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stemma e nome

SB-Espressione di fede e condivisione di gioia a S. Brigida per la Festa Liturgica di S. Giovanni Leonardi, Fondatore dell’Ordine della Madre di Dio e  Patrono dei Farmacisti. Al Triduo di preparazione  tenuto  dal vice parroco della Parrocchia, P Seelan ,omd, è seguita la celebrazione della giornata festiva di Venerdì 9 ottobre con le messe del mattino e la messa solenne concelebrata nelle ore pomeridiane. Ma il momento più solenne è stato Domenica 11 ottobre  con la presenza di Sua Em.za Rev.ma il Cardinale Sepe, che ha presieduto la Messa solenne della sera, cui hanno partecipato vari Religiosi Leonardini e Confratelli delle Parrocchie del III Decanato con Il Decano Don Giuseppe Carmelo. Sentita e partecipata la presenza di numerosissimi Farmacisti appartenenti all’Ordine con il Presidente, Dott. Vincenzo Santagada e all’Unione Cattolica Farmacisti Italiani di Napoli con la Presidente  Dott.ssa Angela Lupoli.

Nell’Omelia il Cardinale con la sua calorosa parola ha messo in evidenza l’attualità della figura e dell’insegnamento di S. Giovanni Leonardi, specialmente in relazione alla professione del farmacista cristiano, che sa trasmettere all’ammalato oltre alla medicina del corpo le medicine del medico celeste. Il Leonardi  giovane farmacista, che trova il tempo da dedicare all’approfondimento della propria fede, il fantasioso sacerdote, che nell’insegnamento del catechismo fatto con vivacità vede la chiave per un rinnovamento della fede nei più giovani, il riformatore santo che comincia da se stesso per proporre agli altri un serio lavorio interiore di cui tutta la Chiesa ha bisogno. Poche pennellate per rendere la figura del Leonardi amabile  e perciò attualissima oggi, per la ricca eredità di opere da lui compiute e che hanno lasciato il segno nella Chiesa.
Lunedì, 12 Ottobre 2015 21:05

I sogni dell’Africa diventano realtà

Nig-2015-«I have a dream» («Io ho un sogno») è il titolo del discorso tenuto da Martin Luther King il 28 agosto del 1963 davanti al Lincoln Memorial di Washington, al termine di una marcia di protesta per i diritti civili: in esso esprimeva la speranza che un giorno la popolazione di colore avrebbe goduto degli stessi diritti dei bianchi. Anch’io ho avuto dei sogni con l’Africa da quanto mi sono arrivato in Nigeria nel 2005. Vedevo un bosco, una foresta che incuteva timore e preoccupazione, ma sognavo con un giardino! Vedevo dei seminaristi spauriti e fragili, sognando di vederli un giorno forti e maturi religiosi dell’Ordine della Madre di Dio.  Vedevo bambini che cercavano qualcuno che volesse aprire il cammino della vita, dandogli educazione e futuro, sognando di offrire una  scuola, una  casa di affetto e di rispetto. Mi sono svegliato ed era realtà.

Si, ieri, mi sono svegliato e ho visto tutto quello che il sogno aveva di concreto. Ieri era il giorno di san Giovanni Leonardi, il 9 ottobre. Mi sono svegliato nel nostro seminario intitolando al santo in Nigeria e ho potuto lodare il Signore in un bellissimo  giardino che fino a pochi anni fa era la foresta. Poi sono andato a Amakoia, un villaggio poco distante, dove anche i primi seminaristi dell’Ordine avevano una casa d’affitto, sono stato ricevuto da centinaia di bambini  nella scuola “St. Leonardi Nursey & Primary School” che l’Ordine della Madre di Dio ha costruito con l’appoggio della  Conferenza Episcopale Italiana, con l’aiuto della EsseGiElle.  È stato fantastico vedere quei volti piccoli e occhi grandi che sprizzavano gioia. Lì, con il visitatore P. Lourdu, abbiamo fatto la prima Vista Canonica alla casa dell’assunta inaugurata il 15 agosto del 2014. Li c’erano due religiosi sacerdoti, un professo semplice, sette postulanti. Era una bella comunità.

Sono ritornato al seminario di San Giovanni Leonardi e il giorno dopo, il 10 ottobre, ho visto religiosi giovani e forti che hanno detto “Si” a Cristo con la Professione Solenne. Erano Eneji Emmanuel ed  Ajogo Michael che si sono consacrati a Dio seguendo l’esempio del loro fondatori. È stata una mattina indimenticabile. Piena di colori, di canti, di danze per dire a tutto il mondo che il sogno è realtà.

P. Francesco Petrillo
9-otto-15Durante la solenne concelebrazione eucaristica presieduta dal Signor Cardinale Giovanni Battista Re prefetto emerito della Congregazione per i Vescovi è stato ricordato il Fondatore dei Chierici Regolari della Madre di Dio nel giorno in cui la Chiesa ne celebra la memoria liturgica. “Luminosa figura di sacerdote che ci fa respirare quel rinnovamento spirituale che è anelito del popolo di Dio di ogni tempo”. Così il presule durante l’omelia della messa celebrata nel santuario parrocchiale di Santa Maria in Portico in Campitelli che venera le spoglie di San Giovanni Leonardi. “Egli seppe coinvolgere ed attira a sé gli altri per condurli a Cristo” e fondando l’Ordine della Madre di Dio intuì che con tale istituzione “Dio avesse più diritto nella società degli uomini”. Aiutato da grandi santi come Filippo Neri si spese perché “Dio fosse al centro della vita”: Era possibile percepire nel santo lucchese, i tratti di “una grande umanità animata dal desiderio per il bene”. L’affermazione della centralità di Cristo nella sua vita rivelò: “una spiritualità segnata da una profonda amicizia con lui che fece crescere anche negli altri”. Nel suo servizio di riformatore e visitatore apostolico: “cercò di migliorare le strutture della Chiesa, puntando sempre a migliorare il cuore umano”. Oggi ricordiamo il Leonardi in un tempo in cui la crisi morale e dei valori sembra prevalere, ma “al di sotto di questa crisi ce n’è una che è alla radice di tutte: la mancanza di fede in Dio.” In effetti: “gli uomini e le donne del nostro tempo non trovano più orientamento e devono guardare al cielo superando il loro egoismo”. Al termine della liturgia eucaristica animata dalla Cappella Musicale di Santa Maria in Campitelli diretta dal M° Di Betta, il Cardinale accompagnato dai sacerdoti celebranti e da un gruppo di farmacisti cattolici, ha reso omaggio alle reliquie del Santo.

10 ottobre 2015
SGL-“Amici in Cristo”. Così il Vescovo di Ivrea Aldo Edoardo Cerrato ha ricordato ai Chierici della Madre di Dio e ai seminaristi del Propaganda Fide, ciò che accomuna la vita di San Giovanni Leonardi e di San Filippo Neri. Il Vescovo Cerrato dell’Oratorio del santo fiorentino, di cui quest’anno ricorre il quinto centenario della nascita, ha celebrato i vespri del transito di San Giovanni Leonardi giovedì 8 ottobre nella Chiesa di Campitelli che ne conserva le reliquie. I due amici in Cristo hanno espresso la radicalità di una vita evangelica vissuta perché egli fosse al centro di tutto, cercato, amato servito. Al termine del Vespro animato dalla Cappella musicale di Santa Maria in Campitelli e aperta dalle note del “Salve Joannes legifer” del Gardella, i seminaristi del Collegio Urbano di Propaganda Fide accompagnati dal Rettore Mons. Vincenzo Viva, hanno condotto in processione una reliquia del Santo che ideò verso gli inizi del sec. XVII la celebre istituzione missionaria.

9 ottobre 2015
concentusL’evento spirituale è promosso dalla Cappella Musicale di Santa Maria in Campitelli in ambito dei festeggiamenti liturgici di San Giovanni Leonardi eseguito dalla Cappella Musicale di Santa Maria in Campitelli diretta dal M° Vincenzo di Betta. Esso si ispira ad una espressione che a detta del primo biografo del Santo, il Leonardi pronunciava spesso come giaculatoria e segno di singolare invocazione alla Madre di Dio: “Trahe me post te Mater sancta”. Sappiamo che il santo frequentò da giovane sacerdote l’Oratorio di San Filippo Neri ed ebbe a ricevere la personale amicizia del santo fiorentino, il quale volle che abitasse le sue stanze presso San Girolamo della Carità durante la sua permanenza romana. Così le parole del biografo: “Andò ad abitare in San Girolamo della Carità, accoltovi da San Filippo Neri, il quale egli elesse ancora per Confessore, et il Santo mostrò verso di lui così grande dimestichezza e confidenza che gli consegnò la chiave della sua propria camera”. Negli stessi anni lo spagnolo Tomàs Luis de Victoria ricevette gli ordini sacri in  San Girolamo ed entrò a far parte dell’Oratorio di San Filippo. E’ verisimile essendo che il Leonardi frequentava quella comunità negli stessi anni il Leonardi ed il celebre compositore filippino si siano conosciuti e che il motto ripetuto dal Leonardi abbia ispirato la Missa a 5 voci del De Victoria “Trahe me post te, virgo Maria”. Il testo si riferisce ad uno dei primi versetti del Cantico dei Cantici uno dei libri biblici più belli nel quale viene cantato l’amore di Dio per il suo popolo Israele e che la Chiesa nella successiva interpretazione ha visto l’immagine della Chiesa e di Maria. La Missa del De Victoria accompagnata da testi del Leonardi proclamati dalla voce narrante di Giulia Russo, è stata eseguita giovedì 7 ottobre 2015 presso l’altare di San Giovanni Leonardi nella Chiesa di Campitelli a Roma.

9 ottobre 2015
Venerdì, 09 Ottobre 2015 10:53

"Fissò lo sguardo su di lui e lo amò"

258Anche il brano evangelico di questa domenica, come quello di domenica scorsa, giorno di apertura del sinodo, sembra scritto appositamente per l’evento di grazia che la chiesa sta vivendo. Se infatti domenica scorsa la buona notizia era quella della volontà del Dio creatore sull’uomo e sulla donna uniti nell’alleanza della famiglia (cf. Mc 10,6-9), oggi il vangelo ci annuncia che, a causa del regno di Dio, la famiglia va relativizzata: se è vero che la via ordinaria della sequela di Cristo è il matrimonio, tuttavia “a causa di Gesù e del Vangelo” la famiglia può essere abbandonata (come è successo realmente e concretamente ai dodici discepoli) o può non essere scelta da quanti accolgono la chiamata a “farsi eunuchi per il regno dei cieli” (Mt 19,12). Di più, se nel vangelo di domenica scorsa Gesù, citando l’in-principio della Genesi, affermava: “L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna” (Mc 10,7; Gen 2,24), all’inizio della vicenda di Gesù con i suoi discepoli si legge un’affermazione significativamente parallela: “Giacomo e Giovanni lasciarono il loro padre Zebedeo … e andarono dietro a Gesù” (Mc 1,20). Lasciare i precedenti legami familiari per vivere l’avventura del matrimonio, lasciarli per vivere l’avventura del celibato alla sequela di Gesù…

Ora, è bene che un sinodo che nel suo Instrumentum laboris non contiene una parola sul celibato per il Regno la riceva dalle Scritture lette nella liturgia. Questo brano evangelico è talmente conosciuto, è stato così tante volte predicato e usato a fini vocazionali, che rischiamo di pensare di averlo compreso una volta per tutte e dunque, “conoscendolo già”, di poterlo leggere rapidamente. Cerchiamo invece, innanzitutto, di ascoltarlo bene, con cuore docile e aperto. L’episodio narrato da Marco, collocato sempre durante la salita di Gesù e dei suoi discepoli a Gerusalemme, ha come protagonista “un tale”, un uomo anonimo, certamente un giudeo, un uomo che condivide con molti l’ammirazione per il rabbi di Galilea. Con venerazione si presenta a Gesù e, inginocchiandosi davanti a lui (come davanti al Signore nella liturgia), lo chiama: “Maestro buono”. Gesù però reagisce a tale qualifica e ricorda che “buono” (agathós) si può dire solo di Dio, perché solo Dio è veramente la bontà, l’amore, la grazia (cf. Es 34,6-7).

Quest’uomo pone a Gesù una domanda significativa per la fede giudaica: “Che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”. Sì, c’è una salvezza, una beatitudine futura promessa da Dio a chi crede, a chi appartiene al suo popolo, ma concretamente, nella vita ordinaria, quotidiana, che cosa occorre fare? Domanda pertinente anche per noi, oggi, perché la fede nel Dio vivente non può essere solo adesione intellettuale, desiderio di lui, sentimento di amore, seppur profondo… Anche l’amore comandato da Dio, amore per lui, il Signore (“Amerai il Signore tuo Dio…”: Dt 6,5), deve significare un modo di vivere, un “fare”, un comportarsi secondo la sua volontà (cf. Gv 14,15; 1Gv 5,3). Non è sufficiente avere una fede ortodossa, puntuale, e non basta confessare Dio con le labbra, nel culto!

Per questo Gesù, da interprete acuto e fedele della Legge di Mosè, risponde citando le parole dell’alleanza, i comandamenti tratti dalle dieci parole, ma significativamente solo quelli che riguardano le relazioni con il prossimo: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso” (Es 20,13-16; Dt 5,17-20). Riassume poi i precetti in “non fare torto a nessuno” (Dt 24,14), e al vertice mette quello che nella lista è il primo in riferimento al prossimo: “Onora tuo padre e tua madre” (Es 20,12; Dt 5,16). Questo modo di rispondere di Gesù a un credente è significativo: egli afferma che la salvezza si gioca nei rapporti con gli altri, con il prossimo. Non gli dice come vivere il rapporto con Dio, né cosa credere o sperare: per la salvezza e la beatitudine futura tutto si decide sull’amore concreto vissuto qui e ora verso gli altri, verso i fratelli e le sorelle in umanità. Sì, “non fare torto a nessuno”, “amare il prossimo come se stesso” (cf. Mt 19,19; Lv 19,18) è ciò che è indispensabile per la salvezza!

Quello (solo secondo Matteo è “giovane”: Mt 19,20) allora ribatte: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”. Parole oggettivamente straordinarie: chi infatti potrebbe dire lo stesso di sé? Parole dunque pretenziose, prive della necessaria umiltà? Marco non ci permette di giudicare queste parole, ma forse sono proprio esse a spiegare l’esito dell’incontro con Gesù. Quest’ultimo, udita l’affermazione dell’altro, “fissò lo sguardo su di lui e lo amò” (egápesen autòn). Sì, Gesù lo ama, come se gli avesse fatto giungere un suo bacio, e in quel flusso di amore preveniente e gratuito gli dice: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!” (deûro akoloúthei moi). Non c’è vocazione, chiamata se non nell’amore: solo amando il Signore chiama, solo baciando Gesù chiede di seguirlo! Ma conosciamo l’esito: quest’uomo si rattrista e se ne va addolorato. Sì, perché quando si rifiuta l’amore, l’esito è la tristezza. Ciò che era determinante era l’amore di Gesù, non le sue parole, che potevano anche essere altre. Gesù lo ha amato, ed egli non ha accolto quell’amore: questa la causa della tristezza.

Allora Gesù rivela ai discepoli che, per accogliere l’amore, occorre non avere degli altri amori che seducono e alienano, come il denaro, la ricchezza, il potere. Chi possiede queste cose non sa discernere l’amore, che chiede accoglienza, perché è già sazio, autosufficiente, non ha bisogno di essere amato da un altro. Pietro allora interviene per ricordare che lui e gli altri hanno lasciato tutto per seguire Gesù: hanno lasciato la casa, la famiglia (madre, padre, fratelli e sorelle), i figli che avevano o ai quali avevano rinunciato… Forse Pietro mendicava un riconoscimento di Gesù per la loro rinuncia a ciò che è buono e santo come una famiglia, ma che per loro era una perdita, non un guadagno (cf. Fil 3,7), se paragonato allo “stare con Gesù” (cf. Mc 3,14). E Gesù, in risposta, gli dice: “Non c’è nessuno che abbia lasciato tutto questo a causa mia e del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà”.

Oggi si dimentica troppo facilmente anche nella chiesa (ma ci si crede ancora?) che Gesù può chiedere a “chi può fare spazio” (ho dynámenos choreîn choreîto: Mt 19,12) di rinunciare alla famiglia che aveva e a quella che avrebbe potuto crearsi. Il celibato per il Regno non può essere ridotto alla rinuncia all’esercizio sessuale, ma è molto di più: è una “non coniugazione” né psicologica né affettiva, è non avere più una famiglia umana ma vivere e sentire come sufficiente la famiglia dei fratelli e delle sorelle di Gesù. Come gli stesso ha annunciato: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? … Chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre” (Mc 3,33.35). Nella sequela di Gesù si può abbandonare la famiglia carnale per un nuova famiglia, si può vivere il celibato nella fecondità dell’amore di Cristo, dei suoi fratelli e delle sue sorelle. Stiamo attenti a non annacquare lo scandalo della sequela di Cristo, a non nascondere la rinuncia, che è determinante nel seguire Gesù. Abbandonare tutto può essere, per alcuni chiamati dal Signore, il loro “fare” in questo mondo: sempre nel servizio degli altri; sempre nell’amore per il prossimo, chiunque esso sia; sempre mendicando una salvezza che non può mai essere meritata, neanche vivendo le persecuzioni. Nella sequela di Gesù non ci sono primi o ultimi per diritto acquisito, ma solo destinatari dell’amore preveniente di Gesù e della sua misericordia.

Commento al Vangelo di ENZO BIANCHI 
Venerdì, 09 Ottobre 2015 10:38

Peregrinaggio della famiglia leonardina

caminadaTutte le parrocchie dal Cile se riuniranno il sábto 17 di ottobre a Quinta de Tilcoco per fare un peregrinaggio per la memoria del nostro santo e anche per comininciare l´anno preparario perche il 2016 l' OMD compie 70 anni di presenza a Cile.

 
Domenica, 27 Settembre 2015 15:40

Te Deum Ecumenico Festa nazionale

Quinta-Cile è uno dei pochi paesi al mondo che celebra un Te Deum in occasione della loro festa nazionale. Nella parrocchia di Quinta de Tilcoco, abbiamo celebrato insieme alla Madonna del Carmine questa festa.

Ci siamo riuniti per ringraziare e chiedere al nostro Signore, la sua  protezione, in questo momento difficile davanti ai terremoti e tzunami, e dare l'abbondanza ai nostri campi, la nostra cittá e anche a nostra Ordine. 
Domenica, 27 Settembre 2015 15:16

Il Signore conosce i suoi

354Il testo evangelico di questa domenica si presenta composito, riportando una serie di parole di Gesù appartenenti a contesti diversi ed eterogenei, eppure legate da alcune espressioni ricorrenti: “nel tuo/mio nome”, “scandalizzare”. Mi soffermerò dunque unicamente sull’episodio dell’esorcista che compie azioni di liberazione pur non seguendo Gesù.

Gesù sta continuando il cammino verso Gerusalemme insieme ai suoi discepoli, ma il clima comunitario non è pacifico. Egli fa annunci della sua passione e i discepoli non capiscono (cf. Mt 9,32) o si ribellano, come Pietro (cf. Mc 8,31-33); quando, in assenza di Gesù, viene chiesto ai discepoli di guarire un ragazzo epilettico, forse giudicato posseduto da uno spirito impuro, essi si mostrano incapaci di liberarlo dalla malattia (cf. Mc 9,14-29); infine, tutti i Dodici si mettono a discutere su “chi tra loro fosse più grande” (Mc 9,34). Sì, ormai tra Gesù e la sua comunità vi è distanza, incomprensione. Se il passo di Gesù è sempre convinto, con uno scopo preciso che gli richiede una radicale obbedienza, quello dei discepoli è invece incerto e sbandato. Nel vangelo secondo Marco tutto il viaggio verso la città santa sarà caratterizzato da questa tensione tra Gesù e i suoi, dall’incomprensione da parte di tutti, nessuno escluso.

Ed ecco, puntualmente, un nuovo episodio che attesta tale stato di cose: Giovanni, il fratello di Giacomo, uno dei primi quattro chiamati (cf. Mc 1,16-20), uno dei discepoli più intimi di Gesù, testimone privilegiato della sua trasfigurazione (cf. Mc 9,2), vede un tale che scaccia demoni, compie azioni di liberazione sui malati nel nome di Gesù, pur non facendo parte della comunità, dunque non seguendo Gesù con gli altri discepoli. Allora si reca da Gesù e dichiara risolutamente: “Lo abbiamo visto fare ciò e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva”. Cosa c’è in questa reazione di Giovanni? Certamente uno zelo mal riposto, ma uno zelo che rivela un amore per Gesù, una gelosia nei suoi confronti: se uno usa il nome di Gesù, dovrebbe seguirlo e dunque fare corpo con la sua comunità… Mescolato a questo sentimento vi è però anche uno spirito di pretesa, il pensiero che solo i Dodici siano autorizzati a compiere gesti di liberazione nel nome di Gesù; c’è un senso di appartenenza che esclude la possibilità del bene per chi è fuori dal gruppo comunitario; c’è la volontà di controllare il bene che viene fatto, affinché sia imputato all’istituzione alla quale si appartiene.

Sono qui ritratte le nostre patologie ecclesiali, che a volte emergono fino ad avvelenare il clima nella chiesa, fino a creare al suo interno divisioni e opposizioni, fino a fare della chiesa una cittadella che si erge contro il mondo, contro gli altri uomini e donne, ritenuti tutti nello spazio della tenebra. Dobbiamo confessarlo con franchezza: negli ultimi trent’anni il clima della chiesa è stato avvelenato in questo modo e tale malattia non è ancora stata vinta. Vi sono movimenti ecclesiali che si ergono a giudici degli altri, che si ritengono una chiesa migliore di quella degli altri. Vi sono cristiani che, con certezze granitiche, giudicano gli altri fuori della tradizione o della chiesa cattolica e aspettano di poter ascoltare da parte dell’autorità ecclesiastica condanne verso quanti non somigliano a loro o non fanno parte del loro movimento, che cede a tentazioni settarie. Non possiamo negare che molti hanno dovuto soffrire e sentirsi figli bastardi, poco amati da una chiesa che privilegiava altri in quanto militanti, facili e ben disposti a essere ingaggiati in battaglie contro il mondo.

Guai alla comunità cristiana che pensa di essere chiesa autentica, guai all’autoreferenzialità e all’autarchia spirituale, atteggiamenti di chi pensa di non avere bisogno delle altre membra, perché si crede lui il corpo di Cristo (cf. 1Cor 12,12-27). Cristo è Signore, è il Signore di tutta la chiesa e lui solo conosce i suoi (cf. 2Tm 2,19): non spetta dunque ai suoi, o ai pretesi suoi, giudicare altri come zizzania, fino a tentare di estirparli (cf. Mt 13,24-30). Cristo trascende le frontiere di ogni comunità cristiana e può operare il bene in molte forme attraverso la potenza del suo Spirito santo, che “soffia dove vuole” (Gv 3,8). Nella chiesa, purtroppo, si soffre di questa malattia dell’“esclusivismo” e facilmente non si riconosce all’altro la capacità di compiere il bene, di operare per la liberazione dell’uomo dai mali che lo opprimono.

Papa Francesco in questi pochi anni di pontificato è tornato più volte a denunciare questi mali ecclesiastici, chiedendo soprattutto ai cristiani appartenenti ai movimenti di imparare a camminare insieme agli altri cristiani, non separati, non al di sopra, non con itinerari in opposizione. La diversità è ricchezza, è multiforme grazia dello Spirito che rende policroma la chiesa (cf. Ef 3,10), la sposa del Signore, la rende più bella. Se uno fa il bene in nome di Cristo, questo bene va innanzitutto riconosciuto, non negato, e poi occorre avere fiducia in lui: se compie il bene in nome di Gesù, potrà forse subito dopo parlare male di lui? “Chi non è contro di noi è per noi”, chiosa lo stesso Gesù. Ovvero, egli esorta ad accettare di non essere i soli a compiere il bene, ad accettare che altri, diversi da noi, che neppure conosciamo, possano compiere azioni segnate dall’amore. Si tenga anche presente che vi sono molti che sembrano seguire Gesù, profetizzare, scacciare demoni e compiere miracoli nel suo nome (cf. Mt 7,22), che magari hanno anche una pratica di ascolto delle sue parole e una pratica sacramentale eucaristica (“Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza”: Lc 13,26). Tutti costoro, però, risulteranno estranei al Signore, che dirà loro: “Non vi ho mai conosciuti: allontanatevi da me, voi che avete operato il male!” (Mt 7,23; cf. Lc 13,27).

La vera domanda che dobbiamo porci non è dunque: “Chi è contro di me, contro di noi?”, bensì: “Sono io, siamo noi di Cristo?”. Scrive l’Apostolo Paolo: “Tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” (1Cor 3,22-23). Ovvero: se non siamo di Cristo, se non abbiamo i suoi “modi” (cf. Didaché 11,8) e il suo pensiero (cf. 1Cor 2,16), non siamo nulla: non abbiamo sale in noi stessi, ma siamo come il sale insipido (cf. Mc 9,50), che “serve solo ad essere gettato via e calpestato” (Mt 5,13). La nostra responsabilità è quella di lottare ogni giorno contro noi stessi, non contro presunti nemici esterni, perché niente e nessuno può impedirci di vivere il Vangelo, se non noi!

Commento al Vangelo di ENZO BIANCHI 
Sabato, 19 Settembre 2015 09:54

"Se uno vuole essere il primo..."

353La confessione di Pietro che proclamava Gesù quale Messia (cf. Mc 8,29) rappresenta nel vangelo secondo Marco una svolta nel tempo della predicazione di Gesù. A partire da quell’evento, Gesù cerca di raggiungere Gerusalemme discendendo dalle pendici dell’Hermon e passando per Cafarnao in Galilea.

Questa è l’unica salita di Gesù verso la città santa testimoniata da Marco, e quindi dagli altri sinottici, una salita durante la quale Gesù intensifica l’insegnamento rivolto ai suoi discepoli, alla sua comunità itinerante, continuando ad annunciare loro la necessitas della sua passione e morte. Come già aveva detto all’inizio del viaggio, a Cesarea di Filippo (cf. Mc 8,31), qui ribadisce: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà”; e lo farà ancora poco dopo (cf. Mc 10,33-34). Gesù sta per essere consegnato (paradídomi), verbo forte che indica un essere dato in balìa, in potere di qualcuno. Così avverrà, e Gesù sarà sempre un soggetto passivo di tale azione: consegnato da Giuda ai sacerdoti (cf. Mc 14,10), dai sacerdoti a Pilato (cf. Mc 15,1), consegnato da Pilato perché fosse crocifisso (cf. Mc 15,15).

Il passivo usato negli annunci della passione e la medesima necessitas espressa in tutti e tre i casi indica tuttavia che, sebbene questa consegna avvenga per mano di uomini responsabili delle loro azioni, essa però non accade come un semplice accidente (“a Gesù è andata male…”), bensì secondo ciò che è conforme alla volontà di Dio. Ovvero, che un giusto non si vendichi, non si sottragga a ciò che gli uomini vogliono e possono fare nella loro malvagità: rigettare, odiare, perseguitare, mettere a morte chi è giusto, perché gli ingiusti non lo sopportano (cf. Sap 1,16-2,20). Necessitas umana, dunque, innanzitutto: in un mondo di ingiusti, il giusto non può che patire ed essere condannato. È stato sempre così, in ogni tempo e luogo, e ancora oggi è così… Dio non vuole la morte di Gesù, ma la sua volontà è che il giusto resti tale, fino a essere consegnato alla morte, continuando ad “amare fino alla fine” (cf. Gv 13,1). Il giusto mai e poi mai consegna un altro alla morte ma, piuttosto di compiere il male, si lascia consegnare: ecco la necessitas divina della passione di Gesù.

Come Pietro al primo annuncio (cf. Mc 8,32-33), qui tutti i discepoli si rifiutano di comprendere le parole di Gesù e, chiusi nella loro cecità, neppure lo interrogano. Ma ecco che, giunti nella loro casa di Cafarnao, Gesù e i suoi sostano per riposarsi. In quell’intimità Gesù domanda loro: “Di che cosa stavate discutendo per la strada?”. La risposta è un silenzio pieno di vergogna. I discepoli, infatti, sanno di che cosa hanno parlato, sanno che in quella discussione vi era stato in loro un desiderio e un atteggiamento peccaminoso: ognuno era stato tentato – e forse lo aveva anche espresso a parole – di aspirare e di pensarsi al primo posto nella comunità. Avevano rivaleggiato gli uni con gli altri, avanzando pretese di riconoscimento e di amore. Gesù allora li chiama a sé, chiama soprattutto i Dodici, quelli che dovranno essere i primi responsabili della chiesa, e compie un gesto. Prende un piccolo (paidíon), un povero, uno che non conta nulla, lo mette al centro, e abbracciandolo teneramente, afferma: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”. Un bambino, un piccolo, un povero, un escluso è posto in mezzo al cerchio di un’assemblea di primi, di uomini destinati ad avere il primo posto nella comunità, per insegnare loro che se uno vuole il primo posto, quello di chi governa, deve farsi ultimo e servo di tutti.

Stiamo attenti alla radicalità espressa da Gesù nel vangelo secondo Marco. Se c’è qualcuno che pensa di poter giungere al primo posto della comunità, allora per lui è semplice: si faccia ultimo, servo di tutti, e si troverà a essere al primo posto della comunità. Non ci sono qui dei primi designati ai quali Gesù chiede di farsi ultimi, servi, ma egli traccia il cammino opposto: chi si fa ultimo e servo di tutti si troverà ad avere il primo posto, a essere il primo dei fratelli. Sì, un giorno nella chiesa si dovrà scegliere che deve stare al primo posto, chi deve governare: si tratterà solo di riconoscere come primo colui che serve tutti, colui che sa anche stare all’ultimo posto. Gesù confermerà e anzi amplierà questo stesso annuncio poco più avanti: “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servo, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti” (Mc 10,42-44).

E invece sappiamo cosa accadrà in ogni comunità cristiana: si sceglierà il più brillante, il più visibile, quello che s’impone da sé, magari il più munito intellettualmente e il più forte, addirittura il prepotente, lo si acclamerà primo e poi gli si faranno gli auguri di essere ultimo e servo di tutti. Povera storia delle comunità cristiane, chiese o monasteri… Non a caso gli stessi vangeli successivi prenderanno atto che le cose stanno così, e allora Luca dovrà esprimere in altro modo le parole di Gesù: “Chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve” (Lc 22,26). Ma se la parola di Gesù fosse realizzata secondo il tenore del vangelo più antico, allora saremmo sempre fedeli al pensiero e alla volontà di Gesù!

Al termine di questo brano evangelico soprattutto chi è pastore nella comunità (ad esempio, per ora, anch’io) si domandi se, tenendo il primo posto, essendo chi presiede, il più grande, sa anche tenere l’ultimo posto e sa essere servo dei fratelli e delle sorelle, senza sogni o tentativi di potere, senza ricerca di successo per sé, senza organizzare il consenso attorno a sé e senza essere prepotente con gli altri. Da questo dipende la verità del suo servizio, che potrà svolgere più o meno bene, ma senza desiderio di potere sugli altri o, peggio ancora, di strumentalizzare gli altri. Nessuno può essere “pastore buono” come Gesù (Gv 10,11.14), e le colpe dei pastori della chiesa possono essere molte: ma ciò che minaccia il servizioè il non essere servi degli altri, il fare da padrone sugli altri.

Commento al Vangelo di ENZO BIANCHI 
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