Cookie Consent by Popupsmart Website

stemma e nome

Sabato, 18 Aprile 2015 07:08

Credere alla parola del Signore

336Il vangelo di questa domenica racconta un altro evento, dopo la visita all’alba delle donne alla tomba vuota (cf. Lc 24,1-11), la corsa di Pietro al sepolcro (cf. Lc 24,12), la manifestazione del Risorto “come un forestiero” (Lc 24,18) ai due discepoli in cammino verso Emmaus (cf. Lc 24,13-35).

Sempre nel medesimo giorno, “il primo della settimana” (Lc 24,1), il giorno unico della resurrezione, ma alla sera, i due discepoli tornati a Gerusalemme sono nella camera alta (cf. Lc 22,12; Mc 14,15), a raccontare agli Undici e agli altri “come hanno riconosciuto Gesù nello spezzare il pane” (cf. Lc 24,25). Ed ecco che, improvvisamente, si accorgono che Gesù è in mezzo a loro e fa udire la sua parola: “Pace a voi!”. Non consegna loro parole di rimprovero per la loro fuga al momento del suo arresto, non redarguisce Pietro per il rinnegamento, non dice nulla sul fatto che essi non sono più Dodici, come li aveva chiamati e costituiti in comunità (cf. Lc 6,13; 9,1), ma solo Undici, perché il traditore se n’è andato. No, dice loro: “Shalom ‘aleikhem! Pace a voi!”, saluto abituale per i giudei, ma che quella sera risuona con una forza particolare: “La pace sia con voi! Non abbiate paura!”.

La resurrezione ha radicalmente trasformato Gesù, l’ha trasfigurato, perché egli ormai “è entrato nella sua gloria” (cf. Lc 24,26), e può solo essere riconosciuto dai discepoli attraverso un atto di fede. Quest’atto di fede è difficile, faticoso: gli Undici stentano a viverlo, a metterlo in pratica… Non a caso Luca annota che i discepoli “sconvolti e pieni di paura, credono di vedere uno spirito”. Allora Gesù li interroga: “Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; uno spirito non ha carne e ossa, come vedete che io ho”. Nel dire questo, mostra loro le mani e i piedi con i segni della crocifissione. Sì, il Risorto non è altro che colui che è stato crocifisso!

Eppure, nonostante queste parole e questo gesto, i discepoli non arrivano a credere, malgrado un’emozione gioiosa non giungono alla fede. È vero, noi umani approdiamo facilmente alla religione, ma difficilmente arriviamo alla fede; viviamo facilmente emozioni “sacre” o religiose, ma difficilmente aderiamo a Gesù Cristo e alla sua parola. Ma il Risorto ha grande pazienza, per questo offre alla sua comunità una seconda parola e un secondo gesto. Chiede loro se hanno qualcosa da mangiare, ed essi gli offrono del pesce arrostito, il cibo che abitualmente mangiavano insieme, quando vivevano l’avventura della vita comune in Galilea. Ricevutolo, Gesù lo mangia davanti a loro! Siamo persino stupiti di fronte a questi gesti di Gesù, ma stiamo attenti: sono solo “segni” per dire che la resurrezione di Gesù non è immortalità dell’anima e perdita totale del corpo, non è “la continuazione della sua causa” anche se egli è morto, non è una memoria che si conserva senza che colui che è morto sia vivente. Gesù dà ai discepoli questi segni, che in verità contengono verità indicibili, affinché credano che il Crocifisso ha vinto realmente la morte.

Ma i discepoli restano in silenzio: l’evangelista attesta che nemmeno da quei segni e da quelle parole di Gesù è scaturita la loro fede… Infatti Gesù, per renderli finalmente credenti, deve riprendere la sua predicazione, l’annuncio del Vangelo da lui fatto fino alla morte. Chiede di ricordare le parole dette mentre era con loro, perché quelle parole erano profezia e parola di Dio che si doveva avverare, così come doveva trovare compimento tutto ciò che era stato scritto su di lui, il Messia, nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi. Ed ecco che, mentre il Risorto ricorda e spiega la parola di Dio contenuta nelle sante Scritture, opera il vero miracolo: “aprì loro la mente (diénoixen autôn tòn noûn) per comprendere le Scritture”. Il verbo qui utilizzato (dianoígo) nei vangeli ha sempre un senso terapeutico: designa l’apertura degli orecchi dei sordi e della bocca dei muti (cf. Mc 7,34), degli occhi ai ciechi (cf. Lc 24,31). Qui indica l’operazione compiuta nella potenza dello Spirito santo, l’apertura della mente alla comprensione delle Scritture. I discepoli, così “aperti”, possono ora ricevere il mandato per la loro testimonianza e la loro missione. Hanno capito che il cuore del Vangelo è la passione, morte e resurrezione del Signore, e che questo è il fondamento della fede cristiana, dal quale scaturisce l’annuncio del perdono dei peccati, della misericordia di Dio per tutte le genti della terra: non solo per il popolo di Israele, ma per tutti…

Con tanta fatica Gesù ha rifatto credenti quei discepoli che erano venuti meno durante la sua passione, li ha resi testimoni della sua morte e resurrezione, li ha resi capaci di comprendere cosa sia il perdono dei peccati che essi devono annunciare, in virtù del loro essere stati i primi a ricevere il perdono dal Risorto. C’è un detto di un padre del deserto che mi sembra commentare mirabilmente questa pagina evangelica: “Credere alla parola del Signore è molto più difficile che credere ai miracoli. Ciò che si vede solo con gli occhi del corpo, abbaglia; ciò che si vede con gli occhi della mente che crede, illumina”.
 
Domenica, 12 Aprile 2015 15:24

PASQUA DI PADRE BRUNO DESSÌ

p.brunoProprio oggi, sabato dell’ottava di Pasqua, il P. Bruno Dessì ha risorto con il Signore Gesù. Non è difficile scorgere un mistero glorioso, in mezzo a quelli dolorosi  che ha accompagnato la lunga agonia del P. Bruno.  Noi abbiamo pregato tanto che i nostri Venerabili che facciano un tramite di  amore, per  darci un miracolo della potenza di Dio. 

Al Signore della  vita e della misericordia vada il nostro grazie per averci dato l’immagine di se stesso nel carissimo  P. Bruno. 

pdf  Lettera del P. Generale  
Sabato, 11 Aprile 2015 10:09

Essere visti ed essere toccati

335Il vangelo di oggi, ottavo giorno dopo la Pasqua, ci testimonia due manifestazioni del Risorto, una avvenuta la sera dello stesso giorno della scoperta del sepolcro vuoto, l’altra avvenuta il primo giorno della settimana seguente. D’altronde resta difficile separare le due manifestazioni, perché entrambe sono strettamente collegate, anzi la seconda è solo un’appendice della prima.

Sappiamo che, nell’ora della cattura di Gesù al Getsemani, tutti i discepoli fuggirono pieni di paura: temevano di essere coinvolti in quel processo che avrebbe portato Gesù alla condanna e alla morte. Secondo il quarto vangelo, solo Pietro e un altro discepolo avevano tentato di vedere cosa accadeva, seguendo Gesù fino al cortile della casa del sommo sacerdote (cf. Gv 18,15); ma poi anche Pietro, spaventato per essere stato riconosciuto, se n’era andato (cf. Gv 18,16-18.25-27).

Quelli che avevano abbandonato tutto per seguire Gesù (cf. Mc 1,18.20), hanno finito per abbandonare Gesù e fuggire tutti (cf. Mc 14,50). Perché? A causa della paura! La paura è una potenza terribile: quando si impadronisce di noi, ci toglie ogni forza, ogni possibilità di resistenza, ci rende innanzitutto vili, perché ci toglie la responsabilità: nel nostro caso la responsabilità della fede, dell’amore, della speranza. Quei discepoli coinvolti nella vita di Gesù per alcuni anni, che lo avevano seguito e da lui erano stati ammaestrati e fatti crescere come credenti, sopraggiunta l’ora della prova, della “crisi”, hanno paura; e la paura debilita la loro fede, fa dimenticare il loro amore reale per Gesù, annebbia la loro esile speranza.

Essi dunque non rispondono: negano la loro identità, i loro rapporti con Gesù, e dunque stanno in casa al chiuso, “per paura dei giudei” (dià tòn phóbon tôn ioudaíon). Le porte della casa dove avevano celebrato l’ultima cena con Gesù sono chiuse, in attesa che ritorni la calma, la sicurezza, così che possano fare ritorno in Galilea, alle loro case. È il terzo giorno dopo la morte di Gesù ed è quasi sera. Certo, hanno saputo da Maria di Magdala che il sepolcro è vuoto (cf. Gv 20,2); Pietro e l’altro discepolo, recatisi alla tomba, hanno confermato le parole di Maria (cf. Gv 20,10), la quale ha anche testimoniato: “Ho visto il Signore!” (Gv 20,18). La situazione resta però di aporia, perché la paura prevale su questo annuncio, che pure conferma le promesse di Gesù: “Vado e tornerò da voi” (Gv 15,28); “Un poco e non mi vedrete più, un poco ancora e mi vedrete … e la vostra tristezza si cambierà in gioia” (Gv 16,16.20).

Regnava dunque la paura quando “Gesù venne, stette in mezzo a loro e disse: ‘Pace a voi!’”. Ecco la venuta del Gesù vivente perché risorto da morte, la venuta del Kýrios, del Signore. Viene e sta in mezzo a loro, con una presenza che si impone, che raduna, attira, fa comunità! È proprio Gesù? Sì, per questo mostra le mani e il petto. Le mani trafitte per la crocifissione, ma soprattutto quelle sue mani che avevano toccato, accarezzato, consolato i suoi fratelli, da lui chiamati amici (cf. Gv 15,13-15). Le mani che avevano toccato i malati, che avevano spezzato il pane prima di porgerlo loro, che avevano stretto, abbracciato. Che tristezza saper solo contemplare i buchi, le ferite, e non vedere le mani! Eppure i discepoli non solo avevano ascoltato tante volte Gesù, e dunque ne riconoscevano la voce, ma avevano sentito il contatto con lui attraverso le sue mani, lo avevano sentito vicino attraverso le sue mani. Toccare è un’azione che lascia un sigillo su chi è toccato… Poi Gesù mostra il petto ferito dalla lancia nell’ora della morte: il petto sul quale il discepolo amato ha reclinato il capo nell’ultima cena (cf. Gv 13,25; 21,20), è anche il petto che egli ha visto colpito da uno dei soldati e dal quale sono usciti sangue e acqua (cf. Gv 19,33-37). Mani che hanno toccato, accarezzato, amato, che mai hanno colpito qualcuno; petto aperto, ferito, che dice il suo aver dato tutto, anche il cuore…

Il Risorto dice parole brevissime ma straordinarie, che illuminano quella theoría, quello “spettacolo” (Lc 23,48): “Pace a voi!”. Poi fa anche un gesto, respira forte e alita sui discepoli per trasmettere loro il suo respiro, il suo soffio, il suo Spirito: “Ricevetelo!”. In pochi secondi – diremmo noi in modo inadeguato – avviene tutto, accade il necessario ephápax, una volta per tutte. Perché se quel soffio effuso sui discepoli diventa il loro respiro, allora essi hanno lo stesso respiro di Gesù, il quale respirava perdonando i peccati degli uomini e delle donne che incontrava. Quello era il suo respiro che, soffiato su di noi, toglieva la polvere, purificava, cancellava le colpe: Gesù chiede solo che, avendo il suo respiro, anche noi siamo capaci di perdono verso tutti…

E Tommaso? Quella sera non è con gli altri, e nei suoi ragionamenti pensa di dover toccare i buchi delle mani e del costato, per credere, mentre non sa che è Gesù ora a doverlo toccare. Ma quando Gesù viene di nuovo e Tommaso lo vede, vede le sue mani e il suo petto, allora non tocca, non mette il dito per verificare; no, si inginocchia e confessa: “Mio Signore e mio Dio!”, la più alta e la più esplicita confessione di fede in tutti i vangeli. Per la fede non bisogna né vedere né toccare, come pensava Tommaso, ma occorre essere visti da Gesù ed essere toccati dalle sue mani, che sono sempre una carezza, una stretta di mano; e rarissime volte ecco anche un bacio, in cui il suo respiro diventa il nostro. Gesù si rivela “toccandoci”, soprattutto toccandoci con “il suo corpo” e “il suo sangue”.

Commento al Vangelo di Enzo Bianchi 
p.-saulqueridos hermanos…

queremos contarles una gran alegría  de que tenemos un sacerdote nuevo. nuestro hermano y ahora sacerdote Saúl Gonzalo Ahumada Salinas quien ha viajado a la comunidad de Bogotá en Colombia para prestar el servicio en nombre de Dios, en 22 de marzo recibió su ordenación sacerdotal conferida por imposición de las manos del Mons. Rubén Salazar Gómez, Arzobispo Primado de Bogotá.

ahora nosotros , los religiosos de la Orden de la Madre de Dios, les pedimos que recen por él, nuevo sacerdote, para que sea buen religioso y sacerdote, y para que él, guiado por el Espíritu Santo, sirva siempre para la gloria de Dios en nuestra Iglesia y en nuestra orden, con la protección de nuestro santo Juan Leonardi y Nuestra Madre siempre Virgen.
169Cari confratelli,
gli auguri per la Pasqua con una ricetta di san Giovanni Leonardi che ci può aiutare sempre più a guarirci. La sua è una buona ricetta che oggi più che mai abbiamo bisogno. Vi auguro una buona pasqua con affetto. 

P. Francesco Petrillo
Rettore Generale

pdf  lettera circulare  
Venerdì, 27 Marzo 2015 16:18

Nella libertà e per amore

334Il racconto della passione di Gesù, che la liturgia oggi ci propone accanto a quello dell’entrata festosa di Gesù in Gerusalemme (Mc 11,1-10), occupa quasi un quinto dell’intero vangelo secondo Marco; non potendo dunque farne un commento puntuale, mi limiterò a uno sguardo d’insieme che ne evidenzi gli elementi principali.

Questa narrazione mette alla prova il nostro sguardo di fede su Gesù: siamo quasi costretti a patire lo scandalo e la follia della croce (cf. 1Cor 1,23), siamo posti di fronte all’esito fallimentare della vita di Gesù. Colui che è passato in mezzo alla sua gente facendo il bene (cf. At 10,38), curando i malati e talvolta guarendoli, e costringendo il demonio ad arretrare; colui che, quale “profeta potente in opere e in parole” (Lc 24,19), ha attirato a sé le folle fino a entrare nella città santa tra acclamazioni trionfali; colui che è riuscito a radunare intorno a sé una comunità itinerante di uomini e donne; quest’uomo, Gesù di Nazaret, conosce una fine impensabile, la sua vita approda a una morte fallimentare. Ogni lettore attento del vangelo, ogni discepolo non può che essere profondamente turbato da tale esito…

Dov’è finita – viene da chiedersi – la forza di Gesù, la potenza con cui egli liberava dalla malattia e dalla morte quanti ne erano segnati? “Ha salvato altri e non può salvare se stesso!” (Mc 15,31) – lo scherniscono i suoi avversari… Dov’è finito quel carisma profetico con cui egli annunciava ormai vicinissimo, anzi presente, il Regno di Dio (cf. Mc 1,15)? Perché nella passione Gesù è ridotto al silenzio e si lascia umiliare senza aprire la bocca (cf. Is 53,7)? Dov’è quell’autorevolezza riconosciutagli tante volte da chi lo chiamava maestro, lo acclamava profeta, lo invocava come Messia e Salvatore? Tutti coloro che sembravano suoi seguaci e simpatizzanti sono scomparsi, e Gesù è solo, abbandonato da tutti.

Ma l’enigma è ancora più radicale: dov’èDio durante la passione di Gesù? Quel Dio che sembrava essergli così vicino e che egli chiamava confidenzialmente “Abba”, cioè “papà caro”; quel Dio che lo aveva definito “Figlio amato” al battesimo (cf. Mc 1,11) e alla trasfigurazione (Mc 9,7); quel Dio per il quale Gesù aveva messo in gioco e consumato tutta la propria vita, dov’è ora? Non lo si dimentichi: la morte di croce è la morte del maledetto da Dio (cf. Dt 21,23; Gal 3,13), giudicato tale dalla legittima autorità religiosa di Israele, e, nel contempo, èil supplizio estremo inflitto a chi è ritenuto nocivo alla polis. Davvero Gesù è morto come un impostore, appeso tra cielo e terra perché rifiutato da Dio e dagli uomini…

È assai difficile rispondere a queste domande. Si può cominciare col notare che Gesù ha percorso questo cammino – giustamente definito via crucis, via della croce – pregando il Padre affinché lo sostenesse in quell’ora tenebrosa, “supplicando Dio con forti grida e lacrime” (cf. Eb 5,7); in tutto questo, però, ha sempre lottato per abbandonarsi in Dio e cercare di compiere la sua volontà, non la propria (cf. Mc 14,36). Sì, Gesù ha avuto fede, ha creduto che Dio non lo avrebbe abbandonato, che sarebbe rimasto con lui, dalla sua parte, nonostante le apparenze di segno opposto e il reale fallimento umano della sua vita e della sua missione.

Ma per comprendere appieno la passione di Gesù, così da poterlo seguire in essa senza scandalizzarsi, è fondamentale approfondire il senso del gesto eucaristico dell’ultima cena (cf. Mc 14,17-25). Gesù ha compiuto tale atto per evitare che i discepoli leggessero la sua morte come un evento subìto per caso, oppure dovuto a un destino ineluttabile voluto da Dio. Nulla di tutto questo. Gesù ha infatti vissuto la propria fine nella libertà: avrebbe potuto fuggire prima che gli eventi precipitassero, avrebbe potuto cessare di compiere azioni e pronunciare parole al termine delle quali lo attendeva una condanna a morte. Ma non lo ha fatto; anzi, è rimasto fedele alla missione ricevuta da Dio, ha continuato a realizzare in tutto e puntualmente la volontà del Padre, anche a costo di andare incontro a una fine ignominiosa. E questo perché sapeva bene che solo così poteva amare Dio e gli uomini fino alla fine (cf. Gv 13,1)… Ecco, Gesù ha concluso la sua esistenza così come l’aveva sempre spesa: nella libertà e per amore di Dio e degli uomini! Affinché ciò fosse chiaro, Gesù ha anticipato profeticamente ai discepoli la sua passione e morte, spiegandola loro con un gesto capace di narrare l’essenziale di tutta la sua vicenda: pane spezzato, come la sua vita lo sarebbe stata di lì a poco; vino versato nel calice, come il suo sangue sarebbe stato sparso in una morte violenta.

Se, all’inizio del vangelo, Marco aveva scritto che i discepoli “abbandonato tutto, seguirono Gesù” (cf. Mc 1,18.20), nell’ora della passione si vede costretto ad annotare che essi, “abbandonato Gesù, fuggirono tutti” (Mc 14,50). Lo scandalo della croce permane in tutta la sua durezza e non va attutito, ma il segno eucaristico, memoriale della vita, passione e morte di Gesù, sarà capace di radunare di nuovo i discepoli intorno al Cristo Risorto. La comunità dei discepoli di Gesù potrà così attraversare la storia e giungere fino a noi, senza temere di affrontare anche le ore buie e le crisi: il suo Signore l’ha infatti preceduta anche in esse, vivendole nella libertà e per amore.
333Il contesto è quello della terza e ultima Pasqua vissuta da Gesù a Gerusalemme, quando ormai i sommi sacerdoti hanno preso la decisione di condannarlo a morte (cf. Gv 11,53), e dopo il suo ingresso messianico nella città santa acclamato da molta folla (cf. Gv 12,12-19). Come in occasione di ogni grande festa, erano saliti a Gerusalemme anche dei greci (héllenes), dei non ebrei, dunque dei pagani, i quali avevano certamente sentito parlare di Gesù, del suo carattere profetico, della sua autorevolezza nel rivolgersi alla gente. Gesù ha conosciuto un certo successo, che gli ha procurato fama, oltre che acerrimi nemici. Questo successo inquieta soprattutto gli uomini religiosi, impazienti di frenare ed estinguere il movimento nato dalla predicazione di Gesù. Costoro poco prima erano arrivati a dire: “Ecco, tutto il mondo gli va dietro!” (Gv 12,19), chiedendo dunque di fare qualcosa di definitivo riguardo a Gesù, di risolvere la questione una volta per tutte.

I pagani presenti a Gerusalemme, interessati a incontrare Gesù, avvicinano Filippo (il discepolo con un nome greco, proveniente da Betsaida di Galilea, città abitata da molti greci) e gli chiedono: “Vogliamo vedere Gesù”. Ciò però non è facile, perché incontrare dei pagani nella città santa, da parte di un rabbi, non è conforme alla Legge, non rispetta le regole di purità. Filippo, titubante, va a riferirlo ad Andrea, il discepolo più intimo di Gesù, il primo chiamato alla sequela secondo il quarto vangelo (cf. Gv 1,37-40); poi, insieme, i due decidono di presentare la richiesta a Gesù. Quest’ultimo, ascoltandoli, nella sua capacità di riflettere e di leggere gli avvenimenti percepisce che tale domanda è una profezia che riguarda i pagani: anche loro potranno essere suoi discepoli, credere in lui e fare parte della sua comunità.

La sua vita sta volgendo alla fine, la morte è decretata dalle legittime autorità della comunità religiosa, della sua “chiesa”, ma Gesù riesce a vedere oltre la morte, anzi riesce a vedere nella sua morte una fecondità inaudita: “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato”. L’ora della morte in croce è l’ora della gloria, dell’epifania del suo amore vissuto all’estremo per gli uomini tutti (cf. Gv 13,1). Quell’ora di cui a Cana aveva detto alla madre: “La mia ora non è ancora giunta” (Gv 2,4), quell’ora che aveva annunciato come prossima e verso la quale andava con desiderio, quell’ora che era “la sua ora” (Gv 7,30; 8,20), finalmente è arrivata. Questa è l’ora decisiva, che inaugura un nuovo tempo per la fede, per l’adorazione di Dio (cf. Gv 4,21.23), per la salvezza dei morti e dei vivi (cf. Gv 5,25-29).

Per rivelarla, Gesù ricorre a una breve similitudine, pronunciata con grande autorità: “Amen, amen io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. Ecco la necessitas della passione e morte, della croce. La sua morte è una semina, nella quale il seme deve cadere a terra, essere sotterrato, morire come seme e dare origine a una nuova pianta che moltiplica i semi nella spiga. Così Gesù legge la propria morte e così ci rivela che anche per noi, uomini e donne alla sua sequela, diventa necessario morire, cadere a terra e anche scomparire per dare frutto. È una legge biologica, ma è anche il segno di ogni vicenda spirituale: la vera morte è la sterilità di chi non dà, di chi non spende la propria vita ma vuole conservarla gelosamente, mentre il dare la vita fino a morire è la via della vita abbondante, per noi e per gli altri. Il cristiano che vuole essere servo del Signore, che dice di amare il Signore, deve semplicemente accogliere questa morte, accettare questa caduta, abbracciare questo nascondimento. E allora non sarà solo, ma avrà Gesù accanto a sé, sarà preceduto da Gesù, che lo porterà dove egli è, cioè nel grembo di Dio, nella vita eterna.

Con questa fede, con questa convinzione Gesù, anche se turbato dalla morte imminente, sa dire “amen”, sa dire “sì” a quell’ora che è la sua. Per questo anche la preghiera di Gesù così espressa dai sinottici: “Abba! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice!” (Mc 14,36; cf. Mt 26,39; Lc 22,42), nel quarto vangelo diventa un grido di vittoria: “Per questo sono giunto a quest’ora” e un’invocazione: “Padre, glorifica il tuo Nome”. Ed ecco che, in risposta, scende su di lui dal cielo una voce, come promessa e sigillo: “L’ho glorificato e lo glorificherò presto!”. È la voce del Padre il quale conferma al Figlio Gesù che quell’ora della croce è l’ora della gloria. Per questo Gesù può esclamare: “Ora avviene il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo è gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra”, come il serpente innalzato da Mosè (cf. Nm 21,4-9; Gv 3,14), “attirerò tutti a me”.

Tutti, giudei e greci, tutti attirati da lui potranno vederlo, ma sulla croce, mentre dona la vita l’umanità intera. Questa la risposta di Gesù a chi vuole vederlo!

Commento al Vangelo di Enzo Bianchi 
luduvicoSaranno presentati lunedì 23 marzo ore 11,00 presso la Biblioteca Statale di Lucca gli atti del Convegno commemorativo nel centenario della Nascita di Ludovico Marracci (1612-2012): “Il Corano e il pontefice Ludovico Marracci fra cultura islamica e Curia papale A cura di Gian Luca D'Errico. Saranno presenti Monica Angeli, Direttrice della Biblioteca Statale di Lucca, S. E. Mons. Italo Castellani Arcivescovato di Lucca Stefano Baccelli, Presidente della  Provincia di Lucca. Interverranno: Padre Davide Carbonaro, Segretario Generale O.M.D; Umberto Mazzone, Università di Bologna Giovanni Pizzorusso; Università di Chieti-Pescara sarà presente il curatore. Al termine della presentazione si aprirà la mostra documentaria di opere manoscritte e a stampa di P. Ludovico Marracci che resterà visitabile fino alle ore 18,30 di lunedì 23 marzo

14 marzo 2015

pdf  invito  
Sabato, 14 Marzo 2015 11:02

La gloria dell'amore

332Oggi eccoci nuovamente di fronte a un altro brano del vangelo giovanneo, a un testo per molti aspetti difficile: Giovanni, infatti, ha una visione che va colta al di là di quello che scrive, una visione più profonda, che non è – potremmo dire – la nostra visione umana, ma appartiene solo a chi ha la fede in Gesù, dunque una visione ispirata dallo sguardo di Dio sulla vicenda di Gesù.

Giovanni è stato testimone della passione e morte di Gesù sul Golgota, quel venerdì, vigilia della Pasqua, 7 aprile dell’anno 30 della nostra era. Ha visto la sofferenza di Gesù, il disprezzo che egli subiva da parte dei carnefici e soprattutto quel supplizio vergognoso e terribile – “crudelissimum taeterrimumque supplicium”, come lo definisce Cicerone (Contro VerreII,5,165) – che era la croce. Ha visto questa scena con i suoi occhi ma, dopo la resurrezione di Gesù, nella fede piena, nella contemplazione e meditazione di questo evento, giunge a leggerlo in modo altro rispetto ai vangeli sinottici. In quei vangeli Gesù aveva annunciato per tre volte la “necessità” della sua passione, morte e resurrezione, e per tre volte tale annuncio aveva atterrito i discepoli (cf. Mc 8,31-33 e par.; 9,30-32 e par.; 10,32-34 e par.). Anche il quarto vangelo attesta che per tre volte Gesù ha parlato di questa necessitas, ma lo fa con un linguaggio altro: ciò che nei sinottici è infamia, tortura, supplizio in croce, per Giovanni diventa invece un “innalzamento”, cioè una gloria.

Nel nostro brano risuona il primo dei tre annunci fatti da Gesù: “È necessario che il Figlio dell’uomo sia innalzato”. Effettivamente Gesù, appeso al legno, è stato innalzato da terra, ma per Giovanni questo innalzamento da terra non è fisico, bensì è un essere innalzato gloriosamente da Dio, un essere glorificato, cioè rivelato nella sua gloria. Per Giovanni “essere innalzato” (verbo hypsóo) è anche “essere glorificato” (verbo doxázo: cf. Gv 7,59; 8,54, ecc.), essere sulla croce è essere alla destra del Padre. Per questo Gesù dice anche: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo”, ossia lo avrete materialmente messo in croce, “allora conoscerete che Io Sono (egó eimi: cf. Es 3,14)” (Gv 8,28), che io sono come Dio. E ancora: “Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Quest’ora dell’innalzamento è dunque l’ora della glorificazione (cf. Gv 12,23; 13,31-32), l’ora della passione e della croce. Nel quarto vangelo croce e Pasqua sono lo stesso mistero, e l’ora della passione è l’ora dell’epifania dell’amore.

Sì, dobbiamo confessare che questo sguardo giovanneo sulla croce non è facilmente accettabile da noi uomini, eppure questa è la vera e profonda comprensione della croce di Gesù: la croce è stata un supplizio, ma è stata anche un alzare il velo su come Gesù “ha amato i suoi fino all’estremo (eis télos)” (Gv 13,1); è stata una morte da maledetto da Dio e dagli uomini (cf. Dt 21,23; Gal 3,13), crocifisso a mezz’aria perché Gesù non era degno né del cielo né della terra, eppure proprio sulla croce egli riconciliava cielo e terra, faceva cadere ogni barriera e apriva il Regno all’umanità, portando l’umanità in Dio (cf. Ef 2,14-16). Sulla croce moriva un uomo solo e abbandonato, ma quest’uomo narrava che “l’amore più grande è dare la vita per gli amici” (cf. Gv 15,13).

Questa è la lettura paradossale della croce fatta da Giovanni. Questo è il Vangelo che Gesù rivela a Nicodemo, un esperto delle Scritture che però Gesù definisce “ignorante” (cf. Gv 3,10): un “maestro in Israele” che non conosce l’azione di Dio nella sua verità profonda. Per cercare di spiegargli questa “necessità” della passione e morte del Messia, Figlio dell’uomo, Gesù tenta un paragone con un fatto avvenuto a Israele nel deserto, dopo l’uscita dall’Egitto. Secondo il libro dei Numeri, gli ebrei furono attaccati da serpenti mortiferi, e allora Mosè innalzò su un’asta un serpente di bronzo: chi lo guardava, anche se morso dai serpenti restava in vita, era salvato (cf. Nm 21,4-9). Questo racconto antico viene reinterpretato dal libro della Sapienza che fa una lettura altra dell’evento, cogliendo nel serpente “un segno di salvezza” (Sap 16,6): “chi si volgeva a guardarlo era salvato non per mezzo dell’oggetto che vedeva, ma da te, Salvatore di tutti” (Sap 16,7).

Comprendiamo bene le parole di Gesù, che sono dunque un invito a guardare al Figlio dell’uomo, innalzato in croce come il serpente innalzato da Mosè: chi guarda al crocifisso, trova salvezza e vita. Questo innalzamento del Figlio dell’uomo è il segno che “Dio ha tanto amato il mondo”, questa nostra umanità, “da dargli in dono il Figlio unico”, cioè se stesso. Lo ha donato inviandolo nel mondo, quale Figlio diventato uomo tra gli uomini, non per giudicare il mondo, ma per salvare il mondo, perché “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati” (1Tm 2,4); non vuole condannare il mondo ma vuole che tutti “abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10).

Questo sguardo di Giovanni sulla passione e morte di Gesù ci appare quasi insostenibile, eppure è lo sguardo che ci permette di vedere in una storia di morte una storia di amore, una storia gloriosa dell’amore umano vissuto da Gesù, che così ha narrato una volta per tutte (exeghésato: Gv 1,18) l’amore di Dio.

Commento al Vangelo di Enzo Bianchi 
BOLETIN-PJYVLa Pastorale Giovanile e Vocazionale Leonardina ha inaugurato l’ inizio di quest’ anno con il rilascio di un notiziario creato per gli stessi giovani. Loro vogliono fare arrivare questo bolettino a tutti giovani dal Cile e Colombia per far sapere quello acaduto, anche quelle cose che vengono, come anche tips e aiuta pastorale (films, App, canzione, etc. )

La difusione si fa per i mezzi di comunizione attuali (Facebook, Twitter e WhatsApp) e anche per mano con la impressione che loro anche fanno. 

pdf  BOLETIN PJYV Marzo 2015  
© 2024 Ordine della Madre di Dio. All Rights Reserved. Powered by VICIS