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Martedì, 06 Settembre 2011 22:20

Avvenire: Convegno Associazione Pro ICYC

060911 1Dal 1970 ad oggi l’Icyc  l’istituto fondato da padre Alceste Piergiovanni a Quinta (Cile), ha trovato una famiglia italiana ad oltre 1.200 bambini, ospitando gratuitamente le coppie in Cile nel periodo di coabitazione con i futuri figli e riuscendo ad affidare con successo anche ragazzini già cresciuti (il libro “Ho partorito mille volte”, editrice Ancora, racconta le sue storie di adozione). Trent’anni dopo, nel 2000, in Italia le centinaia di famiglie che hanno avuto un figlio da padre Alceste hanno fondato l’“Associazione famiglie adottive pro Icyc”, una onlus che prosegue l’opera del sacerdote scomparso nel 2003. Sostiene i bambini tuttora residenti a Quinta, guida le coppie affinché possano adottare a costi molto bassi, tiene incontri periodici in molte città e ogni settembre organizza un grande raduno nazionale di genitori italiani e figli cileni. Lo scorso 3-4 settembre a Giulianova dove sono giunte anche numerose giovani coppie desiderose di avvicinare un mondo sconosciuto. L’Associazione pro Icyc dal 2008 fa parte degli enti autorizzati per l’adozione internazionale (www.adozionefamigliicyc.org). Articolo su Avvenire, Domenica 4 settembre, 25.

Mercoledì, 07 Settembre 2011 12:07

L'opera





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Concilio di Trento

Gli avvenimenti straordinari, che interessano la Chiesa universale, si riflettono sulle chiese locali e sugli istituti religiosi. Nella congregazione verginiana, come la decadenza era stata preceduta dal Grande Scisma d’Occidente, così la ripresa fece seguito alla celebrazione del concilio ecumenico di Trento. In particolare il concilio si era posto il problema della riforma degli istituti religiosi nella quinta sessione del 17 giugno 1546 con l’istituzione dei lettorati di sacra scrittura e nella seduta finale del 3 dicembre 1563 con le disposizioni circa l’ammissione e la formazione dei nuovi candidati. Inoltre i papi, da Paolo IV in poi, si impegnarono con energia per l’attuazione del concilio, inviando nei singoli istituti visitatori apostolici con ampie facoltà di convocare i rispettivi capitoli generali per rinnovarne e aggiornarne le costituzioni.

Nelle more del concilio, i monaci di Montevergine imboccarono la strada della rinascita con la riforma scolastica del 1556. Furono disposti due cicli: il primo per lo studio della grammatica della logica e della filosofia, riservato ai nuovi arrivati per accedere al noviziato; il secondo per lo studiò della teologia e del diritto canonico, riservato ai giovani professi, per accedere agli ordini sacri. Alla fine di ciascun ciclo gli allievi venivano sottoposti all’esame di profitto davanti ad una commissione composta da tre o cinque membri, i quali esprimevano il proprio giudizio mediante votazione segreta; era considerato maturo soio chi otteneva la maggioranza dei voti favorevoli.

In questa scuola si formò una nuova generazione di monaci i  quali, per santità di vita, per capacità di governo e per elevatezza d’ingegno, illustrarono la congregazione, migliorarono i rapporti con la curia romana e resero possibile la liberazione dall’opprimente commenda laica dell’Ospedale dell’Annunziata. Nel 1567 il papa Pio V rese vincolanti le conclusioni di una commissione cardinalizia, da lui nominata, intese ad eliminare le controversie e ridare la pace e la tranquillità ai monaci. In realtà si trattò di una specie di accordo provvisorio, che prese il nome di Magna Concordia, il quale riconobbe ai monaci le giuste rivendicazioni circa il vitto e il vestito, ma non la piena liberazione dalla commenda; ed inoltre suggerì di ridurre a soli 18 il numero dei monasteri verginiani, che in quel momento ascendevano a 53, in modo che si potesse più facilmente provvedere alla loro manutenzione ordinaria e straordinaria e consentire in essi una più comoda abitazione, assegnando 50 monaci a Montevergine e 22 alle case dipendenti. La stessa commissione elaborò 25 norme di comportamento monastico, che presero il nome di Statuti di Pio V e furono dati alle stampe nel 1571.

I monaci di Montevergine, che avrebbero dovuto non senza rancore e rimpianto abbandonare 35 monasteri, ripresero la via di Roma quando al soglio pontificio fu elevato il francescano Felice Peretti col nome di Sisto V, il quale da semplice frate e da vescovo dì Sant’Agata dei Goti più di una volta si era recato a venerare la sacra icona del Partenio e personalmente aveva constatato gli inconvenienti che comportava l’ibrida unione della congregazione di Montevergine con l’Ospedale dell’Annunziata di Napoli. Le speranze non rimasero deluse. Sisto V con motu proprio del 27 febbraio 1588 liberò definitivamente la congregazione verginiana dalla commenda, fulminando di scomunica qualunque persona, ecclesiastica o laica, avesse osato ingerirsi nelle cose di Montevergine.

 

San Giovanni Leonardi

Per aiutare i monaci a risanare le gravi ferite inferte dalla commenda e a percorrere il faticoso cammino della rinascita, il  papa Clemente VIII nel 1596 inviò a Montevergine Giovanni Leonardi, fondatore dei Chierici Regolari della Madre di Dio a Lucca, col titolo di commissario pontificio con ampie facoltà di visitare i singoli monasteri della congregazione e di deciderne la sopravvivenza in rapporto alla capacità recettiva ed economica, di correggere gli abusi nel capo e nelle membra, e di aggiornare le costituzioni in rapporto ai dettami conciliari e alle mutate situazioni del tempo.

Il Leonardi conservò la carica di commissario apostolico fino al maggio 1601. Nel frattempo ebbe la possibilità di visitare tutti i monasteri che in quel momento formavano la congregazione verginiana, e di controllarne le entrate, di interrogare e di ascoltare tutti i religiosi residenti in quelle case e di lavorare alla redazione delle nuove costituzioni. Dovette purtroppo constatare che, nonostante le disposizioni del papa Pio V e i ripetuti decreti pontifici circa la soppressione dei piccoli monasteri, le case verginiane erano aumentate, passando da 53 a 59; mentre il numero dei monaci era rimasto pressoché immutato passando da il francescano 304 a 343 unità, delle quali ben 110 erano state assegnate al santuario di Montevergine, 20 a Casamarciano, 18 a Napoli, 13 a Capua, 12 a Penta e 10 a Roma, mentre le rimanenti 169 unità erano state distribuite negli altri 54 monasteri con una presenza  di monaci che oscillava da 1 a 7 unità.

A giudizio del commissario, l’ostacolo maggiore per una seria e duratura riforma era costituito da quei “piccioli monasteri, sentine di ogni male, e meritatamente da San Bernardo definiti  sinagogae satanae”. Tenuto poi presente che l’introito generale della congregazione si aggirava sui 20.000 scudi, di cui bisognava accantonare 5.000 per la manutenzione dei fabbricati, e conteggiato che il costo annuo di ogni religioso si aggirava sui 60 scudi annui, concluse che la congregazione verginiana non avrebbe dovuto superare il numero di 260 religiosi, da distribuirsi in 18 monasteri da conservare, affidando ai rispettivi superiori la gestione provvisoria dei monasteri più vicini da abbandonare.
Secondo i suggerimenti del papa, il Leonardi avrebbe dovuto assicurare la piena attuazione della riforma, procedendo contro i monaci che si erano allontanati dall’osservanza della regola di San Benedetto e degli statuti del papa Pio V, estirpando il vizio della proprietà privata, ripristinando la vita comune nel vitto e nel vestito, riportando all’antico splendore la liturgia e richiamando la perfetta osservanza dei digiuni e del capitolo delle colpe, dell’orazione mentale e della clausura.

I risultati del lungo e laborioso lavoro della riforma, spesso contrastato dall’orgoglio e dalla rivalità dei monaci, furono approvati dal papa Clemente VIII e codificati nelle dichiarazioni alla regola di San Benedetto, data alla stampa nel 1599. Alla redazione delle dichiarazioni, intese a dare una aggiornata e sicura interpretazione all’antico testo della regola di San Benedetto e a migliorare gli statuti del papa Pio V, avevano collaborato il vescovo di Aversa Bernardino Morra e il monaco verginiano Severo Giliberto. Quest’ultimo nel capitolo generale del 1599 venne eletto per un sessennio abate generale direttamente dal commissario apostolico, divenendo così il primo superiore ad accompagnare i monaci sui nuovo binario della riforma.

© P.M. Tropeano, Montevergine nei secoli, 2005, 115-118
Mercoledì, 07 Settembre 2011 12:06

Il Santuario Madonna dell'Arco




Lunedì di Pasqua del 1450

 

La storia, il luogo e l'immagine


lsm6bLa pia usanza di erigere edicole sacre lungo le vie, sui muri delle case, sull'ingresso dei poderi è antichissima. Un uso che segnava oltre la devozione punti di riferimenti nel territorio. Tante sono le testimonianze rimaste quasi intatte da molti secoli.

Così nel quattrocento sorgeva un'edicola dedicata alla Madonna sul margine della via che collegava a Napoli i vari comuni vesuviani, nel lato del Monte Somma. Tale edicola era a pochi chilometri dalla Capitale del meridione d'Italia, in territorio del comune di Sant'Anastasia nella contrada che si chiamava "Arco" per la presenza di arcate di un antico acquedotto romano. Il Domenici parla di un arco «grande, antico di fabbrica che li faceva (all'immagine) ghirllanda e corona e la difendeva dalle piogge, grandine e tempeste... e che era rifugio degli uomini e degli animali». Perciò l'immagine era detta "Madonna dell'Arco".

L'edicola, come ci testimonia fr. Ludovico Ayrola, in uno scritto della fine del seicento, era formata da «una piccola, povera ed antica conicella di fabbrica, in cui con semplici colori effigiata si vedeva la gloriosissima Vergine Maria con faccia grande e sovramodo venerabile». Il Domenici, nel suo Compendio, così descrive il dipinto dell'edicola, che egli vide la prima volta nel 1594:

«Questa divotissima Immagine della Madre di Dio sta dipinta in muro, che con la man sinistra teneramente abbraccia il suo Sacratissimo Figliolo, il quale con la mano destra stringe un pomo: la cui dolcissima Madre mostra l'età di una dolcissima fanciulla di diciott'anni circa, ed è agli occhi di tutti devota, graziosa e bella, tirando più presto al chiaro e bianco che al nero e oscuro... Par che stia a sedere sopra una sedia, secondo alcuni, ma secondo altri pittori siede sopra una meravigliosa nube... Né è da passare con silenzio la proprietà singolare di questa Sacratissima Immagine, avendo un'attrattiva mirabile di modo che rapisce i cuori delle persone che la risguardano, anzi secondo i tempi par che si mostri allegra e malinconica e da qualsivoglia parte e in qualsivoglia modo si risguardi, essa con occhio grazioso e vago vi mira, e ferisce né mai vi saziate di vederla e di mirarla».

Il dipinto certamente non vanta pregi artistici, ma colpisce la mesta espressione del volto dominato da due grandi occhi che hanno l'effetto di penetrare l'animo di chi li guarda, lasciandovi un ricordo indelebile.


 
Il primo miracolo

Il lunedì di Pasqua del 1450, celebrandosi come di consuetudine ogni anno, dagli abitanti della contrada una festicciola in onore della Beata Vergine Maria, avvenne un prodigio che richiamò su quell'immagine l'attenzione di tutti i fedeli delle terre circonvicine. Presso l'edicola tra le altre cose si giocava a palla-maglio; il gioco consisteva nel colpire una palla di legno con un maglio, e vinceva colui che faceva andare più lontano la propria palla.

Tirò il suo colpo il primo giocatore, poi l'altro, tirò il suo con più energia ed abilità tanto da poter esser certo della vittoria se questo tiro non fosse stato fermato dal tronco di un albero di tiglio, che era sulla direzione e vicino all'edicola della sacra immagine. Indispettito e fuor di sé dalla collera, questi bestemmiò ripetute volte la Santa Vergine, poi, raccattata la palla dal suolo, al colmo dell'ira, la scagliò contro l'effige, colpendola alla guancia sinistra, che subito, quasi fosse stata carne viva, rosseggiò e diede copioso sangue. Gli astanti che, attratti dal gioco, si erano fatti intorno ai due giocatori, ebbero un grido di orrore.

Riavutisi dallo stupore, i presenti presero il disgraziato, e gridando ad un tempo miracolo e giustizia, ne avrebbero fatto scempio, se non fosse giunto opportuno a liberarlo dalle loro mani il conte di Sarno, Gran Giustiziere del Regno, comandante la compagnia contro i banditi. Questi, trovandosi nella contrada, richiamato dal tumulto, accorse con i suoi uomini e s'impadronì del reo, cercando di calmare e trattenere la folla eccitata che chiedeva giustizia.

(Alcune versioni dei fatti dicono che il Giustiziere del Regno, dopo aver constatato il miracolo, lo fece processare e impiccare all’albero di tiglio lì vicino che in 24 ore si seccò. Altre che fu la gente stessa ad impiccarlo, ma che il ramo si ruppe ed il ragazzo si salvò. La versione più probabile è forse questa: la Madonna avrebbe permesso un omicidio di fronte a Lei? Nonostante l'empietà del gesto? No... la Madonna non è una dea assetata di sangue, ma una Madre Misericordiosa..... N.d.R.)

Sparsasi intorno la fama dell'accaduto, fu un accorrere quotidiano di fedeli. Per venire incontro a questi fedeli, proteggere la sacra Immagine e celebrare la liturgia fu costruito prima un tempietto, con un altare dinanzi, poi, più tardi, una chiesetta e due stanzette, una a pianterreno ed una superiore, per ospitare un custode. L'unico custode di cui abbiamo memorie fu il tale Sebastiano da Aversa terziario domenicano, che dovette curare con solerzia e devozione la chiesetta a lui affidata, perché nel 1544 fece fondere una campana di buone dimensioni, recante la seguente iscrizione: «Io fra Sabba, Terziario dell'Ordine Domenicano, ho fatto fare questa campana di elemosine l'anno del Signore 1544».

I fedeli accorsi nei primi tempi, dopo il miracolo della guancia insanguinata, dovette essere numerosi, e molti i voti e le elemosine, perché troviamo che la chiesetta, quantunque piccolissima, fu dichiarata Rettoria e beneficio canonico, senza cura pastorale, ed i Rettori erano nominati dalla Sede Apostolica. Infatti la confraternita di S.Maria delle Grazie eretta in Sant'Anastasia nella chiesa di S.Maria la Nova era tenuta ad intervenire alle processioni delle domeniche di quaresima stabilite nella chiesa di S.Maria dell'Arco; e d'altra parte il Rettore aveva l'impegno di pagare ogni anno, nel giorno di S.Andrea apostolo, un carlino al Vescovo di Nola.


 
Il sogno della Madonna

A incrementare la devozione a questa Immagine del Beata Vergine Maria fu la tal Eleonora, già moglie di Marcantonio di Sarno, del Comune di Sant'Anastasia. Apparsole in sogno la stessa Madonna dell'Arco, la avvisò del pericolo che correva l'edicola di precipitare al suolo, e le comandò di provvedere. Al mattino Eleonora si recò alla chiesetta, guardò attentamente l'edicola e trovò esatto quanto in sogno Maria le aveva indicato. Piena di zelo si mise all'opera; ma, povera di mezzi, non potette fare altro che innalzare una rozza scarpata di pietra dietro il muro che minacciava di crollare.

Venuto a sapere di questa esigenza il cavaliere napoletano, Scipione De Rubeis Capece Scondito proprio perché devotissimo della Vergine dell'Arco e anche riconoscente per una grazia ricevuta, provvide a migliorare non solo la statica, ma all'ornamento e decorazione di tutto il tempietto che munì di un robusto cancello di ferro; inoltre per evitare che l'Immagine stessa non fosse guastata dall'intemperante devozione dei fedeli, ne coprì il volto con un grosso cristallo fino al busto ed il rimanente con un cancello di legno dorato.


 
La "particolare" testimonianza di Aurelia del Prete

Viveva, non molto lontano dalla chiesa della Madonna dell'Arco, una certa Aurelia Del Prete maritata a Marco Cennamo, conosciuta in tutta la contrada per triste fama di bruttezza fisica e morale. Un giorno costei, spaccando della legna si ferì un piede e temendo cose peggiori, fece voto alla Vergine dell'Arco che, se fosse guarita, in segno di riconoscenza, avrebbe portato alla chiesetta una coppia di piedi di cera.

Il lunedi di Pasqua di Resurrezione di quell'anno 1589 essa, cedendo alle preghiere del marito, che si recava alla chiesetta per portarvi anch'egli un voto di cera promesso per una grave malattia agli occhi da cui era guarito, si accompagnò con lui trascinandosi dietro con una corda un porcellino, per trovare occasione di venderlo alla fiera che fin da allora si teneva nei dintorni del Santuario. A causa della gran calca di popolo il porcellino le sfuggi di mano e si mise a correre spaventato tra la folla. Aurelia, bestemmiando, imprecando, si diede a corrergli dietro ed a cercarlo e cosi venne a trovarsi dinanzi alla chiesetta proprio mentre il marito, vi giungeva dall'altra parte con il suo voto. Il porcellino, per caso, era là, in mezzo a loro. A tale vista l'ira della donna giungendo al colmo esplose sbattendo a terra il voto di cera che aveva portato il marito, lo calpestò bestemmiando e maledicendo l'immagine della Vergine Maria e colui che l'aveva dipinta e chi veniva a venerarla. La cosa continuò nonostante le implorazioni del marito e di alcuni presenti.

L'anno seguente una malattia ai piedi portò la donna a restare a letto fino a quando, nonostante le cure dei medici, nella notte tra la domenica di Pasqua e il Lunedì, i piedi si staccarono dalle gambe! I parenti ed Aurelia stessa collegarono la cosa al fatto sacrilego dell'anno precedente. Pur volendo tenere nascosto il tragico evento la cosa si riseppe e siccome l'evento poteva essere di monito per tanti fedeli i piedi dell'Aurelia, dopo alcune vicissitudini, furono esposti nel Santuario.

In breve la fama di tale miracolo si sparse dappertutto; e da vicino, da lontano, da ogni parte, fu un accorrere di fedeli e di curiosi che si recavano all'Arco, per sincerarsi della cosa, o per implorar grazie dalla Vergine.

Di giorno in giorno la folla aumentò, divenne immensa, diventò preoccupante. Fu così necessario porre degli alabardieri e degli uomini armati lungo tutto il percorso per evitare inconvenienti. «Era - dice il Domenici - tale il rumore della moltitudine che pareva un mare quando sta in tempesta!». Il Vescovo di Nola, Monsignor Fabrizio Gallo, cercando di impedire una interpretazione superstiziosa del fatto, ordinò che si chiudesse la chiesetta, si sbarrasse il cancello del tempietto, per proibire ai fedeli di venerare l'Immagine. Poi volle sincerarsi personalmente dell'accaduto ed il giorno 11 maggio, venuto all'Arco, istituì un regolare processo canonico. Interrogò il marito, il medico che l'aveva curata, Francesco d'Alfano, lo speziale Alfonso de Moda, il Cav. Capecelatro ed altri; e infine la stessa Aurelia Del Prete ed avuta relazione dell'accaduto, domandò ad essa cosa ne pensasse; la donna rispose:

«Perchè l'anno passato bestemmiai la Madonna Santissima dell'Arco e questa quaresima non l'ho confessato; questa senza dubbio è la causa del castigo che ricevo allo scadere dell'anno.».

Così il Vescovo, senza attendere la conclusione del processo, ritirò il divieto che proibiva ai fedeli di venerare l'Immagine.


 
L'opera di S. Giovanni Leonardi e la costruzione del Santuario

L'afflusso di molti fedeli crearono particolari problemi organizzativi ed economici. Alcuni dissensi si crearono, e si trascinarono per diversi anni, tra il Vescovo di Nola, il Comune di Sant'Anastasia e il Vicerè di Napoli circa la chiesetta della Madonna dell'Arco.

Solo il Papa Clemente VIII, eletto il 30 gennaio 1592, risolse la annosa questione. Il 9 settembre 1592 mandò da Roma il Padre Giovanni Leonardi da Lucca, fondatore della Congregazione dei Chierici Regolari della Madre di Dio con alcuni suoi preti; e con la lettera della Sacra Congregazione, a firma del Cardinale Alessandrino, incaricò il Vescovo di Nola di affidargli la cura spirituale della Chiesa, e di deputare tre o quattro uomini del Casale di Sant'Anastasia per l'amministrazione delle elemosine e dei beni temporali.

Il giorno 8 ottobre dello stesso anno, con regolare nomina da parte del Vescovo, il P. Giovanni Leonardi prendeva possesso della chiesa ed iniziava il suo ministero coadiuvato da tre suoi sacerdoti. Il 6 aprile 1593 per una maggiore funzionalità, anche in vista di una costruzione di un nuovo e più grande edificio per il culto, tutto, anche la parte economica, fu affidato al Leonardi. Nel suo santo zelo il Padre diede subito inizio all'opera già da tanto tempo e da tutti desiderata; un tempio cioè degno della gloria di Maria.

Il 1° maggio dello stesso anno, giorno di sabato, ne fu posta con grande solennità la prima pietra, benedetta dal Vescovo di Nola Mons. Gallo. Su di essa fu inciso da una parte:


Nell'anno del Signore 1593 il primo maggio,
essendo Papa Clemente VIII,
Re d'Ispagna Filippo II,
e Vescovo di Nola Fabrizio Gallo
fu posta questa prima pietra.
E dalla parte opposta:
Alla Beata Vergine dell'Arco
per la bestemmiatrice Aurelia
castigata nei piedi
l'anno 1590 il giorno 20 aprile.

Bisognò superare non poche difficoltà tecniche, perché l'antica edicola e la cappelletta fatta costruire dal De Rubeis, pur rimanendo dove erano, si trovassero nel centro della chiesa.

La devozione alla Beata Vergine dell'Arco sotto la cura spirituale e l'amministrazione del santo P.Giovanni Leonardi crebbe in quantità e in qualità. Una pallida idea ce la dà una lettera scritta dal Leonardi al Vescovo di Nola per rendere conto dell'amministrazione di un anno. Qui risulta che di sole elemosine aveva raccolti ben 85.009 ducati. Ciò fa pensare a quanta fiducia si era conquistata presso tutti e quanto i fedeli gli fossero grati della sua opera e del suo zelo. Il Vescovo di Nola, poi, scrivendo alla S.Congregazione lo fece con queste parole: «Osservando quanto bene, anzi ottimamente il detto P.Giovanni Leonardi siasi condotto, non solo devesi meritatamente quietare, ma devesi stimare degno di essere premiato, onde lo lodiamo ampiamente».

 
Le stelle attorno al volto della Vergine e altri prodigi

A molti miracoli e molte grazie è legata la devozione alla Vergine Maria dell'Arco; ne fanno fede le testificazioni di migliaia di ex-voto. Tante le testimonianze riportate dal Domenici nel suo scritto; se ne contano circa duecento con riferimenti a persone ben precise, a testimonianze e per alcune anche a veri e propri processi canonici.Oltre a queste innumerevoli grazie ricevute per intercessione della Beata Vergine Maria, la storia della devozione a questa sacra immagine è costellata anche da fenomeni straordinari testificati da testimoni autorevoli in verbali notarili.

Il miracolo della pietra spezzata. Quando fu costruito il tempietto attuale, si volle rivestire di marmi il muro dov'è dipinta l'immagine della Madonna. Con brutta sorpresa si trovò una grossa pietra vesuviana, incastrata nel muro, che con una delle sue punte arrivava sotto la figura della Madonna. Non si riusciva a toglierla con nessun mezzo, anzi c'era pericolo che da un momento all'altro tutto l'intonaco dov'era dipinta l'immagine andasse in briciole. L'architetto Bartolomeo Picchiatti, vistosi perduto, prese in mano la pietra e pregò con fede la Madonna di dargliela. Essa si spezzò: metà restò nel muro e metà cadde a terra. Questa, a ricordo, fu esposta in chiesa, ma per salvarla dai fedeli che ne prendevano delle schegge per devozione, fu collocata in alto in uno dei pilastri del santuario, dove ancora si può vedere.

 
Era la notte del 15 febbraio 1621

Nel pomeriggio del 7 marzo del 1638 alcune pie donne che pregavano, nell'alzare gli occhi verso la miracolosa Immagine notarono qualche cosa d'insolito. Fissando più attentamente lo sguardo videro che la guancia colpita dalla palla del sacrilego giocatore, sanguinava di nuovo. Prima timidamente, poi a gran voce gridarono al miracolo, facendo accorrere i vicini ed i frati, che, atterriti, dovettero constatare la verità di quanto le buone donne asserivano.

Il prodigio non cessò quella sera, ma fu visibile a tutti per diversi giorni, dando modo così alla notizia di diffondersi anche lontano. E da tutte le parti fu un accorrere concitato di fedeli, curiosi, ammirati ed atterriti insieme; la folla aumentò di giorno in giorno, fu tanta che le autorità stesse religiose e civili non poterono trascurare la cosa. Accorse infatti da Napoli il Viceré D.Ramiro Felipe Muñez de Guzman, duca di Medina las Torres (1637-43); e nello stesso giorno il Vescovo di Nola Monsignor Giambattista Lancellotti mandò il suo Vicario Generale D.Domenico Ignoli, perché constatasse l'accaduto. Il tutto fu testificato con un atto ufficiale da un pubblico notaio e alla presenza del Viceré, di tutti i Padri del convento, di molti Padri Minori Conventuali e di tutti i sacerdoti della Collegiata di Somma.

Tra i vari prodigi certamente quello più evangelico vissuto in modo giornaliero, è stato (ed è ancora oggi) l'assistenza spirituale e materiale ai pellegrini. In certe occasioni però quello che era una evangelica quotidianità diventava testimonianza di grande carità cristiana. Ci si riferisce qui a quei catastrofici eventi che la popolazione campana ha vissuto nei quattro secoli dell'esistenza di questo augusto Santuario mariano.

Quando vi fu l'eruzione del Vesuvio tra la fine del 1631 e l'inizio dell'anno seguente furono ospitati e curati migliaia di persone finché non terminò il pericolo. Anche in questa circostanza si racconta di un prodigio accaduto: per tutto il tempo dell'eruzione il volto della Madonna scomparve e si rese visibile solo alla fine dell'eruzione. A ricordo di tale evento fu posta, dietro l'edicola della sacra Immagine, una lapide di raro marmo nero con una scritta incisa in lettere d'oro.

Anche durante la peste del 1656, che colpì tutta la Campania, mietendo centinaia di migliaia di vittime, il Santuario di Madonna dell'Arco fu un luogo di ricovero e di cura. In questa occasione è nata la devozione di ungersi in casi di malattia con l'olio della lampada votiva che arde, giorno e notte, presso l'Immagine della Beata Vergine. Molte testimonianze attendibili ci sono rimaste a proposito della guarigione avuta dal male della peste nell'invocare con fede la Madonna. Così in altre simili occasioni il Santuario è diventato luogo di riparo e di carità evangelica nell'assistenza dei rifugiati.

Un'altro prodigio che va narrato per la sua eccezionalità e le sicure testimonianze riportateci, accadde al tramonto del 25 marzo 1675. Un religioso del convento piamente pregava dinanzi all'altare di Maria, quando, alzando gli occhi verso l'Immagine, vide sotto la lividura della guancia risplendere una luce color d'oro e tutto intorno sfavillare numerose e piccole stelle. Ritenendo che fosse un'allucinazione chiamò il sacrestano, e senza prevenirlo, l'invitò a guardare l'Immagine. L'interrogato colmo di meraviglia, confermò la visione della luce e delle stelle, e corse a chiamare il Priore, in quel tempo il P.Rossella. Questi si fece accompagnare da altri due frati all'altare della Vergine e constatò anch'egli il miracolo.

Il mattino dopo all'alba, il Vescovo di Nola, Monsignor Filippo Cesarino, avvisato dal Priore del convento, si recò a visitare la Sacra Immagine. Osservò lungamente le stelle, e commosso volle che immediatamente anche il suo Vicario osservasse ed attestasse quel prodigio. Ordinò ai Padri di divulgare la notizia e di non porre ostacoli alla gioia ed al fervore dei fedeli, ed appena ritornato a Nola, comandò che per tutta la Diocesi s'istituissero pubbliche processioni di ringraziamento. Il Vicerè del tempo, Antonio Alvarez Marchese D'Astorga, (1672-75), accorse anche lui al Santuario, e confermando l'ordine del Vescovo di Nola, comandò che per mano di un pubblico notaio venisse redatto un documento riguardante l'accaduto, da inviare poi al Re di Spagna, assieme a una riproduzione dipinta del miracolo stesso. Dopo il Viceré vennero e constatarono il prodigio il Cardinale Orsini (più tardi papa Benedetto XIII), l'Inquisitore di Napoli e i Consultori del Sant'Uffizio Vaticano.

Il 26 aprile, quindi circa un mese dopo (il che significa che tale prodigio durò molto tempo), il notaio Carlo Scalpato da Nola redasse l'atto ufficiale in presenza e con la testimonianza di moltissime persone autorevoli, religiose e civili, tra le quali troviamo il Nunzio della S.Sede presso il Regno di Napoli S. Ecc. Marco Vicentino, Vescovo di Foligno; il Vescovo di Nola Filippo Cesarino; il Vicario Generale della Diocesi, Giovanbattista Fallecchia; il Duca D. Fabrizio Capece Piscicelli del Sedil Capuano e suo fratello Girolamo; Don Nicola Capecelatro; il residente del Duca di Toscana presso la Corte di Napoli, D. Santolo di Maria, ed il giudice del luogo dott. Onofrio Portelli.

 
Visita del Papa Pio IX

Pio IX, in seguito alle vicende politiche che lo costrinsero ad abbandonare la sua Sede vaticana, fu ospite del Re di Napoli, Ferdinando II. Stando a Napoli il Papa udì del Santuario e della portentosa Immagine della Madonna dell'Arco. Così volle recarsi a venerare in forma solenne questa Immagine tanto cara al popolo napoletano.

Il 15 dicembre 1849 infatti, a mezzogiorno, il corteo pontificio giunse al Santuario. Accompagnavano Pio IX alcuni Cardinali, ed il Cav. D. Alfonso d'Avalos Marchese di Pescara e Vasto, in rappresentanza dell'autorità civile. Il Sig. De Ionez, Maggiore degli Svizzeri, faceva da cerimoniere. Alla porta del Santuario erano a ricevere Sua Santità, il Maestro Generale dei Domenicani P. Vincenzo Aiello, venuto per l'occasione da Roma, il Provinciale P. Girolamo Gigli, il Priore del convento P. Gian Paolo Brighenti, il Vescovo di Nola Mons. Gennaro Pasca, la Collegiata di S. Anastasia, tutti i frati del convento e una moltitudine di popolo. Appena giunto, il Pontefice, accortosi che le guardie d'onore avevano proibito ai fedeli d'entrare nel tempio, diede ordine che al popolo non fosse vietato l'ingresso, dicendo:
«Innanzi alla Madonna il Papa non entra senza il suo popolo».

Poi giunto dinanzi all'Immagine, s'inginocchiò e poste le guance fra le palme, pianse, rimanendo così in preghiera per molto tempo.

Il Nunzio a Napoli Mons. Naselli impartì la benedizione eucaristica. Terminata la celebrazione Pio IX entrò in sacrestia, dove ammise al "bacio apostolico" tutti i presenti. Poi, dopo aver visitato il convento ed il vicino Ospizio dei Poveri, fece ritorno a Napoli.

 
La solenne Incoronazione

Una delle date che vanno ricordate per la storia del Santuario è quella della solenne Incoronazione dell'Immagine della Madonna dell'Arco, in quanto questa ha dato inizio alla solenne celebrazione che si svolge ogni anno, la seconda domenica di settembre.

Monsignor Tommaso Passero, dell'Ordine dei Predicatori, devotissimo della Vergine, Vescovo di Troia, chiese al Papa di poter incoronare solennemente la sacra Immagine. Il 22 agosto 1873 ottenne tale permesso. Egli stesso offri le due corone di oro, ed affidò il compito di organizzare il solenne rito a S. Ecc. Mons. Tommaso Michele Salzano, Arcivescovo di Edessa, anch'egli dell'Ordine Domenicano.


© Santuario Madonna dell’Arco



Il linguaggio dei numeri

s paoloTra le abituali modalità con cui oggi, attraverso molteplici mezzi, la informazione non solo viene immessa nei circoli comunicativi, ma spesso risulta anche adeguatamente soppesata, primeggia quella dei parametri numerici. Questi ultimi appaiono sempre più assidui al punto che si finisce per conferire loro una carica di significazione valutativa forse fin troppo eccessiva e a volte senza dubbio decisamente meccanicistica.

Tuttavia non c’è dubbio che, tanto per restare alla tematica proposta, desta sicuramente una certa particolare sensazione il notare come per ben 37 volte compaia la voce “San Paolo” nell’indice analitico ubicato al termine del volume in cui sono raccolti i SERMONI di San Giovanni Leonardi e del quale curai la pubblicazione nel 2003.

Per di più va osservato come questa nota di merito appena accennata non tenga conto dei tanti altri richiami esegetici ugualmente messi in relazione con l’Apostolo. Difatti questo tipo di rimando appare largamente diffuso qua e là nelle carte dell’ampio manoscritto anche se, ovviamente, spesso ciò avviene in maniera soltanto implicita. Ma è evidente che questi ultimi riferimenti, ancorché in sede di decodificazione critica mi si manifestassero chiarissimi nel loro nesso ascetico, siccome però sul piano della stretta formalità lessicale non apparivano esplicitati in modo diretto, naturalmente non potevo catalogarli in quel preciso e determinato elenco.

A questa prima indicazione bibliografica, e sempre in rapporto alle Epistole lasciateci dall’Apostolo, vanno poi ad assommarsi altri collegamenti i quali, a loro volta, sono presenti con frequenza anche nelle lettere del Santo. Qualcuna di queste espressioni viene riportata addirittura con la citazione testuale della corrispondente pericope  paolina, qualche altra invece, pur rivelando con limpidezza la propria matrice di provenienza, appare però riproposta addirittura in gergo e quindi mutuata dal padre Giovanni con delle formulazioni linguistiche decisamente personalizzate.

 

Non altro che Cristo

Scrivendo alla comunità cristiana di Corinto San Paolo affermava di “non sapere annunciare altro se non Gesù Cristo, e questi crocifisso” (1 Cor 2, 2).

Proprio nella scrupolosa fedeltà a un simile progetto di vita e fermamente legato a questo magistero così radicale e totalizzante, Giovanni Leonardi conformò ogni attimo della sua esistenza.

Difatti, a sicuro e comprovato sigillo di quanto ho appena scritto, mi limito a riferire solo un minuscolo frammento desunto da una sua lettera, fra i tanti che potrei citare al riguardo.

Il 16 settembre del 1603 ammoniva con paterna ed intensa emozione i suoi religiosi ad avere sempre:
Avanti gli occhi della mente nostra solo l’onore, il servizio e la gloria di Cristo Gesù Crocifisso”. L’assoluta evidenza comparativa dei testi dispensa dal dover, anche minimamente, sottolineare come, nel fugace ed essenziale documento epistolare, si provveda a stilare una vera e propria commossa parafrasi del brano biblico appena riportato nel primo capoverso di questo paragrafo.

Si noti, però, che -in termini di assoluta ed esigente chiarezza, oltre che di esistenziale e realistica aderenza-  quel decisivo messaggio viene esposto alla personale tenuta di un gruppo di giovani i quali sanno benissimo di essere dei concreti ed effettivi protagonisti della loro storia, ma che si accingono a giocare il proprio futuro esclusivamente sulla scorta di una carismatica guida spirituale alla quale si consegnano con cieca fiducia.

Tuttavia la nota più rilevante da cogliere è un’altra.
Su di essa mi corre ora il responsabile obbligo di richiamare l’attenzione con estrema premura.
Essa consiste nel dover prendere atto che l’esortazione qui riferita certamente non è affatto la registrazione di un estemporaneo invito prodottosi con modalità episodiche ed occasionali, magari soltanto perché sollecitato da una qualche necessità risultata determinante in quel momento a motivarne la stesura.

La realtà più affascinante è che, al contrario, tanti altri scritti leonardini ci testimoniano come quella fermissima indicazione costituisse una sua costante assiomatica così continuamente ricorrente da rivelarsi perciò, nitido specchio di un suo costitutivo e radicato convincimento di fede. Egli avvertiva, con scrupolo, l’esigenza apostolica di dover riversare quel patrimonio, come preziosa eredità, verso chi si rendeva disponibile a percorrere il suo stesso itinerario.

Perché ne fossero ben scandite in piena coerenza le differenziate stagioni del personale vissuto, il Santo prestò sempre vigile e premurosa attenzione alle direttrici di un singolare quanto misterioso tracciato che da tempo percepiva tra gli inconsci risvolti del proprio interno. Quegli sparsi segmenti, riannodandosi progressivamente tra loro, man mano configurarono -nella devota specularità del suo animo- le grandezze di un progetto forse inizialmente a malapena intuito, ma che intanto gli si andava dipanando con maggiore chiarezza ogni giorno di più grazie al suo umile atteggiamento di premuroso e adorante discernimento dello Spirito.

 

“Con Lui misurate le cose”

A piena conferma dell’assunto or ora chiarito, dirò che il titoletto preposto al capoverso l’ho desunto direttamente da un’altra sua lettera, quella cioè del 16 maggio 1592.

L’invito assai fiducioso, ma anche altrettanto fortemente perentorio, per un verso evoca un lessico tecnicamente familiare per chi un tempo, sul bancone della spezieria era stato obbligato a dosare con attenzione il farmaco e per l’altro, alla luce meditativa della parola rivelata, riconosce il solo Medico in grado di salvare l’uomo teso in un difficile processo di rinnovamento e di liberazione dal male.

Infatti tutta la sua vita ne fu -di questo fermissimo convincimento- la più coerente e leggibile esegesi interpretativa.

Dalla esperienza di laico impegnato, praticata prima di tutto nel giovanile e rigoroso fervore riformista tra i  Colombini di Lucca, proprio alla stregua di un vero neofita; a quella poi della seria e responsabile dedizione professionale presso la spezieria di Antonio Parigi per la quale Benedetto XVI lo avrebbe proclamato celeste patrono dei farmacisti; successivamente quale presbitero in Lucca e, per quella porzione di Chiesa, sollecitato ad ogni forma di annuncio evangelico: privilegiando in prima istanza i fanciulli, ma subito dopo rivolgendosi anche agli adulti con specifici incontri di catechesi svolti nell’oratorio della Rosa;e poi come fondatore di una nuova famiglia religiosa; e ancora quale riformatore di antichi istituti monastici su diretta committenza pontificia; e infine progettando a Roma una rinnovata missionarietà di vasto respiro evangelico e adeguata ai mutati confini -anche geografici- dell’umano.

In un contesto ecclesiale lacerato spesso soltanto da astiose polemiche e da vuoti verbalismi che, nel migliore dei casi, si rivelavano quanto meno puramente accademici, propose quale unico punto di riferimento innovativo per l’uomo che si pone alla ricerca della sua vera identità solo i chiari lineamenti della figura di Cristo.

 

Un duplice nutrimento

Con una raffinata modalità che raramente è dato cogliere, il dono carismatico di Giovanni Leonardi si esprime anche attraverso la singolare capacità di realizzare una originalissima ed efficace sintesi.

Il Santo Fondatore viene a collocarsi tra istintive attitudini intellettuali e l’incalzante dinamismo etico -evangelicamente contagioso- che gli derivava da una crescita personalmente voluta con forte decisione e perseguita con altrettanta irremovibile costanza in virtù di una trainante suggestione interiore da lui avvertita in maniera affascinante ed irresistibile.

Per onestà storica va riconosciuto che tante componenti dottrinali e diversi presupposti di costume derivarono alla sua formazione giovanile certamente da substrati culturali ben relazionati ad un preciso ambiente di religiosità e di culto. Purtroppo a onor del vero, nella sua CRONACA relativa alle primissime origini dell’Istituto Leonardino, Cesare Franciotti ci fornisce un quadro non proprio esaltante, ma anzi assai drammaticamente avvilente di quel contesto cittadino. Comunque, pur al di là di queste innegabili contraddizioni interne alla realtà lucchese, non è difficile ravvisare come -ciononostante- dall’identica cerchia provenga al Nostro, in ogni caso, una innata carica di notevole sensibilità estetico-mistica.

Tuttavia questo originario connaturato patrimonio, viene poi però intensamente potenziato per la saldatura che il protagonista riesce a realizzare col nutrimento dello spirito da lui assai ben metabolizzato, intanto attraverso uno studio particolarmente attento e severo. Ciò avviene prima di tutto con le discipline umanistiche grazie alle quali, difatti, non di rado campeggiano nei suoi scritti frequenti apporti della classicità.

Ma la sua crescita interiore avviene soprattutto in virtù di un’appassionata quanto meditata lettura del dato rivelato. Per averne una minima conferma basterà pensare anche semplicemente all’infinito numero delle citazioni scritturistiche cosparse con abbondanza nei testi conservati fino a qualche tempo fa nel geloso segreto degli Archivi ed ora messi finalmente a disposizione degli studiosi. Si tenga presente poi -secondo quanto ho potuto largamente dimostrare in diverse altre sedi- che gli stessi brevi segmenti biblici vengono riferiti dal nostro autore con il solo supporto della memoria.

 

Il “Volto Santo” di Lucca

Come non ravvisare allora nella intensa cristologia di San Giovanni Leonardi, da lui riproposta sempre con rinnovato impatto emozionale e perciò resa quasi plasticamente tangibile, come non cogliere in quei ripetuti, insistenti messaggi, in quell’annuncio costantemente proclamato, come non percepire -dicevo- una indelebile, persistente reminiscenza a lungo custodita nel suo animo con profonda emozione e venerata con familiare trasporto?

Difatti sono unici e inconfondibili i tratteggi attraverso i quali -dalla notte dei tempi- nella cattedrale di Lucca si mostra, a chi devotamente si sofferma, la severa e pur dolcissima immagine del “Volto Santo” .

Nel Cristo certamente crocifisso, ma solennemente ammantato di fastosi abiti e adorno di corona regale, l’antica e ieratica icona rende visivamente percepibile l’umiliazione e il dramma della morte, ma anche la certezza esaltante del mistero pasquale.

Giovanni Leonardi se ne immedesimò talmente al punto da far del tutto sua quella identificazione mistica con il Maestro Divino già enunciata dall’apostolo Paolo (Gal 2,20).

A livello di personalissimo segnale grafico, il nostro Santo abitualmente si lascia contraddistinguere per una scrittura assai marcata e quindi vigorosamente vistosa, oltre che assai difficile da decodificare. Ebbene, proprio all’interno di un ben definito sermone, per l’esattezza, quello intitolato: “In die exaltationis Sanctae Crucis”, l’autore provvede a stilare soltanto sul bordo del manoscritto e attraverso minuscoli quasi impercettibili caratteri, come per un senso di signorile e riservato pudore, una postilla infuocata di amore.

In essa è virtualmente enunciata la massima sublimazione che si possa concepire della Croce. Scandalo e stoltezza per alcuni, come scrive Paolo (1 Cor i,23), qui è percepita addirittura in termini di gioiosa esplosione emotiva.

A quella sdrucita carta padre Giovanni consegna tutta la piena di un appagamento assolutamente non dicibile con povere e semplici parole umane (2 Cor 12,4).

 

Testamento ascetico

Volendo focalizzare in un estremo compendio tutto quanto ho cercato di esporre in queste scarne annotazioni, sono soprattutto due le sollecitudini pastorali che il Leonardi ha recepito dal singolare magistero di Paolo di Tarso.

Dalla carta 461 alla 464 dei SERMONI, e proprio commentando una pericope della seconda lettera ai Corinzi (2 Cor 6,3), il Santo ci affida una specie di testamento spirituale visto che, rispetto agli altritesti omileticiquasi tutti legati alle sue prime esperienze di presbitero della diocesi lucchese, questo sembra aver avuto una redazione, invece, in tempi non lontani da quella che sarebbe stata poi la conclusione della sua giornata terrena.

Innanzitutto: Non vanificare il dono di Dio.
Solo chi è passato, dall’angosciante buio di un tunnel, al fulgore della “via di Damasco”,  può esortare a “non accogliere invano la grazia di Dio” (2 Cor 6,1).

A quella data padre Giovanni aveva ormai fatto delle esperienze assai sofferte, in qualità di riformatore pontificio e come inviato personale di Clemente VIII, presso la Madonna dell’Arco, a Montevergine, a Vallombrosa e a  Montesenario. Le stesse, inoltre, si erano poi sommate alle lacune ecclesiali già viste nella sua terra di origine. Ed ecco la ragione per la quale non aveva esitato nell’inviare a Paolo V il coraggioso “Memoriale per la riforma di tutta la Chiesa”.

Questo spiega perché, testualmente, ora si premuri di scrivere: “Attendiamo, di gratia, di non haver ricevuto la gratia di Dio invano e non corrispondere con le nostre operationi”.

Il secondo passaggio non può essere altro che il conseguente, positivo progetto di vita con il dovere di una “purità candida e santa della vita cristiana perché il buon cristiano si deve non solo guardare dal male, ma anche ab operibus mali”.

La citazione del frammento paolino, registrato in questo caso con modalità addirittura testuali, per davvero non ha bisogno di commento, ma solo di filiale gratitudine storica.

 

Un occhio stupefatto per l’incanto

Dopo tanti anni, nel corso dei quali, attraverso la pubblicazione di una quindicina di volumi, ho portato avanti le mie investigazioni archivistiche sulla figura del nostro Santo Fondatore non esito, ancora oggi, a confessare più che mai una mia rinnovata, profonda ammirazione verso di lui.

Infatti, è veramente impossibile non restare commossi nel proprio intimo ed esimersi da una  totale, gradevolissima suggestione nel constatare come -quale che possa essere l’argomento trattato- Giovanni Leonardi abbia il dono di articolare le sue meditate considerazioni in modo tale da annodarle -comunque e in ogni caso- sempre intorno a un unico, irrinunciabile polo di riferimento vitale costituito -perennemente- dalla persona di Cristo Gesù di Nazaret.

Ancorché si esprima in un organico quanto articolato tessuto di fede, questa “lettura” del Maestro  -dai connotati così spiccatamente paolini innanzitutto nelle tematiche, ma frequentemente persino nel più esplicito strumento lessicale- viene percepita e contemplata dal Santo in una personalissima dimensione assolutamente originale.

Essa si definisce per una eminente modalità capace di contraddistinguere la propria qualifica sotto forma di un singolare tracciato cui viene rivendicata precisa e piena autonomia ascetica.

Per quanto a un osservatore esterno e distratto un certo esito possa anche sembrare apparentemente distante o addirittura impossibile -per la specifica trattazione che è in oggetto- il nucleo centrale del pensiero cristologico leonardino è così profondo e determinante da offrirgli in ogni momento la virtuale e irripetibile potenzialità di evolvere in modo tale da concludere qualsiasi percorso meditativo  puntando il suo occhio -perennemente stupefatto per l’incanto- sempre e comunque solo sulla figura del suo Maestro Divino.
                                                                                         
Vittorio Pascucci OMD




ic sfr bIl corpo di Santa Francesca Romana, donna evangelica che fu sposa, madre e serva fedele del Signore, nel IV centenario della canonizzazione, sta visitando alcune Chiese di Roma legate alla sua presenza e alla sua spiritualità. Nella Chiesa di Santa Maria in Campitelli le reliquie saranno venerate il 7 e l’8 febbraio. Santa Francesca non ebbe modo di vedere durante la sua vita l’attuale Chiesa di Campitelli perché edificata nella metà del XVII secolo, tuttavia pregò come tutti i romani dinanzi all’icona di Santa Maria in Portico, oggi venerata nel santuario di Campitelli. In effetti, le testimonianze storiche accertano che il nome dei Ponziani, è tra le famiglie patrizie medievali che appaiono negli elenchi della “Nobile società di Santa Maria in Portico”. La Compagnia, fu fondata da Alessandro II nel 1061 e Celestino III nel 1191 la legò all’Ospedale di Santa Maria in Portico, in seguito unito a quello della Consolazione presso il Campidoglio (Cf. L. Pasquali, Compendio storico della miracolosa immagine di S. Maria in Portico, Roma 1901, 37-62). San Giovanni Leonardi durante la sua permanenza romana nell’Oratorio di San Girolamo “il fonte e l’origine dello spirito in Italia”, fu accompagnato e presentato presso il Monastero di Tor De’ Specchi, da San Filippo Neri per la direzione spirituale delle Oblate. Così Ludovico Marracci riferisce nella biografia del Santo: “Si stese ancora la carità di Giovanni ad aiutare nello spirito le Reverende Madri di Torre di Specchi, per mezzo delle sacramentali Confessioni, e degli esercitij spirituali, fatti da molte di quelle alle di lui mani. Et alcune li restarono tanto affettionate, e tanto gran concetto della sua virtù formarono, che essendo di già passato da questa all’immortal vita, lo scrissero nel catalogo de’i loro Santi Tutelari, e con gran fede alle di lui intercessioni ricorrendo, molte gratie ne ricevettero, siccome da’i processi autenticamente formati è manifesto. E forse per questa loro devotione al Santo Fondatore, procurarono poi quelle Reverende Madri, & ottennero da Paolo V per Confessori ordinarij i figliuoli di Giovanni, i quali le servirono in tal cura per qualche tempo.” (L. Marracci, Vita del Venerabil Padre Giovanni Leonardi Lucchese, Roma 1623, 256-257). In seguito, la nobile Duchessa di Gravina Felice Maria Orsini (1565-1647), la cui storia è narrata tra le memorie dei padri dell’Ordine della Madre di Dio, fu accolta fra le Oblate di Tor De’ Specchi nel 1620. Lasciò nel 1646 la sua casa e i suoi possedimenti ai padri leonardini di Napoli, edificando il santuario napoletano di Santa Maria in Portico a Chiaia e commissionando una preziosa copia dell’effigie romana della Madonna di Campitelli (C. A. Erra, Memoria De’ Religiosi della Madre di Dio, 1759 239-253).



Santa Francesca Romana: origini, sposa per obbedienza


La nobile Francesca Bussa de’ Buxis de’ Leoni, nacque a Roma nel 1384, in una famiglia abitante nei pressi di Piazza Navona e fu battezzata nella chiesa romanica di Sant’Agnese in Agone.Ebbe un’educazione elevata per una fanciulla del suo tempo, grandicella accompagnava la madre Jacovella de’ Broffedeschi, nelle visite alle varie chiese del suo rione, ma spesso fino alla lontana chiesa di santa Maria Nova sull’antica Via Sacra, gestita dai Benedettini di Monte Oliveto, dai quali la madre era solito confessarsi e in questa chiesa, anche Francesca trovò il suo primo direttore spirituale, padre Antonello di Monte Savello, che ben presto si accorse della vocazione della fanciulla alla vita monastica, nonostante vivesse negli agi di una ricca e nobile famiglia. Ma fu proprio questo benedettino a convincerla ad accettare la volontà del padre, Paolo Bussa de’ Buxis de’ Leoni, che secondo i costumi dell’epoca, aveva combinato per la dodicenne Francesca, un matrimonio con il nobile Lorenzo de’ Ponziani; il padre, in quel periodo conservatore del Comune di Roma, intendeva così allearsi ad un’altra famiglia nobile. I Ponziani si erano arricchiti con il mestiere di macellai, comprando case e feudi nobilitandosi, essi risiedevano in un palazzo di Trastevere al n. 61 dell’attuale via dei Vascellari, che nel Medioevo si chiamava contrada di Sant’Andrea degli Scafi; dell’antico palazzo più volte trasformato nei secoli, rimangono le ampie cantine e al pianterreno l’ambiente quattrocentesco con il soffitto a cassettoni. Una volta sposata, Francesca andò ad abitare nel palazzo dei Ponziani, ma l’inserimento nella nuova famiglia non fu facile, e questa difficoltà si aggiunse alla sofferenza provata per aver dovuto rinunciare alla sua vocazione religiosa; ne scaturì uno stato di anoressia che la sprofondò nella prostrazione. Si cercò di sollevarla da questa preoccupante situazione ma invano; finché all’alba del 16 luglio 1398 le apparve in sogno sant’Alessio che le diceva: “Tu devi vivere… Il Signore vuole che tu viva per glorificare il suo nome”. Al risveglio Francesca, accompagnata dalla cognata Vannozza, si recò alla chiesa dedicata al santo pellegrino sull’Aventino, per ringraziarlo e da allora la sua vita cambiò, accettando la sua condizione di sposa e a 16 anni ebbe il primo dei tre figli, che amò teneramente, ma purtroppo solo uno arrivò all’età adulta.


Santità vissuta in famiglia e nelle opere di carità

Con la cognata Vannozza, prese a dedicare il suo tempo libero dagli impegni familiari, a soccorrere poveri ed ammalati; erano anni drammatici per Roma, gli ecclesiastici discutevano sulla superiorità o meno del Concilio Ecumenico sul Papa; lo Scisma d’Occidente devastava l’unità della Chiesa e lo Stato Pontificio era politicamente allo sbando ed economicamente in rovina. Roma per tre volte fu occupata e saccheggiata dal re di Napoli, Ladislao di Durazzo e a causa delle guerriglie urbane, la città era ridotta ad un borgo di miserabili. Papi ed antipapi di quel periodo di scisma, si combattevano fra loro e spesso mancava un’autorità centrale ed autorevole, per riportare ordine e prosperità. Francesca perciò volle dedicarsi a sollevare li misere condizioni dei suoi concittadini più bisognosi; nel 1401 essendo morta la moglie, il suocero Andreozzo Ponziani le affidò le chiavi delle dispense, dei granai e delle cantine; Francesca ne approfittò per aumentare gli aiuti ai poveri e in pochi mesi i locali furono svuotati. Il suocero allibito decise di riprendersi le chiavi, ma ecco che essendo rimasta nei granai soltanto la pula, Francesca, Vannozza e una fedele serva, per cercare di soddisfare fino all’ultimo le richieste degli affamati, fecero la cernita e distribuirono anche il poco grano ricavato; ma pochi giorni dopo sia i granai che le botti del vino erano prodigiosamente pieni. Andreozzo che comunque era un uomo caritatevole, che già nel 1391 aveva fondato l’Ospedale del Santissimo Salvatore, utilizzando la navata destra di una chiesa in disuso, oggi chiamata Santa Maria in Cappella, restituì le chiavi alla caritatevole nuora. A questo punto Francesca decise di dedicarsi sistematicamente all’opera di assistenza; con il consenso del marito Lorenzo de’ Ponziani, vendette tutti i vestiti e gioielli devolvendo il ricavato ai poveri e indossò un abito di stoffa ruvida, ampio e comodo per poter camminare agevolmente per i miseri vicoli di Roma. Era ormai conosciuta ed ammirata da tutta Trastevere, che aveva saputo del prodigio dei granai di nuovo pieni, e un gruppo di donne ne seguirono l’esempio; con esse Francesca andava a coltivare un campo nei pressi di San Paolo, da cui ricavava frutta e verdura trasportate con un asinello e che poi elargiva personalmente alla lunga fila di poveri, che ormai ogni giorno cercava di sfamare. Alla morte del suocero Andreozzo de’ Ponziani, Francesca si prese cura dell’Ospedale del Ss. Salvatore, ma senza tralasciare le visite private e domiciliari che faceva ai poveri. Incurante delle critiche e ironie dei nobili romani a cui apparteneva, si fece questuante per i poveri, specie quelli vergognosi e per loro chiedeva l’elemosina all’entrata delle chiese; mentre si prodigava instancabilmente in queste opere di amore concreto, tanto che il popolino la chiamava paradossalmente “la poverella di Trastevere”, Francesca riceveva dal Signore il dono di celesti illuminazioni, che lei riferiva al suo confessore Giovanni Mariotto, parroco di Santa Maria in Trastevere che le trascriveva. Queste confidenze, pubblicate poi nel 1870, riguardavano le frequenti lotte della santa col demonio; del suo viaggio mistico nell’inferno e nel purgatorio; delle tante estasi che le capitavano; e poi dei prodigi e guarigioni che le venivano attribuite.


Le tragedie familiari

Ma questi doni straordinari che il Signore le aveva donato, furono pagati a caro prezzo, la sua vita spesa tutta per la famiglia ed i poveri di Roma, fu funestata da molte disgrazie; già quando aveva 25 anni nel 1409, suo marito Lorenzo, comandante delle truppe pontificie, durante una battaglia contro l’invasore Ladislao di Durazzo re di Napoli, contrario all’elezione di papa Alessandro V (1409-1410), venne gravemente ferito rimanendo semiparalizzato per il resto della sua vita, accudito amorevolmente dalla moglie e dal figlio. Nel 1410 la sua casa venne saccheggiata e i loro beni espropriati, mentre il marito sebbene invalido fu costretto a fuggire, per sottrarsi alla vendetta di re Ladislao, che però prese in ostaggio il figlio Battista. Poi a Roma ci fu l’epidemia di peste, morbo ricorrente in quei tempi, che funestava alternativamente tutta l’Europa, il suo slancio di amore verso gli ammalati, le fece commettere l’imprudenza di aprire il suo palazzo agli appestati; la pestilenza le portò così via due figli, Agnese ed Evangelista e lei stessa si contagiò, riuscendo però a salvarsi; passata l’epidemia poté ricongiungersi con il marito e l’unico figlio rimasto Battista. È di quel periodo l’apparizione in sogno del piccolo figlio Evangelista, insieme con un Angelo misterioso, che s. Francesca da allora in poi avrebbe visto accanto a sé per tutta la vita.


Fondatrice di confraternita

Francesca Bussa, continuando ad aiutare i suoi poveri ed ammalati, senza fra l’altro trascurare la preghiera, tanto da dormire ormai solo due ore per notte, prese a dirigere spiritualmente il gruppo di amiche, che la coadiuvavano nella carità quotidiana e si riunivano ogni settimana nella chiesa di Santa Maria Nova. E durante uno di questi incontri, Francesca le invitò ad unirsi in una confraternita consacrata alla Madonna, restando ognuna nella propria casa, impegnandosi a vivere le virtù monastiche e di donarsi ai poveri. Il 15 agosto 1425 festa dell’Assunta, davanti all’altare della Vergine, le undici donne si costituirono in associazione con il nome di “Oblate Olivetane di Maria”, in omaggio alla chiesa dei padri Benedettini Olivetani che frequentavano, pronunziando una formula di consacrazione che le aggregava all’Ordine Benedettino. Nel marzo del 1433 Francesca poté riunire le Oblate sotto un unico tetto a Tor de’ Specchi, composto da una camera ed un grande camerone, vicino alla chiesa parrocchiale di Sant’Andrea dei Funari; e il 21 luglio dello stesso 1433, papa Eugenio IV eresse la comunità in Congregazione, con il titolo di “Oblate della Santissima Vergine”, in seguito poi dette “Oblate di Santa Francesca Romana”, la cui unica Casa secondo la Regola, era ed è quella romana.


Religiosa lei stessa, la santa morte

Si recava ogni giorno nel monastero da lei fondato, ma continuò ad abitare nel Palazzo Ponziani, per accudire il marito malato; dopo la morte del marito, con il quale visse in armonia per 40 anni, il 21 marzo 1436 lasciò la sua casa, affidandone l’amministrazione al figlio Battista e a sua moglie Mabilia de’ Papazzurri, e si unì alle compagne a Tor de’ Specchi dove fu eletta superiora. Trascorse gli ultimi quattro nel convento, dedicandosi soprattutto a tre compiti: formare le sue figlie secondo le illuminazioni che Dio le donava; sostenerle con l’esempio nelle opere di misericordia alle quali erano chiamate; pregare per la fine dello scisma nella Chiesa. Prese il secondo nome di Romana e così fu sempre chiamata dal popolo e dalla storia, perché Francesca fu tra i grandi che seppero riunire in sé, la gloria e la vitalità di Roma; il popolo romano la considerò sempre una di loro nonostante la nobiltà, e familiarmente la chiamava “Franceschella” o “Ceccolella”. Francesca Romana insegnò alle sue suore la preparazione di uno speciale unguento, che aveva usato e usava per sanare malati e feriti; unguento che viene ancora oggi preparato nello stesso recipiente adoperato da lei più di cinque secoli fa. Ma la ‘santa di Roma’ non morì nel suo monastero, ma nel palazzo Ponziani, perché da pochi giorni si era spostata lì per assistere il figlio Battista gravemente ammalato; dopo poco tempo il figlio guarì ma lei ormai sfinita, morì il 9 marzo 1440 nel palazzo di Trastevere. Le sue spoglie mortali vennero esposte per tre giorni nella chiesa di Santa Maria Nova, una cronaca dell’epoca riferisce la partecipazione e la devozione di tutta la città; fu sepolta sotto l’altare maggiore della chiesa che avrebbe poi preso il suo nome. Da subito ci fu un afflusso di fedeli, tale che la ricorrenza del giorno della sua morte, con decreto del Senato del 1494, fu considerato giorno festivo. Fu proclamata santa il 29 maggio 1608 da papa Paolo V; e papa Urbano VIII volle nella chiesa di Santa Francesca Romana, un tempietto con quattro colonne di diaspro, con una statua in bronzo dorato che la raffigura in compagnia dell’Angelo Custode, che l’aveva assistita tutta la vita. Santa Francesca Romana è considerata compatrona di Roma, viene invocata come protettrice dalle pestilenze e per la liberazione delle anime dal Purgatorio e dal 1951 degli automobilisti. La sua festa liturgica è il 9 marzo.




ic sm inpIl 2 febbraio la Chiesa celebra la presentazione di Gesù al tempio. Tra le memorie romane questa festività liturgica si unisce al patrocinio che la città di Roma riserva a Santa Maria in Portico. Infatti, le antiche cronache, ricordano che un terribile sciame sismico sconvolse l’Urbe nel Gennaio del 1703. Questo grave pericolo vide il popolo romano supplicante davanti all’icona della Madre di Dio, invocata da secoli quale particolare protettrice della Città con il titolo di Romanae Portus Securitatis. La memoria di antichi benefici già concessi  per intercessione di Maria, come la liberazione dalla  peste nel 1656, durante la quale Roma rimase miracolosamente illesa, favorirono il nuovo ricorso alla Vergine. Già nel 1662  era  stato edificato per  volere del Popolo e del papa Alessandro VII, l’attuale santuario opera di C. Rainaldi, dove vi è conservata la preziosa icona venerata nell’antico rione di Campitelli fin dal VI secolo. Ma veniamo ai fatti di trecento anni fa. La mattina del 2 febbraio1703, il Senato Romano volle ringraziare la Vergine per lo scampato pericolo dal violentissimo terremoto che coinvolse Roma e gran parte degli stati pontifici. Si stabilì con voto solenne che la Città  avrebbe digiunato per cento anni ogni 1 febbraio  vigilia della festa della Presentazione al tempio e della Purificazione di Maria. Il voto venne immediatamente ratificato dal Papa Clemente XI che, recatosi nel santuario di Campitelli intonò il Te Deum di ringraziamento.  L’impegno fu rinnovato e confermato in modo perpetuo dal papa Pio VII nel 1802. Una lapide posta al Campidoglio ricorda tutt’ora il singolare evento. Lo stesso Senato Romano stabilì che ogni sabato per un anno intero, sarebbe intervenuto nel santuario al canto solenne delle litanie. La Comunità di Campitelli erede di queste antiche memorie, rinnova ogni anno durante la luminosa liturgia della Presentazione al Tempio il grazie al Signore, unendosi alla voce e alla devozione di tanti fedeli che hanno in questo luogo onorato la Madre di Dio.  



La prima Narratione scritta da San Giovanni Leonardi


I lineamenti storici dell’antico culto riservato alla Madre di Dio nel cuore della città di Roma, arricchiti nei secoli dal genere letterario della Legenda furono raccolte nella prima Narratione pubblicata dal Leonardi nel 1605 (Giovanni Leonardi, Narrazione della miracolosa immagine di Santa Maria in Portico, a cura del Centro Studi OMD, Emmegrafica, Velletri 2005).

La Narrazione si apre con  il preambolo storico e i personaggi protagonisti del racconto: Il pontefice Giovanni I, l’imperatore Giustino, nel tempo in cui Teodorico Re dei Goti di fede Ariana opprimeva l’Italia. Si fa subito riferimento al luogo degli eventi: Roma e alla nobile «Signora per nome Galla», figlia del princeps senatus Aurelio Memmio Simmaco, consigliere di re Teodorico, che lo fece assassinare nel 525 per infondati sospetti di tradimento. Galla, ricca, giovane e molto religiosa, dopo la morte del marito decise di esprimere la carità di Cristo con azioni concrete e quotidiane, trasformando il suo palazzo in ospizio per i poveri e i pellegrini: «Ora per molte che fossero le opere pie, in che ella con santo zelo si esercitava, fu però singolarissima nel sovvenire con le proprie facoltà ai poveri bisognosi: onde per la gran riverenza e affezione che al Signore e alla Beatissima Vergine aveva, pigliò per uso di dar pranzo ogni giorno nel suo Palazzo a dodici poveri. E perché oltre al frequentare con gran diligenza questa santa opera, attese anche a servire con purità d’anima al Signore. Custodendo senza macchia di peccato nell’anima sua quell’immagine che la divina Maestà le aveva impressa, meritò aver per mano degli Angeli l’immagine dell’istesso Signore e della Beatissima Madre sua. Sopra la credenza apparve con grande splendore nell’aria la veneranda Immagine della Beatissima Vergine con il suo diletto Figliolo nelle braccia […]». Il Coppiere, una sorta di maggiordomo, avvertì immediatamente Galla che si levò da tavola e si recò al detto luogo nel quale vide la luce, ma non scorse nessuna immagine. Il segno doveva essere interpretato dall’autorità della Chiesa. Galla si recò nel Palazzo del Laterano e supplicò il Pontefice Giovanni I  che in processione con il clero e il popolo romano, si recò presso il luogo del prodigio. Il Pontefice vi entrò pieno di stupore e vista la luce vi rimase in profonda orazione : «O Santissima Madre di Dio, degnatemi di concedermi tanta grazia, ch’io possa nelle mie mani ricevere la vostra immagine, e ciò detto i Serafini ponendola a basso, nelle sue mani riverentemente la collocarono, ed egli con molte lagrime di devozione e allegrezza ricevendola, voltatosi al Popolo l’alzò a vista di tutti» (Cf. Narrazione 19ss). Due prodigi confermarono l’apparizione quasi ha dare l’approvazione dell’evento: le campane delle Chiese di Roma suonarono a festa toccate da mani angeliche  e la Città venne immediatamente liberata dal morbo della peste: è il 17 luglio del 524. Galla edifica una Chiesa sul luogo dell’apparizione dedicandola al Salvatore e alla Santissima Madre: «la quale fino al giorno presente si chiama volgarmente Santa Maria in Portico».

Il Leonardi prosegue il racconto segnalando il legame che i pontefici romani hanno avuto con l’immagine e il luogo nel quale esse è custodita. Papa Gregorio Magno (590-604) invocò il suo patrocinio nella peste del 599. Alessandro II (1061-1073) eresse una Confraternita grazie ai tanti prodigi avvenuti, Gregorio VII (1073-1085) risollevò le sorti del fatiscente santuario, riconsacrando la chiesa e collocando l'icona mariana in un tempietto-ciborio posto sopra l'altare maggiore, ponendovi in mosaico una serie di iscrizioni che facevano riferimento alla nobile Galla, ai poveri e alla prodigiosa apparizione. Celestino III (1191-1198) fondò l’ospedale di Santa Maria in Portico. Callisto III (1455-1458) invocò la Vergine per la peste. Paolo II (1464-1471) che per devozione personale asportò di notte l’immagine la vide ritornare miracolosamente nello stesso luogo. Leone X (1513-1521) indisse una processione per scongiurare l’invasione turca. Adriano VI (1522-1523) ricorse alla Vergine per salvare Roma dalla Peste. Paolo III (1534-1539) la invocò per proteggere Roma e l’Italia dalle invasioni turche. Il Leonardi prosegue la Narrazione descrivendo «il sacro luogo ove al presente si riposa» e le tracce delle memorie antiche che «scuoprono tutto il successo dell’apparizione della S. Immagine». Il racconto si conclude con una nota liturgica che cioè il 17 luglio si celebra la festa dell’apparizione, della Dedicazione della Chiesa di Santa Maria in Portico e l’orazione per l’ostensione dell’icona. Infine il ringraziamento a Clemente VIII (1592-1605) per aver unito la Chiesa alla Congregazione del Leonardi (1601) e in appendice alcune note riguardanti la vita di Santa Galla tratte dal Libro IV dei dialoghi di San Gregorio Magno.

 
Le fonti a cui si ispirò il Leonardi

Possiamo dire che le fonti ispiratrici della Narrazione scritta dal Leonardi sono da individuare in quella documentale, archeologica e iconografica. Innanzitutto, il Leonardi, fa riferimento alla  «Historia e gli antichi manoscritti esposti in pubblico». Queste pergamene sono state da lui consultate in quanto affisse alle porte dell’antico santuario mariano. Sulla loro importanza il Leonardi annota: «Più volte sono stati pregati i nostri Padri […] di far stampare l’ ‘Historia della miracolosa immagine della Beatissima Vergine la quale nella stessa Chiesa di S. Maria in Portico onorevolmente si conserva […] se bene  doveria bastare l’antica e pubblica tradizione di quella […] e degli antichi manoscritti di detta Chiesa esposti in pubblico in essa […] (Narrazione, 17)

L’altra fonte possiamo individuarla nelle testimonianze archeologiche che portano impressi i caratteri dell’antico culto a Santa Maria in Portico celebrata con il titolo di Madre di Dio. Si tratta dell’altare consacrato dal papa Gregorio VII (1073-1085) nel quale si fa riferimento al dogma efesino: «Ad honorem D(omi)ni n(ost)ri  IHV (Iesu) XPI (Christi) | et beate Marie semper Vir|ginis genitricis ei(us) d(omi)ne n(ost)re |  […]». Infine il ciborio che custodiva l’altare e l’icona di santa Maria in Portico era fregiato dal distico:  «Hic est illa piae genitricis imago Mariae |Quae  discumbenti  Gallae  patuit metuenti». Del Ciborio, testimoniato dal Leonardi e dai primi Padri non rimane traccia, se non nelle fonti scritte. È ipotizzabile che i distici gregoriani scorressero alla base del fastigio. A lato erano poste le sigle  greche MP-ΘY e sulla sommità angolare in un sacello era custodita la veneranda icona di Santa Maria in Portico. Il titolo dogmatica Theotokos-Dei Genetrix definito durante il Concilio  di Efeso (431), divenne formula ispiratrice della eucologia liturgica e della stessa devozione popolare. Esso era nota prima dell’assise conciliare, come testimonia l’antifona Sub tuum paesidium datata al III secolo. A partire da Efeso in tutte le liturgie di oriente e d’occidente  si ebbe una vera e propria esplosione del culto mariano. Basti pensare al popolare inno Akatistos V-VI secolo e alle festività mariane. La formulazione dogmatica efesina diventò normativa per lo sviluppo della venerazione alla Madre di Dio. In primo luogo, il suo ricordo è legato al memoriale di Cristo e al mistero della sua incarnazione. In secondo luogo, il culto mariano trova spazio nei momenti centrali della liturgia quali la preghiera eucaristica e la professione di fede battesimale. Su questa linea tradizionale il luogo dove si custodisce l’icona di Santa Maria in Portico, è lo stesso spazio dove si celebra l’Eucaristia il memoriale del Signore, quasi a voler consegnare in questa immagine quanto espresso nelle anafore eucaristiche che riservano un posto privilegiato alla «Tutta santa Madre di Dio».

Infine la terza fonte che ispirò il Leonardi è senz’altro quella iconografica. Non si può certo attribuire all’icona attualmente venerata nel santuario mariano di Piazza  Campitelli la datazione del VI secolo, tuttavia la rielaborazione tardo medievale applicherebbe ad essa alcuni canoni che rimanderebbero a copie precedenti. Nel XII secolo i racconti di visioni e miracoli si  fanno sempre più frequenti e vengono raccolti, ordinati e diffusi come opere edificanti. La credenza nelle apparizioni di Maria si diffonde, nel periodo compreso fra la fine dell’antichità cristiana e l’inizio dell’Alto Medioevo, tanto nel mondo greco che in quello latino. Vedere Maria per vedere Dio «come in uno specchio» (1Cor 13,12) questa è l’immagine biblica che sta alla base delle apparizioni della Vergine. Tale credenza si propaga sotto forma di testimonianze letterarie, tanto che, fra il V e l’IX secolo, sono sempre più numerosi i racconti di visioni che circolano all’interno di una letteratura concepita per l’edificazione. Tali Legende vengono raccontate con un linguaggio accessibile a tutti, traducendo in forme semplici la concezione che gli uomini del Medioevo hanno delle corrispondenze fra il mondo celeste e quello terreno. Ora, l’iconografia di Santa Maria in Portico conferma quanto è riferito dall’antica Historia: «[...]Admiranda propterea est nobis hec Sacrosancta Imago, quam nec signavit, nec coloravit manus pictoris, nec sculptoris errantis,  sed formavit et benedixit omnipotentia Conditoris, qui sicut ad ilicem Mambre cum tribus personis, ut Abraham adoraretur apparuit; et in cammino ignis ardentis cum tribus pueris similis filio hominis quartus assistens declaravit in gloriose et sanctissime Galle palatio se orandum quando voluit, et quomodo voluit imaginem demonstravit. Digitus quoque Dei, qui in tabulis lapideis, Moyse intra nubem orante, ad recte vivendum Israelitis legem sculpsit […]» (Cf. D. Carbonaro L’antica Oratio per l’ostensione dell’immagine di Santa Maria in Portico, Edizioni Monfortane, Roma 2001, 76-77). Gli studiosi sostengono che l’immagine attualmente venerata nel santuario di Campitelli, fu conservata  nell’antica  chiesa di S. Maria in Portico fin dal secolo XII. Tuttavia,  i canoni iconografici tramandati, ci consegnano una rappresentazione molto più antica. Le lontane forme protoromaniche: colonnine in stile ionico, le teste degli Apostoli Pietro e Paolo - secondo il tipo dei vetri cimiteriali - le forme greco-siriache come l’inquadratura a rose e gli alberi ornamentali, fanno supporre due  momenti compositivi.  Nel  VI secolo, si stabilisce  la tipologia iconografica legata agli eventi della miracolosa visione di santa Galla, mentre l’icona attuale per la gamma cromatica degli smalti e la naturalezza dell’esecuzione, fu realizzata tra l’XI e il XIII secolo. La sua sacralità e il concetto di «immagine acheropita» (non dipinta da mani d’uomo) portarono a giustificare attraverso la legenda popolare la sua origine divina e la sua incorruttibilità. Il testo che il Leonardi aveva potuto consultare affisso alla porta del santuario e l’antica oratio pronunciata durante l’ostensione dell’icona attualizzavano sul  luogo dell’apparizione, il simbolo di quella luce manifestatasi secoli prima come afferma l’antica Historia:«[…] ut ibi santissima veneraretur Imago, ubi signo lucis per manus sanctorum angelorum allata, Christus sedem  elegerat […]. L’icona di Santa Maria in Portico fu considerata un vero e proprio «palladio» dell’Urbe, invocata come «protettrice e liberatrice» della Città di Roma. L’ immagine di Santa Maria in Portico fu portata diverse volte in processione dai Pontefici nella letania con altre insigni icone romane nei momenti di maggiore calamità: l’Acheropita della Scala Santa e la Salus Populi Romani. Come ebbe ad affermare il Leonardi nella Narrazione l’icona di  Santa Maria in Portico celebra «l’immagine dell’istesso Signore e della Beatissima Madre sua» ed il titolo con il quale è ricordata sul luogo dell’apparizione: Madre di Dio «MP ΘY»,  richiama il mistero dell’ Incarnazione e della divina maternità di Maria. Ella è prima testimone di Dio fatto uomo che la chiesa professa, la liturgia celebra e l’iconografia annuncia nella trama simbolica. Venerando Santa Maria in Portico la tradizione popolare romana ha sempre mantenuto questi elementi spirituali come motivanti la comprensione della sua fede e del mistero celebrato.
Mercoledì, 07 Settembre 2011 12:03

Cristo Gesù avanti agli occhi della nostra mente





sgl 15Con queste parole in una lettera del 1603 S. Giovanni Leonardi scriveva ai suoi confratelli: "Havendo davanti agli occhi della mente nostra solo l'onore, il servitio, la gloria di Christo Gesù crocifisso". Un progetto suggestivo che illumina la statura e la santità di Giovanni Leonardi.


In questa irriducibile esperienza spirituale è possibile intravedere "la forza rinnovatrice della Pasqua" che riabilita la creazione nella bellezza primordiale e ristabilisce l'uomo nella definitiva relazione con Dio. Un processo di polarizzazione verso "Cristo e questi crocifisso" (1Cor 2,2).

A tale evento è riconducibile ogni annuncio "quasi per un suo naturale e irreversibile approdo a Cristo contemplato soprattutto nel Santissimo Sacramento dell'altare" (Cf. V. Pascucci).

Il Leonardi come i santi della riforma, ebbe particolare attenzione verso l'Eucaristia. Occorre ricordare a tal proposito, che la stessa pratica della comunione frequente era valutata in campo cattolico con meraviglia e sospetto. Ma il santo memore della forza rinnovatrice che scaturisce dal memoriale cristiano per eccellenza, ordinava, esortava e guidava i suoi a nutrirsi con frequenza di così grande sacramento.

Uno spaccato del tempo ci viene offerto dal P. Giuseppe Bonafede primo biografo del Leonardi: "Il Confessore conosciuto per prova 1'ardente cuore di Giovanni, li concesse la Santissima Comunione due e tre volte la settimana, cosa in quei tempi rara, e di gran spirito, poiché quelli che spesso si comunicavano di una volta all'anno, erano da tutti derisi et ingiuriati, e bisognava che segretamente lo facessero, e non in tutte le Chiese; perché in molte gli era negato, tanto erano corrotti i tempi." (Bonafede, Libro 1 cap. VI).

Il santo stesso concedeva la comunione segretamente a due giovani che poi furono i primi compagni di fondazione: il Venerabile Giovanbattista Cioni e fratel Giorgio Arrighini invitandoli a soffermarsi sovente nella contemplazione della "passione di Cristo Signore, di cui il santissimo Sacramento è rappresentazione e memoria".

Nei "Sermoni", il Leonardi, commentando la parabola delle nozze regali (Mt 22,1), propone il significato nuziale del memoriale eucaristico: "Tu Signore invitandoci per la parola del tuo vangelo alla mensa, altro non ci indichi che, le tue nozze, in questo mondo per grazia, c'invitano al convito del tuo Santo Corpo. Tu conduci la sposa (la Chiesa) nella tua casa e nutri la sua anima nella cena eterna della tua sapienza".

Sono "tre li sposaliti" che il Cristo compie nei confronti dell'umanità: "Quello celebrato nel grembo della santa Vergine (Incarnazione); quello che si celebra nel tempo santo della Chiesa (Eucaristia); quello ancora non visibile, ma velato nello Spirito Santo, per il quale possiamo vedere Dio faccia a faccia (Parusia)" (S. Giovanni Leonardi, Sermoni, C. 468).

Con grande passione e amore per la Chiesa, testimone dei segni della grazia, il "santo speziale" di Lucca ci addita nell'eucaristia il "farmaco dell'immortalità", per il quale: "siamo confortati, nutriti, uniti, trasformati in Dio e partecipi della natura divina (2Pt 1,4)".
Venerdì, 15 Luglio 2011 08:03

Maria libro di Dio

lsm159Il contenuto del messaggio angelico è un vero e proprio «evangelo», una lieta notizia. La Parola che irrompe nel silenzio e accende la gioia, rivela la straordinaria benevolenza che Dio ha verso Maria. Le icone d’oriente e di occidente ripropongono la scena evangelica fondamentale: l’Angelo entra nella casa di Maria la quale è intenta nell’ascolto della Parola, libro aperto delle Scritture su di un leggio. Un cartiglio  tra l’Angelo e Maria  propone le parole del saluto. Si tratta di una sintesi meravigliosa fatta di parola-immagine che esprime con l’arte il dimorare visibile del Verbo. D’altro canto Maria è spesso rappresentata nella quotidianità del lavoro domestico. Intenta alla filatura, come la donna saggia descritta dalla tradizione sapienziale d’Israele (Pr 31,19). La Vergine di Nazareth,  in definitiva, è colei che tesse il nuovo dialogo con Dio e concepisce la Parola. Con un saluto Dio «entra», (non appare) nella vita di Maria e nella nostra. Un saluto carico di parole antiche (Lv 23,20; Gdc 6,12; Is 29,19; Gl 2,21; Sof 3,14; Zc 2,14; 9,9)   ma nuove, perché Dio che parla  fa nuova ogni cosa. La gioia e la presenza del Signore sono i termini del saluto ed annunziano in modo inconfondibile l’avvento del Messia. Lo sposo incontra la sua sposa è gioisce nel vederla (Is 62,5), la chiama con un nome nuovo  non classificabile fra le dinastie umane. Ella «è pura grazia», oggetto della benevolenza dell’Altissimo. Ora, la gratuità e la generosità di Dio si sono realizzate in Cristo (Lc 2,52) che Maria preannuncia e riceve. La singolare presenza di Dio: «il Signore è con te», investe Maria di una missione per la quale è segno di salvezza per il suo popolo «figlia di Sion». E non solo, per la novità inaugurata, Maria è il «segno» atteso che compie l’amore gratuito di Dio per tutti i popoli ed è primizia della umanità nuova. Le parole dell’Angelo preparano la grande rivelazione: «non temere». Non si tratta di avere paura di Dio, ma di accogliere la piccolezza e il limite di fronte alla grandezza dell’Onnipotente. La Bibbia riporta questa espressione ogni qualvolta la presenza del Signore fa’ breccia in mezzo agli uomini ( Gen 15,1;  Gdc 6,23; Is 41,13; Ger 30,10; Dn 10,12; Sof 3,16; Zc 9,9; Mt 1,20; Mc 6,50; Lc 1,13;  5,10; Gv 12,15; Ap 1,17). La grande rivelazione è il cuore dell’evangelo a Maria. Gli eventi del «concepire»,  «partorire» e  «chiamare per nome», legano insieme funzioni materne e paterne che Maria compie, perché  «ha trovato grazia presso Dio»: (Gen 6,8; Es 33,16; Pro 12,2). L’inaccessibile, l’ innominabile,  si assoggetta alle leggi della  natura umana e si lascia chiamare per nome (Gesù: «Dio salva»);  ecco perché la grandezza del nascituro e le qualifiche che riceve dall’Angelo, richiamano le relazione salvifiche e le promesse che Dio ha stabilito con il suo popolo. Quelle parole accendono la memoria di Maria che  comprende di essere scelta quale madre del Messia atteso, compimento delle antiche profezie (2 Sam 7,14). Il riferimento al trono di Davide il re-pastore, permette di chiarire il timore e la grandezza che albergano nel cuore di Maria. Altezza (Lc 1,35) e  piccolezza (Lc 1,48) s’incontrano, Dio si fa uomo e l’uomo  diventa Dio.
Venerdì, 08 Luglio 2011 08:02

Dio paziente

lsm158Il cuore dell’uomo: una zolla arida dissetata dalla Parola, irrigata dalla grazia che proviene dall’alto, coronata dall’abbondanza dei frutti. Chi è il discepolo? Colui che è capace di dare la vita. Come la zolla di terreno che si apre, accoglie e genera  in sé la vita. Ma senza il seminatore che esce a seminare, la zolla rimane zolla e il seme rimane tale e non può porta frutto. Grazie Signore, perché ancora oggi esci per seminare la tua parola, annunzio di frutti maturi e di buon pane che sfama la nostra povertà. Di chi racconta la parabola? Non è certo di un contadino inesperto, che sparge il seme per caso. Il vangelo odierno racconta di una fiducia che è posta nel piccolo seme, germoglio di vita e nella libertà del terreno preparato  per accogliere. Quante volte l’indisposizione del discepolo, ha fermato il miracolo di Dio. L’ostinazione del cuore umano non ha permesso che l’altro cresca e porti frutto. Signore, riconosciamo nella tua tenacia a voler seminare anche dove non c’è possibilità,  l’inesauribile fedeltà del tuo amore per noi. Riconosciamo  che la forza non è in noi, ma nella semente che proviene da te, dalla tua mano sicura. Il contadino è ricordato solo all’inizio della parabola, la sua iniziativa da origine al racconto, poi scompare e al centro della scena sono i quattro tipi di terreno dove cade il seme: la strada, il terreno sassoso, le spine, la terra buona. Con probabilità il racconto parabolico allude all’opera evangelizzatrice della Chiesa, la quale com’è accaduto a Gesù, non si scoraggia nel raccogliere disinteresse, rifiuto e oppressione. Al triplice infruttuoso tentativo, corrisponde il triplice sovrabbondante rendimento.  L’opera di Gesù porta frutto ieri e oggi dove il terreno è favorevole e dove orecchi, occhi e cuore sono disposti ad accogliere il dono della Parola. Che tipo di terreno siamo? La Parola ascoltata è soffocata dagli affanni e dalle contraddizioni della vita? La nostra testimonianza  si ripiega su di noi o lascia spazio alla potenza di Dio che opera in chi lo accoglie? Perché le  illusioni del mondo e l’ignoranza della Scrittura non scuotono il torpore e l’indifferenza umana? Gesù parla in parabole perché la logica del Regno è difficile da accettare. E’ una questione di fiducia e di risposta fedele a chi c’interpella. La terra, il seme, il frutto, ci fanno solidali con la creazione che geme e soffre. L’uomo e il creato gemono e attendono, per la novità che proviene da Dio. La Bibbia e la creazione sono i due libri scritti da Dio, ecco perché spesso troviamo nelle Scritture riferimenti alla natura e agli elementi naturali, vie privilegiate che accolgono l’uomo nella nuova creazione inaugurata con la resurrezione di  Gesù.
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