono per le persone che amo.
La Trinità: un dogma che può sembrare lontano e non toccare la vita. Invece è rivelazione del segreto del vivere, della sapienza sulla vita, sulla morte, sull'amore, e mi dice: in principio a tutto è il legame. Un solo Dio in tre persone: Dio non è in se stesso solitudine ma comunione, l'oceano della sua essenza vibra di un infinito movimento d'amore, reciprocità, scambio, incontro, famiglia, festa. Quando nell'«in principio» Dio dice: «Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza», l'immagine di cui parla non è quella del Creatore, non quella dello Spirito, né quella del Verbo eterno di Dio, ma è tutte queste cose insieme. L'uomo è creato a immagine della Trinità. E la relazione è il cuore dell'essenza di Dio e dell'uomo. Ecco perché la solitudine mi pesa e mi fa paura, perché è contro la mia natura. Ecco perché quando amo o trovo amicizia sto così bene, perché è secondo la mia vocazione. In principio a tutto sta un legame d'amore, che il Vangelo annuncia: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio». Nel Vangelo il verbo amare si traduce sempre con un altro verbo concreto, pratico, forte: il verbo dare. Amare equivale a dare, il verbo delle mani che offrono. «Dio ha tanto amato», centro del Vangelo di Giovanni, che ha la definizione più folgorante di Dio: Dio è amore; che vuole portarci a confessare: noi abbiamo creduto all'amore che Dio ha per noi! Se mi domandano: tu cristiano a che cosa credi? La risposta spontanea è: credo in Dio Padre, in Gesù crocifisso e risorto, la Chiesa... Giovanni indica una risposta diversa: il cristiano crede all'amore. Noi abbiamo creduto all'amore: ogni uomo, ogni donna, anche il non credente può credere all'amore. Può fidarsi e affidarsi all'amore come sapienza del vivere. Se non c'è amore, nessuna cattedra può dire Dio, nessun pulpito. È lo stesso amore interno alla Trinità che da lì si espande, ci raggiunge, ci abbraccia e poi dilaga. Come legame delle vite. Dio ha tanto amato il mondo. Non solo l'uomo, è il mondo che è amato, la terra e gli animali e le piante e la creazione intera. E se Lui ha amato, anch'io devo amare questa terra, i suoi spazi, i suoi figli, il suo verde, i suoi fiori, la sua bellezza. Terra amata. La festa della Trinità è specchio del mio cuore profondo e del senso ultimo dell'universo. Incamminato verso un Padre che è la fonte della vita, verso un Figlio che mi innamora, verso uno Spirito che accende di comunione le mie solitudini, io mi sento piccolo e tuttavia abbracciato dal mistero. Piccolo ma abbracciato, come un bambino. Abbracciato dentro un vento in cui naviga l'intero creato e che ha nome comunione .
Altro...
Il termine «forza» lega insieme, come un filo rosso, le tre letture: «Avrete forza dallo Spirito Santo» (prima lettura); «Possiate cogliere l'efficacia della sua forza» (seconda lettura); «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra» ( Vangelo). Forza per vivere, energia per andare e ancora andare, potenza per nuove nascite: la mia vita dipende da una fonte che non viene mai meno; la mia esistenza è attraversata da una forza più grande di me, che non si esaurirà mai e che fa la vita più forte delle sue ferite . È il flusso di vita di Cristo, che viene come forza ascensionale verso più luminosa vita, che mi fa crescere a più libertà, a più consapevolezza, a più amore, fonte di nuove nascite per altri. L'Ascensione è una festa difficile: come si può far festa per uno che se ne va? Il Signore non è andato in una zona lontana del cosmo, ma nel profondo, non oltre le nubi ma oltre le forme: se prima era insieme con i discepoli, ora sarà dentro di loro. Sarò con voi tutti i giorni, fino alla fine del tempo. Il mio cristianesimo è la certezza forte e inebriante che in tutti i giorni, in tutte le cose Cristo è presente, forza di ascensione del cosmo. Ascensione non è un percorso cosmico geografico ma è la navigazione spaziale del cuore che ti conduce dalla chiusura in te all'amore che abbraccia l'universo (Benedetto XVI). Gesù lascia sulla terra il quasi niente: un gruppetto di uomini impauriti e confusi, che dubitano ancora, sottolinea Matteo; un piccolo nucleo di donne coraggiose e fedeli. E a loro che dubitano ancora, a noi, alle nostre paure e infedeltà, affida il mondo. Li spinge a pensare in grande, a guardare lontano: il mondo è vostro. Gesù se ne va con un atto di enorme fiducia nell'uomo. Ha fiducia in me, più di quanta ne abbia io stesso. Sa che riuscirò a essere lievito e forse perfino fuoco; a contagiare di Spirito e di nascite chi mi è affidato. Ascensione è la festa del nostro destino - solo il Cristianesimo ha osato collocare un corpo d'uomo nella profondità di Dio (Romano Guardini) - che si intreccia con la nostra missione: «Battezzate e insegnate a vivere ciò che ho comandato». «Battezzare» non significa versare un po' d'acqua sul capo delle persone, ma immergere! Immergete ogni uomo in Dio, fatelo entrare, che si lasci sommergere dentro la vita di Dio, in quella linfa vitale. Insegnate a osservare. Che cosa ha comandato Cristo, se non l'amore? Il suo comando è: immergete l'uomo in Dio e insegnategli ad amare. A lasciarsi amare, prima, e poi a donare amore. Qui è tutto il Vangelo, tutto l'uomo. Fate questo, donando speranza e amorevolezza a tutte le creature, tutti i giorni, in tutti gli incontri.
«Se mi amate...». Gesù chiede di dimorare in quel luogo da cui tutto ha origine, da cui tutto parte, in cui tutto si decide e che tutte le religioni chiamano «cuore». Entra nel mio luogo più importante e intimo, nel vero santuario della vita. Ma lo fa con estrema delicatezza, perché tutto si tiene alla prima parola: «se». «Se mi amate». Un punto di partenza così umile, così fragile, così libero, così fiducioso, così paziente: se. Nessuna minaccia, nessuna costrizione. Puoi accogliere o rifiutare, in piena libertà. Se ti fai lettore attento del Vangelo non potrai però sfuggire all'incantamento per Gesù uomo libero, parola liberante. «Se mi amate osserverete». La vera molla che spinge a compiere in pienezza un'opera è l'amore. L'esperienza quotidiana lo conferma: se c'è la scintilla dell'amore ogni atto si carica di una vibrazione profonda, di un calore nuovo, conosce una incisività insospettata. «Il Padre vi darà un altro Soccorritore e sarà con voi... presso di voi... in voi». In un crescendo mirabile Gesù usa tutte le preposizioni che dicono comunione. Dio vive in me, in me ha termine l'esodo di Dio. Se io penso al Signore non penso a qualcosa che ho incontrato in un libro, fosse pure il Vangelo, ma ad una storia che continua fino al presente e «non è ancora finita»: la storia della comunione con una persona viva, la storia del suo essere 'in' me. Le parole decisive del brano di Giovanni sono: Voi in me e io in voi. Sosto nella percezione di essere «in» Dio, immerso in Lui, tralcio nella madre vite, goccia nella sorgente, raggio nel sole, respiro nell'aria vitale. Allora ti carichi di una linfa', di un'acqua, di una fiamma che faranno della tua fede visione nuova, incantamento, fervore, poesia, testimonianza viva. «Non vi lascerò orfani». Orfano è parola legata all'esperienza della morte e della separazione, ma Gesù è enfasi della nascita e della comunione. Altri partiranno da altri presupposti, io riparto da Cristo e dal suo modo di liberare, di generare, di porre luce e cuore su ciò che nasce e mai su ciò che muore: amare è non morire. Lo ripete anche oggi: «Perché io vivo e voi vivrete». Piccola frase che rende conto della mia speranza. Io appartengo a un Dio vivo e Lui a me. E queste parole mi fanno dolce e fortissima compagnia: appartengo a un Dio vivo, amare è non morire.
Non sia turbato il vostro cuore, abbiate fiducia. Sono le parole primarie del nostro rapporto con Dio e con la vita, quelle che devono venirci incontro appena aperti gli occhi, ogni mattina: scacciare la paura, avere fiducia. Avere fiducia (negli altri, nel mondo, nel futuro) è atto umano, umanissimo, vitale, che tende alla vita. Senza la fiducia non si può essere umani. Senza la fede in qualcuno non è possibile vivere. Io vivo perché mi fido. In questo atto umano la fede in Dio respira. Abbiate fede in me, io sono la via la verità e la vita. Tre parole immense. Che nessuna spiegazione può esaurire. Io sono la via: la strada per arrivare a casa, a Dio, al cuore, agli altri. Sono la strada: davanti non si erge un muro o uno sbarramento, ma orizzonti aperti e una meta. Sono la strada che non si smarrisce. Shakespeare scrive «la vita è una favola sciocca recitata da un idiota sulla scena, piena di rumore e di furore, ma che non significa nulla». Con Gesù la favola senza senso diventa la storia più ambiziosa del mondo, il sogno più grandioso mai sognato, la conquista di amore e libertà, di bellezza e di comunione: con Dio, con il cosmo con l'uomo. Io sono la verità: non in una dottrina, in un libro, in una legge migliori delle altre, ma in un «io» sta la verità, in una vita, nella vita di Gesù, venuto a mostrarci il vero volto dell'uomo e di Dio. Il cristianesimo non è un sistema di pensiero o di riti, ma una storia e una vita (F. Mauriac). Io sono: verità disarmata è il suo muoversi libero, regale e amorevole tra le creature. Mai arrogante. La tenerezza invece, questa sorella della verità. La verità sono occhi e mani che ardono! (Ch. Bobin). Così è Gesù: accende occhi e mani. Io sono la vita. Che hai a che fare con me, Gesù di Nazareth? La risposta è una pretesa perfino eccessiva, perfino sconcertante: io faccio vivere. Parole enormi, davanti alle quali provo una vertigine. La mia vita si spiega con la vita di Dio. Nella mia esistenza più Dio equivale a più io . Più Vangelo entra nella mia vita più io sono vivo. Nel cuore, nella mente, nel corpo. E si oppone alla pulsione di morte, alla distruttività che nutriamo dentro di noi con le nostre paure, alla sterilità di una vita inutile. Infine interviene Filippo: «Mostraci il Padre, e ci basta». È bello che gli apostoli chiedano, che vogliano capire, come noi. Filippo, chi ha visto me ha visto il Padre. Guardi Gesù, guardi come vive, come ama, come accoglie, come muore, e capisci Dio e la vita.
l buon pastore chiama le sue pecore, ciascuna per nome. Non l'anonimato del gregge, ma nella sua bocca il mio nome proprio, il nome dell'affetto, dell'unicità, dell'intimità, pronunciato come nessun altro sa fare. Sa che il mio nome è «creatura che ha bisogno». Ad esso lui sa e vuole rispondere. E le conduce fuori. Il nostro non è un Dio dei recinti chiusi ma degli spazi aperti, pastore di libertà e di fiducia. E cammina davanti ad esse. Non un pastore di retroguardie, ma una guida che apre cammini e inventa strade, è davanti e non alle spalle. Non un pastore che pungola, incalza, rimprovera per farsi seguire ma uno che precede, e seduce con il suo andare, affascina con il suo esempio: pastore di futuro. Io sono la porta, Cristo è passaggio, apertura, porta spalancata che si apre sulla terra dell'amore leale, più forte della morte ( chi entra attraverso di me si troverà in salvo); più forte di tutte le prigioni ( potrà entrare e uscire), dove si placa tutta la fame e la sete della storia ( troverà pascolo). E poi la conclusione: Sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza . Non solo la vita necessaria, non solo la vita indispensabile, non solo quel respiro, quel minimo senza il quale la vita non è vita, ma la vita esuberante, magnifica, eccessiva, vita che dirompe gli argini e sconfina, uno scialo di vita. Così è nella Bibbia: manna non per un giorno ma per quarant'anni nel deserto, pane per cinquemila persone, carezza per i bambini, pelle di primavera per dieci lebbrosi, pietra rotolata via per Lazzaro, cento fratelli per chi ha lasciato la casa, perdono per settanta volte sette, vaso di nardo per 300 denari sui piedi di Gesù In una piccola parola è sintetizzato ciò che oppone Gesù, il pastore vero, a tuti gli altri, ciò che rende incompatibili il pastore e il ladro. La parola immensa e breve è «vita». Cuore del Vangelo. Parola indimenticabile. Vocazione di Dio e vocazione dell'uomo. «Non ci interessa un divino che non faccia anche fiorire l'umano. Un Dio cui non corrisponda il rigoglio dell'umano non merita che ad esso ci dedichiamo» (Bonhoeffer). Pienezza dell'umano è il divino in noi, diventare figli di Dio: i quali non da sangue, non da carne, ma da Dio sono nati (cfr. Gv 1,13 ). Diventare consapevoli di ciò che già siamo, figli, e non c'è parola che abbia più vita dentro; realizzarlo in pienezza. E questo significa diventare anch'io pastore di vita per il piccolo, per il pur minimo gregge (la mia famiglia, la mia comunità, gli amici, cento persone con nome e volto) che Lui ha affidato alle mie cure. Vocazione di Cristo e dell'uomo è di essere nella vita datori di vita.