Nella convenzione umana dei transiti cronologici la liturgia ci saluta con quella forma di augurio che si chiama “benedizione”. Ci facciamo gli auguri non per inerzia scaramantica ma perché ci vogliamo bene. Vorremmo tutto il bene di ciascuno. In questo la parola biblica ci mette sulla via di una coltivazione “laica” della speranza. Accogliamo difatti la benedizione di Dio non come “l’abracadabra” di un sortilegio di cui accaparrare le sillabe, ma come una promessa d’amore di cui riascoltare emozionati il suono. Succede di tutto a questo mondo, eppure Dio non smette di “dire bene di noi, Mentre con presuntuosa ansia di prestazione ci immaginiamo eroi della speranza nel credere in lui, restiamo ingenuamente ignari del fatto che in realtà è “Dio a credere in noi”. Se il nostro tempo possiede una certezza, essa sta tutta entro questi limiti. Ci sono mote cose da imparare dal racconto evangelico che indora questo sommesso mormorare della speranza. Anzitutto dall’euforia dei pastori, trasformati da una sognante tradizione nell’immobile dolcezza di gesso dei mestieri di una volta, certamente popolo di cuori traboccanti di fiducia nella vita con gli occhi spalancati al primo segno di grazia capace di affiorare dalla terra. Da loro s’impara la necessità di condividere l’inatteso dono. La gioia è come il dolore. Ha sempre bisogno di qualcuno che aiuti a portarne il peso. Non esiste felicità individuale. Se non lega ad altri, essa è semplicemente parodia di sentimenti immaginari. Si deve imparare molto dal silenzio di Maria, Il silenzio – così ci insegna, senza dire una parola, la madre del Signore Gesù- non è assenza di pensieri, vuoto delle idee, deserto dell’immaginazione. Non è nemmeno rassegnazione di fronte alla vita che spesso ci lascia senza parole. Il silenzio nasce invece come spazio di distillazione delle cose vissute. Custodire le cose nel segreto e meditarle nel cuore significa edificare alte mura di protezione attorno alla grazia quotidiana che la vita ci fa incontrare offrendo ad essa come casa il nostro corpo: “domus aurea”. Nell’orto chiuso di questa tenace distillazione spirituale è possibile produrre, con insistenza che deve essere instancabile, gli antidoti al risentimento, al conflitto, all’antagonismo, a quella metastasi dei sentimenti che mette l’uomo contro l’uomo. In questa liturgia si chiede pace. Ma ci terrebbe sideralmente lontani dalle nostre possibilità, pur rimanendo al cuore delle nostre preoccupazioni, la retorica della “pace nel mondo”, senza misurare le dirette responsabilità della pace sempre da curare nel tumultuoso mare dei nostri ambigui sentimenti. Si chieda perciò, in questo salto di tempo, perdono per le inimicizie, per i rancori che dividono, per il male che si insinua, con felpata discrezione, persino nel perimetro degli affetti più cari. Si cerchi di essere grati per tutte quelle volte in cui si è riusciti a volersi bene, per quanto si è stati alla stessa tavola, rinnovando l’immenso invisibile miracolo del patto umano. (Giuliano Zanchi)