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Archivio luce sul mistero

Archivio luce sul mistero (242)

Sabato, 23 Giugno 2012 07:00

Protagonisti dei tempi nuovi

200L’accorato annuncio che Isaia mette sulla bocca di questo anonimo servo dell’Altissimo chiama in causa un futuro di pienezza nel quale Giovanni il Battezzatore e Gesù il Nazareno si trovano a condividere la luminosa realizzazione. La liturgia, proponendolo in questa posizione di ascolto, costruisce abilmente i termini di una ambivalenza. Sono parole che dovrebbero valere per l’annuncio del Cristo. Ma risuonano in questo caso a definire gli sfumati contorni del ritratto del Precursore. Il sentiero su cui scorre la speranza con cui la fede dell’alleanza va incontro all’imminente avvento del servo del Signore, mette sulla stessa linea di continuità figure umane capaci di stare sotto la stessa luce profetica. Questo servo senza nome, chiamato fin dal grembo della madre, dalla lingua affilata come una spada, efficace come una freccia appuntita, ha tutte le caratteristiche richieste dall’attesa del Messia, ma possiede anche tutta l’energia e tutta l’autorevolezza che, a posteriori, si possono attribuire a questo nuovo Elia di nome Giovanni, chiamato dalla storia a introdurre la manifestazione del Figlio.

La sua dignità di cerniera che collega e, nello stesso tempo, separa l’economia dell’Antico Testamento da quella del Nuovo, lo assimila il più possibile alla vicenda umana del suo straordinario e definitivo successore. Anche la nascita di Giovanni precorre in qualche maniera quella di Gesù. Intanto, come nel caso del figlio di Maria rinnova la meravigliosa attitudine di un Dio abituato a confermare i segni tangibili delle sue migliori promesse attraverso la grazia di nascite impossibili, mediante il soccorso premuroso alla fragilità umana, alla sua impotenza a creare. Giovanni è uno dei tanti figli entrati in case senza speranza. In questi casi quello che conta non è l’idea di una sterilità biologica vinta dal prodigio soprannaturale. Quello che conta sta nell’invito a vedere ogni nascita come il prolungarsi del primordiale impulso della creazione. Nella catena delle generazioni il Dio dell’alleanza plasma la storia. Non gli servono fulmini, pestilenze, catastrofi. Ma solo la fede elementare nella quale ogni madre e ogni padre mettano al mondo un figlio sapendo che la vita nuova viene comunque da Dio.

Ma le storie dei due protagonisti dei tempi  nuovi sono parallele nel loro insieme. Luca gioca con abilità a preparare anche per Giovanni un’annunciazione, una gestazione consumata fra i misteri, una nascita costellata di prodigi, un’infanzia assistita dallo Spirito, insomma una biografia spirituale necessaria a portarlo più da vicino possibile al cospetto della dignità del Figlio. Davvero simili in tutto. Eppure differenti nell’essenziale. Giovanni è come Mosè. Vede la terra promessa ma non entra. Giovanni precorre il Nuovo Testamento ma rimane una figura dell’antica Legge. Ma la sua nascita è già il punto di non ritorno di un disegno della salvezza per il quale Dio non mostra pentimenti. L’Agnello è già da qualche parte. Ma anche  lo sguardo capace di riconoscerlo. (Giulio Zanchi)

 
Sabato, 16 Giugno 2012 16:21

La misura di Dio

199L’immaginazione umana, intenta a individuare segni della presenza di Dio nella storia, alza normalmente lo sguardo in cerca di qualcosa che sopravanzi l’ordinaria statura delle cose umane. Il divino - se agisce - deve, per definizione, produrre segni di manifestazione che siano inequivocabili, portentosi, paranormali, dotati di quella efficacia che non aspetta tempo a far valere le proprie regole, a imporre la propria logica, ad applicare quando è il caso - il processo della propria resa dei conti. Quando Dio arriva - pensa l'uomo, specie se religioso -, ci si accorge per forza. Non è tipo da passare inosservato. La sua non è presenza che ama dissimularsi. Entra, al contrario, nella mischia segnando perentoriamente il proprio territorio. Questa idea di una presenza divina provvista di sicura e spietata efficienza cosmica assiste da sempre le ambizioni di un certo zelo religioso. L'antica Scrittura, in effetti, per esempio at­traverso la visionarietà escatologica di Ezechiele, attribuisce sovente connotati di grandezza alle intenzioni con cui Dio annuncia il suo imminente ingresso nella storia degli umani. Esse si incarneranno certamente in una presenza dotata di inestirpabile stabilità, di definitiva solidità, di sicura ospitalità. Dio entrerà nella storia umana con la solennità di un cedro secolare, con la maestosità di un albero senza tempo, con una possenza senza confronti. Ma già in questa dichiarazione di grandezza e di sublimità erano contenuti i principi di una logica anomala capace di lasciare interdetta qualsiasi ragione del buon senso umano. Già il Dio degli eserciti, quello testimoniato da Ezechiele, faceva dipendere il propagarsi della propria potenza di crescita da un punto di germinazione minimo, elementare, invisibile. Al Dio di Ezechiele basta un rametto di cedro per mettere in moto il metabolismo del suo radicamento nella storia e, una volta impiantate le sue radici, ha la forza di ribaltare le più consolidate gerarchie delle potenze vitali del mondo. Il piccolo lo farà diventare grande. A chi si crede immenso rivelerà la sua piccolezza. L'assimilazione con cui il Figlio parla del Regno come di qualcosa di invisibile rivela definitivamente la felpata discrezione con cui il Dio dell'alleanza entra nello spazio della storia umana. Quando arriva, normalmente si confonde con la terra della vita umana. Agisce facendone lievitare la quotidiana nascosta bellezza. Essa resta invisibile allo sguardo di quelli che cercano segni di manifestazione "religiosa". Si manifesta invece nella sua smisurata potenza di ramificazione agli occhi di chi la sa cercare negli innumerevoli atti con cui gli umani preservano nella carità la grazia della fraternità reciproca. Allora si scopre che Dio è continuamente in azione. Persino all'insaputa di quelli che sono chiamati a esserne testimoni. A loro toccherebbe semplicemente avere occhi per riconoscere dove essa già scava sentieri di salvezza nella fragile vita degli umani. Magari ringraziare Dio con stupefatta meraviglia. (Giuliano Zanchi)

 
Sabato, 09 Giugno 2012 17:08

Segno dell’Alleanza

198Nella faticosa alleanza fra Dio e gli umani Gesù ha messo in mezzo il suo corpo. Per corpo si deve intendere l'intero di una vita. Identità, carne, libertà, affezioni. Tutto quanto un uomo può essere. Gesù ha sacrificato tutto se stesso per rimettere in piedi l'amicizia dell’uomo con Dio. Ha così restituito splendore inequivocabile all’esperienza del sacrificio mostrandola come la legge nascosta di ogni affezione destinata a durare. Gli umani stessi hanno imparato a specchiarsi nella sua logica. L’esistenza di tutti, difatti, trabocca di esperienze nelle quali qualcosa ha dovuto morire in qualcuno perché qualcun altro potesse vivere. La luce di questo principio irradiata nella sublimità del gesto di Gesù ha illuminato anche quei segmenti di vita in cui agli uomini e alle donne di questa terra capita di riuscire a corrispondervi. Facciamo la volontà di Dio molto più spesso di quanto noi stessi non crediamo.

La Scrittura ci aiuta a capire l’estremo abisso verso cui Gesù trascina questo sacrosanto prin­cipio di una dedizione pronta a giocarsi in tutto. Lo fa anzitutto portandoci al passato. Ri­cordandoci come l’alleanza mosaica sigilla la propria fedeltà all’Altissimo. Essa proietta sull’offerta sacrificale tutta la violenza connessa ad un’alleanza il cui vincolo non può essere infranto senza serie conseguenze. Succeda come a quei giovenchi a chiunque spezzi il patto sti­pulato di fronte a Dio. L'ombra del dio arcaico lambisce ancora questo solenne rituale di al­leanza in cui la presenza della violenza è un monito contro la trasgressione, in cui qualcosa deve andare perduto, in cui l’amicizia col divino si manifesta richiedendo la controparte delle cose migliori. In questa alleanza esiste ancora qualcosa di inquietante, un sentimento di profonda soggezione, una violenza a cui l’uomo non resta che sottomettersi.

La lettera scritta per gli ebrei ci spiega che con Gesù la violenza contenuta nell’alleanza viene disinnescata completamente. Il Figlio la prende tutta su di sé. Niente più sangue di vitelli. Semmai solo il proprio. Ha preso in carico la responsabilità di un’amicizia da ricostruire da capo mostrando che, se ci sono dei sacrifici da fare per mantenere fede all’alleanza, Dio non chiede di sacrificare qualcosa di prezioso per l’uomo, ma mette a repentaglio la vita del suo Figlio. Dio sacrifica tutto pur di averci per amici. Per questo il corpo di Gesù è segno della nuova alleanza. Con il gesto con cui prima di morire Gesù spezza il pane, cerca di spiegare il criterio della sua esistenza. Quel pane che si rompe è la sua vita dedicata completamente a riportarci in amicizia con Dio. Essa ci appare quanto mai a portata di mano perché resa ai nostri occhi affidabile dalla natura del Dio di cui il Figlio si rende manifestazione. Non abbiamo più davanti la figura torva dell’idolo che chiede per se stesso. Ma l’icona di una paternità che si lascia mangiare viva se questo serve alle possibilità di vita dei figli. Di questo è segno il corpo di Cristo. Di quell'amore che non genera se non si lascia consumare. (Giuliano Zanchi)

 
Sabato, 02 Giugno 2012 14:19

Con noi fino all’ultimo

197Nell'avventurosa epopea del Deuteronomio, tempo della seconda legge, di una legge impugnata con nuovo slancio e rinnovata consapevolezza sulle rive del fiume Giordano, si capisce questa animosa rinfrescata di memoria che il grande Mosè impone all'ascolto della sua gente. Si interroghi la storia e si veda se qualcuno può vantare un'esperienza così sba­lorditiva della presenza del divino. Israele sta buttando alle ortiche una storia che non ha precedenti. È da sempre che abbiamo a che fare con un dio strano, che non corrisponde a nessuna monolitica immagine di autosufficienza, ma che accetta di abbandonarla per attraversare la storia degli umani con disinvolto senso della dedizione. Il nostro è un Dio che ama uscire da sé.

Nella storia umana del Figlio ha trasformato questa sua predisposizione nel piano definitivo di una salvezza nella quale avvolgere ogni essere umano di questa terra. Dal primo all’ultimo. L'apparizione del Figlio ha significato il rinnovato accendersi dell'antica meraviglia per trovarsi di fronte a un Dio imprevedibile. Il nostro Dio ha l'istinto della comunione scritto dentro di sé. La sua propensione ad essere perennemente in moto, a generare la relazione, a evadere il pericolo della fusione narcisistica, la sua attitudine a generare mondi e ricapitolare storie, risiede già nei legami di cui la vita divina è costantemente alimentata. Dalle labbra di Gesù la testimonianza evangelica ne ha tratto pallide immagini antropomorfe e fragili nomi terreni: Padre Figlio Spirito. Questo dinamismo interiore della vita divina Gesù ci ha insegnato a guardarlo come una sorta di impulso primordiale ed eterno di tutto quanto nella vita si esprime secondo la forma del desiderio. Il nostro Dio, che essendo Padre ha da sempre un Figlio, non ha interesse, come nel sovrano dispotismo di quel sacro che ci è ancora tanto suadente, ad avere ai suoi piedi uno stuolo di intorpiditi e tremuli schiavetti, ma fa di tutto per prenderci per figli. Il Dio di Gesù fa tutto con questo Spirito.

Nella scena di Ascensione, con cui Matteo conclude la sua testimonianza, il compito storico assegnato agli amici comanda precisamente di allargare i cerchi concentrici di questa universale scelta di adozione. La meraviglia che Mosè voleva ridestare nei cuori di un piccolo popolo è destinata a cogliere di sorpresa gli stessi confini della terra. Compito del resto da assumere stando debitamente a distanza dagli equivoci. Non è un invito all’annessione delle coscienze, al reclutamento forzato, alla propaganda di massa, a tutte quelle strategie di incorporazione che smarriscono se non feriscono il sacrosanto senso della differenza, della libertà, della fraternità. Si tratta invece per i discepoli del Figlio di essere immagine e riflesso dei legami divini, casa ospitale per chi si sente amico, spassionato esercizio di libertà per chi si crede nemico, tenace segno della grazia per chiunque cerchi con tutto il cuore qualcosa di vero. In questo equilibristico esercizio di libertà lui non ci lascia soli. È con noi fino all'ultimo respiro di questo mondo. (Giuliano Zanchi)
 
Mercoledì, 23 Maggio 2012 21:12

La forza della memoria

196L’intenso metabolismo della vita pasquale sta tutto nel necessario sforzo, mentale e affettivo, di rileggere completamente la vicenda umana e spirituale di Gesù, con quel ta­gliente sguardo a ritroso con cui siamo capaci di affondare la lama della memoria nella spessa materia dei nostri ricordi, ma guardando tutto alla luce radente degli eventi definitivi, quella matassa inestricabile di violenza e di riscatto che la Pasqua ha posto a compimento di ogni cosa. Da quel punto di vista, ogni cosa appare illuminata di un senso un attimo prima semplicemente invisibile. Allora lo storia umana di Gesù acquisisce i contorni della vita del Figlio, si comprende il senso di parole rimaste a lungo enigmatiche, si scopre lo profondità profetica di gesti apparentemente pretenziosi, ci si riconcilia soprattutto con quel criterio della dedizione assoluta che fino all'ultimo era stato creduto incompatibile con la presenza di Dio. Dall'alto dell'esperienza pasquale ogni tassello va al suo posto e alla vita di Gesù è resa giustizia.  Una forza di illuminazione superiore, a cui l'evangelista Giovanni dà un nome e un profilo specifico, entra nella storia della salvezza come avvocato istruttore di questo atto di testimonianza che la memoria consente di dare in favore della vicenda umana di Gesù. Giovanni lo fa dire a Gesù stesso prima che tutte le cose accadano. Ma deve essere per lui un'esperienza già così prepotentemente in atto da guidare la sua memoria di evangelista. La presenza dello Spirito è una di quelle cose di cui deve aver tanto sentito parlare ma di cui solo adesso comprende pienamente la realtà. Può dunque metterla sulla bocca di Gesù con la certezza di farlo parlare con parole veramente sue. Nell'evocare la presenza dello Spirito, Gesù rinnova un atteggiamento di coerenza di cui è intrisa la sua attenta e intensa convivenza con gli umani. Nemmeno coi suoi discepoli Gesù ha mai ristretto l'orizzonte della relazione allo scambio puramente duale: ha sempre rimandato il suo rapporto con gli amici a quello terzo con il Padre. Di questo l'evangelo di Giovanni documenta con precisione l'assoluto rigore. Gesù riflette la gloria del Padre, parla di quello che sente dal Padre, compie quello che vede operare dal Padre. Custodisce la vita degli amici/figli per portarli al cospetto del Padre. Nessun narcisismo del sacro nella libera dedizione del Figlio.

Sicché ora, nel momento della glorificazione, della purificazione della memoria, della rilet­tura teologica della storia umana del Figlio, non è Gesù a tirare da se stesso i fili dello sve­lamento della verità, quasi dovesse enumerare con puntiglio gli elementi di una rivincita per­sonale, ma chiama in causa un nuovo Terzo, da cui ricevere testimonianza, a cui lasciare il compito di rendere ragione all'autenticità del Figlio, a metterne in mostra da giudice impar­ziale l'assoluta veridicità.  A sua volta anche lo Spirito non agirà per protagonismo personale. Parlerà di cose attinte dalla gloriosa presenza del Figlio. Si comporterà come la luce. Fa vedere tutto restando sempre invisibile. (Giuliano Zanchi)
Venerdì, 18 Maggio 2012 20:32

Cercare altrove

195Questo libro delle cronache evangelicamente aggiornato che è il racconto di Atti degli apostoli esordisce, a beneficio di ogni Teofilo interessato alle ragioni del Regno, con una sorta di compendio del grande evento pasquale, con tanto di richiamo alla passione, rinverdendo la meraviglia delle sue apparizioni, arricchendo di ulteriori dettagli il resoconto di un appartato segmento di storia destinato a diventarne il nucleo salvifico. In quei quaranta giorni, rinnovazione rituale delle quarantine che nella Scrittura hanno ospitato le grandi svolte spirituali della rivelazione, dal diluvio alle tentazioni, il Cristo sigilla nel cibo e nella parola i segni distintivi della sua presenza viva e indefettibile. Nel sacro vincolo della tavola, quotidiano santuario dei più elementari patti umani, egli consegna istruzioni vitali a lasciar evolvere un manipolo di ometti frastornati nel cemento di una fraternità destinata a irraggiare ovunque.

Con la prima chiede loro di frenare definitivamente l'impulso centrifugo dei discepoli, ansiosi di allontanarsi dal teatro degli eventi che hanno mortificato ogni loro aspettativa, perché invece restino a Gerusalemme, epicentro di tutte le promesse, luogo di destinazione di ogni atto nel quale l'alleanza è destinata a compiersi. È di più che semplicemente non fuggire da un luogo impegnativo. Significa soprattutto impiantarsi per sempre e senza pentimenti nel perimetro spirituale delle antiche attese, delle promesse messianiche, delle speranze proiettate da secoli sopra il fascinoso panorama di Sion. Stare a Gerusalemme significa sigillare definitivamente la vicenda di Gesù alla grande promessa del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe.

La seconda istruzione è per non evadere lo spazio della storia. Nemmeno al discepolo chiamato a testimoniare le ragioni del Regno spetta conoscere i tempi del suo definitivo compimento. Quella a cui chiama il Signore Gesù non è una fede che possa vivere scavalcando i compiti di una giusta costruzione della storia. Secondo quanto lo Spirito stesso concederà in forza e comprensione. Due istruzioni che sono un programma ecclesiale. Confessare Gesù compimento delle Scritture. Abitare la terra accendendo pazientemente segni del Regno. Rinsaldare la propria fede nella promessa e in­carnarla nella tenace costruzione della storia rende capaci di affrontare anche il necessario tempo dell'assenza. Il Figlio rientra nel perimetro della vita divina con la fierezza dell’umano che ha il proprio destino scritto nella carne. Luca descrive questo secondo congedo come la scoperta del sepolcro vuoto. Di nuovo un'assenza e uomini in bianco, figure della fede pasquale, che invitano a non fissarsi su di essa, ma a cercare altrove. Esistono assenze che scavano semplicemente il vuoto. Ne esistono altre che predispongono uno spazio. Quella del Figlio è una di queste. Dove il suo corpo ha fatto largo alla promessa, ora i discepoli possono dimorare custodendone l'accesso. Il secondo corpo umano di Gesù è quello dei suoi discepoli raccolti nella sua memoria. (Giuliano Zanchi) 
Domenica, 13 Maggio 2012 09:32

Comunione non è confusione

194Nell'imbarazzo con cui Pietro si ritrae dall’esasperata devozione di un uomo che gli rende omaggio, misuriamo il grado di secolare pulizia etica che la rivelazione evangelica ha giustamente introdotto nelle forme della relazione religiosa. Nemmeno chi è stato a fianco della sua incarnazione pensa più di presentarsi come intermediario semidivinizzato della grazia di Dio. Da che il Dio degli eserciti è stato uomo in Gesù, tutti lo possono essere senza sentirsene diminuiti. Spogliatosi per essere uguale a noi, egli scoraggia in tutti i modi l'ambizione a voler essere simili a lui. Che è peraltro il ritornello dell'antica tentazione (sarete simili a lui). Non esiste dunque più ragione che un uomo si debba prostrare davanti a un altro uomo. Lo Spirito, del resto, volteggia sul mondo degli umani con la sovrana libertà di avvolgerli tutti senza differenze. Dio difatti non fa diffe­renze. Nemmeno le cancella.

Nella logica degli affetti divini le identità si accendono dell'incandescenza con cui vengono unite. Il legame non sopprime le differenze. Dà loro il senso di esistere. Il principio con cui la rivelazione di Dio in Gesù si traduce in un nuovo definitivo esperimento di convivenza ruota attorno a una forma di unione che non è uniformità. Siamo uguali ma non equivalenti. Siamo prossimi ma non intercambiabili. Viviamo nella comunione ma non ci perdiamo nella confusione.

Per mantenere viva questa tensione, in cui le identità si fondano sul vincolo, occorre l'equilibrio di forze specifico del paradosso evangelico. Esso consiste alla sua radice nel comandare l'amore. Paradosso inciso nell'enigma umano del desiderio. Se, difatti, esiste qualcosa che, per definizione, non può prodursi sotto l'orizzonte dell'obbligazione, è l'affidamento amoroso. Esso, al contrario, nasce per principio come frutto della libertà. La nostra cultura ha poi contribuito a trasformare questo paradosso in alternativa. Nel dialetto libertario, con cui nessuno di noi può ormai fare a meno di esprimersi, la sfera del comandamento è per definizione contraddittoria rispetto all'esperienza dell'amore. Dove si impone l'uno, non esiste l'altra. Dove regna il vincolo della regola, non respira la libertà del sentimento. Ma spezzare in due i poli di questa corrente alternata ha immiserito la potenza dell'enigma umano che essi devono tenere vivo.

Gesù tiene saldamente uniti i due termini. L'amore è il senso della libertà. Ma proprio per questo esso ha i suoi perimetri di necessità. Il termine che ricompone eticamente il paradosso di un amore comandato, tenendolo in feconda sospensione è quello della responsabilità. La vita di ognuno sta nelle mani della cura dell'altro. Al di fuori di questo crocifiggente esercizio di fraternità, esiste spazio solo per identità perdute nella solitudine. Amarsi gli uni gli altri: semplice da morire, elementare fino all'impossibile. Se non fosse l'unilaterale anticipazione del Figlio. La sua incondizionata dedizione resta come matrice di ogni amore tentato nella sincerità. Amarsi, semplicemente. Come lui con noi. (Giuliano Zanchi)
 
Domenica, 06 Maggio 2012 06:22

La Sapienza incisa nel cuore

193La vulcanica fucina della lingua giovannea ha forgiato le metafore più intense che la letteratura evangelica possieda per designare la grazia indicibile dell'appartenenza umana alla vita del Figlio. Il cristocentrismo su cui si fonda il mistero di una nuova alleanza stretta attorno al corpo umano di Gesù ha bisogno di tradursi in analogie elementari, dense, immediate. Cristo è pane, Cristo è strada, Cristo è pastore, Cristo è porta, Cristo è pietra. Tutto quando sia originario e indispensabile. Questa volta Cristo è vite. La metafora intercetta un'attesa umana radicale. Tutti vivono della grazia di essere attaccati a qualcosa e di appartenere a qualcuno. Sentiamo di essere qualcuno solo quando siamo certi di essere di qualcuno. La vicenda esistenziale di ogni essere umano acquisisce la propria densità nella misura in cui mette positivamente alla prova la tenuta dei propri vincoli affettivi, come nella felicità dei bambini a cui si mostra il video di nozze dei loro genitori, nell'instancabile tenacia con cui i vecchi raccontano sempre la stessa storia, nella gioia con cui due innamorati scoprono di essere reciprocamente la dimora uno dell'altra. La rassicurazione è sempre quella: non è il caso che ti porta, c'è qualcuno che ti vuole, esiste un luogo da cui provieni. L'autodefinizione di Gesù, non a caso fatta pronunciare da Giovanni nel contesto di una cena di congedo, salda queste originarie percezioni umane al mondo della vita divina finalmente in procinto di svelarsi in tutta la sua paterna affidabilità. Non siamo le creature di un demiurgo lontano, non siamo prodotti genetici abbandonati al loro destino, non siamo naufraghi dell'esistenza che hanno come unico appoggio la zattera del loro piccolo io. Siamo esseri degni di essere voluti. Viviamo a patto di non recidere il filo che ci collega a quella volontà.

La notizia si accompagna anche al comandamento. Il dono viene sempre col compito. La grazia di aver ricevuto porta con sé la tentazione di dimenticarsene. Perdere coscienza della natura vitale del vincolo. Entrare in un desiderio di emancipazione che frutta solo l'inferno della solitudine. Per questo il coman­damento intima di rimanere. Restare nel vincolo. Mantenersi nel legame. Perché sospettarne la natura dispotica o semplicemente superflua è il tema di una tentazione che va in onda fin dalle origini. Questo invito che possiede tutte le tonalità di una implorazione (rimanete in me e io in voi) risuona come il lu­minoso rovescio dell'insidiosa allusione del tentatore. Nella promessa di amicizia di Gesù si ricuce la ferita del primo peccato.

La legge quindi ritorna a risplendere come parola data nella reciprocità. Non più come il documento di una volontà esteriore, arbitraria, anonima. Ma come segno di custodia di un vincolo di cui conservare lo spirito. La legge, del resto, ha definitivamente preso corpo. Parla disinvoltamente nella vita umana del Figlio. Non è più solo un indice scolpito nella pietra. Ha tutta l'intensità di una sapienza incisa nel cuore.

 

Giuliano Zanchi 

 
Sabato, 28 Aprile 2012 16:46

Il bel Pastore

192Curioso questo dovere di Pietro di rendicontare al cospetto delle alte sfere della tradizione il beneficio recato a un uomo infermo. Curioso e istruttivo. La fede dell'alleanza ha perfettamente conosciuto la cura divina riservata all'uomo fragile. I suoi interpreti non sempre. La loro affezione per l'alterità sovrana del Dio degli eserciti li ha spesso resi unilaterali difensori di quel principio a scapito della viscerale passione dell'Altissimo per l'umanità offesa. Quale orizzonte religioso può trovare di che interrogarsi sul ristabilimento dell'integrità di un essere umano se non uno rimasto sordo al compiuto svelamento in Gesù di quel Dio che non dorme di notte se un uomo non è al sicuro? Tutta la straziante novità di questa rivelazione la si tocca con mano nell'incredibile contenzioso nel quale Pietro, ormai abitato dalla grazia della Pasqua, deve spiegare le circostanze di un episodio di prodigiosa rinascita umana. Davvero i tempi sono nuovi. Si sente dallo scricchiolare di quelli vecchi. Pietro dunque, nel cuore della sua requisitoria, confessa il nome di Gesù, non senza ricordare apertamente l'opera del suo misconoscimento e gli atti del suo rifiuto. Nonostante questo, avviene tutto grazie a lui. Come una pietra che tiene su tutto l'edificio. Ma la sua natura di fon­damento non proviene da ragioni prestazionistiche da sistema sanitario. Il mondo nuovo di cui Cristo è la chiave di volta si fonda piuttosto sull'inaudita intimità a cui egli stesso ha saputo riportare le trepide speranze di Dio e le confuse aspettative dell'uomo. Un nuovo incontro.

La letteratura giovannea è la più creativa nel verbalizzare questo perno affettivo della rivelazione. Essa esprime anzitutto la costernata meraviglia umana nel sentirsi attratta per sempre dall'orbita filiale della vita divina. Ci sarebbe bastato essere servi trattati bene. Dio ci ha presi per figli. Ma non per finta. Proprio davvero. Realmente. Ma quanto tempo abbiamo perso a crogiolarci nella paura del divino?  L'evangelista Giovanni libera la grazia delle sue metafore agresti facendone il vettore della natura intima e confidente della fede a cui il Dio di Gesù convoca al suo cospetto il precario nomadismo della vita umana. Sono sempre in grande numero quelli che si presentano a indicare la strada al disorientato cammino dell'uomo. Molti sono mercanti d'anime interessati all'affare. Avuta la controparte, scompaiono nel nulla. Tornano magari a illudere con nuovi prodotti per la felicità. Pronti a dileguarsi di nuovo. Solo il bel pastore giovanneo, sotto le cui sembianze si confida un Gesù in procinto di morire, offre la garanzia di una custodia a oltranza e di una intimità a prova di voce. La sua incondizionata dedizione al gregge umano ha il proprio fondamento in quel sentimento di appartenenza agli affetti divini che dà ragione di ogni spassionata consegna di sé. Tutto quanto è perso per amore conosce misteriose vie di conservazione. È l'intesa tacita e solida di ogni madre col suo bambino. Basta il suono della voce per farlo dormire in pace. (Giuliano Zanchi)

 
Sabato, 21 Aprile 2012 10:35

Memoria di intimità

191Eccoci di fronte alla stabile e consolidata struttura narrativa di un racconto di apparizione. Essa però ci gratifica questa volta di una variante estremamente istruttiva. Come al solito, difatti, qui si parla di discepoli confusi dall'apparizione di un fantasma dalla natura indecifrabile. Ma tra coloro che ri­mangono interdetti dalla vertigine di questa strana visitazione ci sono anche quei due che tornano reduci dall'esperienza di Emmaus di cui hanno consegnato ai presenti un animato e sollecito resoconto. Ma sembrano tornati improvvisamente ciechi. La loro fervida testimonianza inservibile. Appena Gesù si ripresenta, torna a far paura col più classico effetto reattivo di ogni storia di fantasmi. Sembra letteratura gotica della più genuina. Il semplice fenomeno paranormale alimenta inquietudine, non favorisce la comprensione. Stava del resto scritto fra le righe di una di quelle storielle con cui Gesù declina la tradizione sapienziale in annuncio del Regno: se uno non ascolta Mosè e i Profeti, non viene persuaso nemmeno se gli appare un morto. L'effetto soprannaturale, dunque, non è determinante agli effetti del riconoscimento che è richiesto dalla fede. Anzi. Esso si presenta come l'elemento di cui rimuovere l'invadenza. Ogni fede che vuole fondarsi sul paranormale si costringe ogni volta a partire da capo. Resta prigioniera dell'immediatezza emotiva del prodigio. Resta letteralmente senza parole. Al contrario, la pedagogia della fede a cui si dedica il Risorto richiede una nuova affezionata attenzione al senso delle parole. Senza di quelle, lo spazio affettivo della fede resta un conato di bisogni indistinti. Come una maestra che tiene la mano al bambino che impara a scrivere, il Risorto svela con premurosa pazienza l'evidente corrispondenza delle antiche speranze con le vicende che lo riguardano. Tutta la Scrittura non parlava che di lui. Ma l'immaginazione umana, legata al volto arcaico di un dio dalla sovranità dispotica e dal volto indecifrabile, era un organo troppo debole per una simile rivelazione. L'apparizione del Risorto non ha dunque scadenti obiettivi dimostrativi. Ma profonde ragioni di rieducazione sentimentale. Di cui il gesto di mangiare è più di una semplice dimostrazione di consistenza corporea. È memoria di intimità ancora del tutto intatte. Rianimare il processo della comprensione richiede il lento battito cardiaco del tempo. Non si dà nella folgore della sorpresa. La sua efficacia è destinata a compiersi attraverso lo strumento simbolico della ripetizione. Notiamo. La struttura narrativa di questi episodi è già intrisa dello schema liturgico della comunione eucaristica. Difficile districare in questi racconti le due matrici. Le apparizioni sono raccontate già come eucaristie. Ma le eucaristie nascono sull'impronta delle apparizioni. La parola e il pane sono segni decisivi per tenere la fede lontano dai fantasmi trat­tenendola entro il perimetro del rigore corporeo della rivelazione. (Giuliano Zanchi)
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