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Sabato, 22 Agosto 2015 18:57

"Volete andarvene anche voi?"

351Siamo giunti alla fine del capitolo sesto del vangelo secondo Giovanni e in questi ultimi versetti ci viene posto davanti tutto l’urto, lo scandalo che le parole di Gesù hanno causato non solo nelle folle dei giudei ma anche tra i suoi discepoli.

Questa crisi nelle relazioni tra Gesù e la sua comunità è testimoniata da tutti e quattro i vangeli al momento di una parola decisiva di Pietro che confessava, anche se non pienamente, l’identità di Gesù come Messia (cf. Mc 8,29 e par.) e come inviato dal Padre quale Figlio. Perché questa crisi? Perché le parole di Gesù a volte erano dure e urtavano anche gli orecchi di discepoli che lo seguivano con devozione ma non riuscivano ad accettare, ritenendola una pretesa, che Gesù fosse “disceso dal cielo” e che nella carne di un corpo umano fragile e mortale raccontasse il Dio vivente. Nel suo discorso Gesù aveva detto più volte: “Io sono il pane vivente disceso dal cielo” (Gv 6,51; cf. 6,33.38.41-42.58), ma proprio quelli che lo avevano acclamato come “il grande profeta che viene nel mondo” (cf. Gv 6,14) e che avevano voluto farlo re (cf. Gv 6,15), di fronte a queste parole si sentono scandalizzati nella loro fede. Profeta sì, ma disceso dal cielo e corpo consegnato (verbo paradídomi) fino alla morte violenta, corpo da mangiare e sangue da bere (cf. Gv 6,51-56), questo proprio no: sono parole che suonano come una pretesa insopportabile, impossibili da ascoltare!

Gesù, che conosce queste mormorazioni dei discepoli contro di sé, a questo punto non ha paura di dire tutta la verità, a costo di causare una divisione tra i suoi e un abbandono della sua sequela. Potremmo dire che “attacca” i mormoratori: “Questo vi scandalizza? E quando vedrete il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima?”. Cioè, “quando sarete messi di fronte alla realtà del Figlio dell’uomo che, attraverso l’innalzamento sulla croce, sale a Dio dal quale è venuto (cf. Gv 3,14; 8,28; 12,32); quando sarà manifestata la mia piena identità di colui che è disceso da Dio e che a Dio è risalito nella sua umanità assunta come condizione carnale, mortale, ‘simile alla carne del peccato’ (Rm 8,3), allora lo scandalo sarà più grande!”. Gesù fa questo attacco soffrendo tutto il peso dell’incredulità, della non comprensione da parte di quelli che da anni erano coinvolti con lui e assidui alla sua parola. Com’è possibile questo loro comportamento?

Ecco perché egli non può fare altro che constatare che in realtà nessuno può venire a lui se il Padre non lo attira, non glielo concede. Occorre questo dono che non è dato arbitrariamente da Dio ma va cercato, va accolto come dono che non richiede alcun merito da parte di chi lo riceve. Ma anche questo scandalizza le persone religiose, che pretendono sempre che Dio faccia doni non solo secondo i loro desideri ma anche secondo quanto hanno meritato e conseguito. Ciò che di Gesù è scandaloso è il suo consegnarsi in una carne fragile e in un corpo mortale a carni fragili e corpi mortali, cioè gli umani. Com’è possibile che Dio si consegni in un uomo, “il figlio di Giuseppe” (Gv 6,42), creatura che può essere consegnata, tradita, data in mano ai peccatori, come farà proprio uno dei Dodici, Giuda, un servo del diavolo (cf. Gv 6.70)? Qui la fede inciampa nel dover accogliere l’immagine di un “Dio al contrario”, di un “inviato divino, un Messia al contrario”, che è fragile, povero, debole e del quale gli uomini possono fare ciò che vogliono… È lo scandalo dell’umanizzazione di Dio, patito lungo i scoli da molti cristiani, da molte chiese, dall’Islam stesso, e ancora oggi dagli uomini religiosi che accusano di non credere in Dio chi accoglie dal Vangelo il messaggio scandaloso di un Dio fattosi realmente, veramente uomo, carne mortale, in Gesù di Nazaret. La fede cristiana facilmente diventa docetismo, perché preferisce, come tutte le religioni, un Dio sempre e solo onnipotente, un Dio che non può diventare umano.

Per questo Gesù incalza: “Volete andarvene anche voi?”, rivolgendosi a quelli che sono rimasti, in realtà pochi. Gesù non teme, anche se soffre, di restare solo, perché ha fede nella parola che il Padre gli ha rivolto, nella promessa di Dio che non verrà meno. Possono venire meno gli altri, ma Dio resta fedele! A volte mi chiedo perché nella chiesa non si abbia il coraggio di far risuonare ancora oggi queste parole di Gesù, perché si insegni sempre il successo, si guardi al numero dei credenti, si compiano sforzi mirando alla grandezza della comunità cristiana e non alla qualità della fede. Siamo tutti genti di poca fede! La crisi invece, che è sempre fallimento, la allontaniamo il più possibile, la dissimuliamo, la tacciamo, affinché non appaia che a volte perdiamo, cadiamo, falliamo anche nelle nostre imprese ecclesiali e comunitarie più conformi alla volontà del Signore. D’altronde, Gesù userà l’immagine della potatura della vite, per dire che vi sono tralci che vanno potati (cf. Gv 15,2): determinante, però, è che la potatura la compia il Padre, non noi e neppure chi nella comunità cristiana presiede o la lavora come un operaio. Di per sé il Vangelo ha la forza di attrarre e di lasciar cadere: basta che sia annunciato nella sua verità e con franchezza, senza essere edulcorato. Sì, il Vangelo è la Parola di vita eterna, come Pietro risponde a Gesù, confessando che la fede della chiesa è fede nel “Santo di Dio”, cioè fede che in Gesù c’è laShekinah, la Presenza di Dio. dov’è Dio i questo mondo? Non nel Santo del tempio di Gerusalemme, ma nell’umanità fatta carne e sangue di Gesù, il Figlio.

Così termina il discorso di Gesù sul pane della vita. Alla fine probabilmente sono più le cose che non capiamo, le realtà che non riusciamo a percepire, rispetto a ciò che abbiamo compreso. Anche noi siamo forse urtati da queste parole, magari non intellettualmente, ma nell’accoglierle fino a viverle. Se però, come i Dodici, non ce andiamo, ma restiamo con le nostre insufficienze presso Gesù e tentiamo di essergli discepoli, ciò è sufficiente per accogliere il dono gratuito e non rifiutarlo o misconoscerlo: Gesù uomo come noi, nel quale “abita corporalmente tutta la pienezza della vita di Dio” (Col 2,9), Dio stesso.

Commento al Vangelo di ENZO BIANCHI 
cile-GV-2015-okFra il 14 e 15 di Agosto i Giovanni dell’ Ordine in Cile si hanno ricontrato e hanno vissuto la III Giornata Vocazionale, che la Pastorale Giovanile e Vocazionale Leonardina ha svolto a Quinta di Tilcoco, nella parrocchia Nostra Signora della Asunzione. I religiosi hanno svolto diversi temi sul chiamato che Dio ci fa ad essere beati in diversi modi di vita: laicale, matriminiale, religioso e sacerdotale.

Abbiamo insieme a tutti loro fatto adorazione e veglia per la Solennitá della Vergine Assunta e il giorno 15 loro sono stati testimoni della rinnovazione dei voti dei padri de dei religiosi.

É stata una giornata intensa, gioiosa e piena dei momenti per il discernimento. La prossima giornata non sara fra uomini e donne, se non divisa su i progietti di vita che vogliono discernere. 
350Questa pagina del vangelo secondo Giovanni è tra le più scandalose di tutti i vangeli, può addirittura risultare ripugnante a chi non sta nello spazio “dentro” (éso), lo spazio dell’intimità con il Signore. Chi l’ha scritta ha faticato per far comprendere ciò che doveva affermare, di fronte a una fede gnostica che non accettava l’umanità, la carne umana nella sua debolezza quale luogo in cui incontrare Dio. Eppure, secondo il quarto vangelo, Dio ha scelto che la sua manifestazione definitiva, la sua rivelazione decisiva fosse l’umanità come carne debole di Gesù (cf. Gv 1,14.18), un galileo che andava verso la morte. Tentiamo dunque con molta umiltà di leggere questa pagina.

Gesù aveva detto: “Io sono il pane vivente, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. Questo annuncio appariva una pretesa intollerabile, un’affermazione irricevibile e, come tale, aveva suscitato mormorazione e discussione (cf. Gv 6,41-42). Qui nasce un’aspra discussione, una vera e propria battaglia verbale tra gli ascoltatori di Gesù: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”. Ed egli risponde loro con espressioni ancora più scandalose, rendendo il suo annuncio più duro e urtante, in modo da togliere ogni possibilità di comprendere le sue parole in modo semplicemente parabolico, in modo intellettuale, raffinato ma gnostico: “Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete la vita eterna”.

Era già uno scandalo pensare di poter mangiare la carne del Figlio dell’uomo, ma bere il sangue è un’azione gravemente peccaminosa, vietata dalla Legge e dunque ripugnante per i credenti nell’alleanza sancita da Mosè. Su questo non c’erano dubbi. Nella Torah, infatti, sta scritto: “Ogni uomo, figlio di Israele o straniero, che mangi qualsiasi tipo di sangue, contro di lui, che ha mangiato il sangue, io volgerò il mio volto e lo eliminerò dal suo popolo. Poiché la vita (nephesh) della carne è nel sangue” (Lv 17,10-11). L’ebreo sapeva che l’umanità fino ai giorni di Noè non si era nutrita della carne di animali ma unicamente di vegetali e che solo nell’economia dopo il diluvio Dio aveva permesso e tollerato le carni animali come nutrimento, ma a una precisa condizione: “Soltanto non mangerete la carne con la sua vita (nephesh), cioè con il suo sangue” (Gen 9,4). Questo comando, che indica un rispetto della vita, rappresentata dal sangue, era talmente importante che gli apostoli lo manterranno anche per i cristiani provenienti dalle genti (cf. At 15,20.29; 21,25).

Eppure Gesù annuncia che per avere parte alla vita eterna, alla vita di Dio, per conoscere la salvezza, è necessario mangiare – o meglio “masticare”, stando al verbo greco utilizzato (trógo) – la carne del Figlio dell’uomo e bere il suo sangue? Perché questo realismo nelle parole di Gesù secondo il quarto vangelo, parole che non risuonano né negli altri vangeli né nel resto del Nuovo Testamento? Perché questo linguaggio proprio nel vangelo che non ricorda l’istituzione eucaristica, ma la sostituisce con il racconto della lavanda dei piedi (cf. Gv 13,1-17)? Certamente l’autore di questo racconto si serve di un linguaggio che vuole affermare come la partecipazione al pane e al calice di Gesù Cristo sia partecipazione al suo corpo e al suo sangue. Ma a mio avviso vuole andare più in profondità nella comprensione dell’eucaristia.

Ciò che vuole farci comprendere è che l’incarnazione, cioè l’umanizzazione di Dio, va accolta seriamente, senza riserve e senza pensieri che rispondono più al bisogno religioso dell’umanità che all’azione di Dio. La verità è che Dio si è fatto uomo in Gesù affinché lo cercassimo e lo trovassimo, per quanto ci è possibile, nella condizione umana. Dio ha voluto condividere con noi proprio la nostra umanità, la nostra stessa carne, perché noi potessimo realmente conoscere il suo amore, non come qualcosa da credere, ma come qualcosa che comprendiamo e sperimentiamo attraverso e nella nostra carne. Gesù è questa carne che possiamo incontrare nella nostra carne, è questo corpo che possiamo incontrare solo nella nostra corporeità. Perché noi potessimo partecipare alla vita di Dio – “diventare Dio”, come si esprimevano gli antichi padri della chiesa d’oriente – era necessario che Dio diventasse uomo e che carne e carne, corpo e corpo si incontrassero realmente. L’amore espresso solo a parole, anche nella rivelazione non era sufficiente: occorreva una carne umana che raccontasse (exeghésato: Gv 1,18) Dio, una carne umana che, amando la nostra umanità, ci narrasse l’amore di Dio, o meglio il “Dio” che “è amore” (1Gv 4,8.16). Questa nostra carne, che ci dice la nostra debolezza, la nostra fragilità, la nostra morte, questa carne che a volte pensiamo di negare o dimenticare in favore di una “vita spirituale”, per poter incontrare Dio, proprio questa carne è stata assunta da Dio e non è un ostacolo alla comunione con lui, ma anzi è il luogo ordinario dell’incontro con Dio.

Le parole eucaristiche di Gesù, in questo sesto capitolo di Giovanni, in profondità ci dicono che incarnazione di Dio, resurrezione della carne ed eucaristia esprimono insieme il mistero della nostra salvezza. Nella nostra povera carne, nel “corpo di miseria” (Fil 3,21) che noi siamo, proprio lì noi incontriamo Dio, perché in Gesù “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9). Carne da masticare e sangue da bere sono la condizione in cui Gesù si consegna a noi, in cui Dio si dà a noi, raggiungendoci là dove siamo e non chiedendo a noi di salire alla sua condizione divina, azione per noi impossibile e solo frutti di un orgoglio religioso malato. Entrando in noi, la carne e il sangue di Cristo ci trasformano, per partecipazione in carne e sangue di Cristo, producendo ciò che a noi è impossibile: diventare il Figlio di Dio in Cristo stesso, l’Unigenito amato dall’amante, il Padre, con un amore infinito, lo Spirito santo. Chi mangia la carne e beve il sangue di Cristo conoscerà la resurrezione, vivrà per sempre, in una salda comunione con Cristo per la quale rimane, dimora (verbo méno) in Cristo, così come Cristo rimane, dimora in lui: corpo nel Corpo e Corpo nel corpo!

Lo stesso Giovanni nel prologo della sua Prima lettera, parlando dell’esperienza di Gesù da lui fatta, scrive: “Ciò che noi abbiamo ascoltato, visto e toccato del Verbo della vita…” (cf. 1Gv 1,1), cioè di Gesù. E in questa pagina del vangelo è come se arrivasse a dire: “Ciò che abbiamo mangiato, gustato di Gesù”, attraverso l’eucaristia, è la nostra vita!
349La definizione del dogma è avvenuta nel 1950 per opera di Pio XII. Ignoriamo se, come e quando avvenne la morte di Maria, festeggiata assai presto come «dormitio». E’ una solennità che, corrispondendo al natalis(morte) degli altri santi, è considerata la festa principale della Vergine. Il 15 agosto ricorda con probabilità la dedicazione di una grande chiesa a Maria in Gerusalemme.

La Chiesa celebra oggi in Maria il compimento dei Mistero pasquale. Essendo Maria la «piena di grazia», senza nessuna ombra di peccato, il Padre l’ha voluta associare alla risurrezione di Gesù.

Le letture della messa presentano in modo molto concreto i valori dell’assunzione di Maria, il posto che ha nel piano della salvezza, il suo messaggio all’umanità.
Maria è la vera «arca dell’alleanza», è la «donna vestita di sole» immagine della Chiesa (prima lettura). Come l’arca costruita da Mosè stava nel tempio perché era «segno e strumento» dell’alleanza di Dio col suo popolo, così Maria è in cielo nella sua integrità umana, perché «segno e strumento» della nuova alleanza. L’arca conteneva la Legge e da essa Dio rispondeva alle richieste del popolo. Maria ci offre Gesù, il proclamatore della legge dell’amore, il realizzatore della nuova alleanza di salvezza: in lui il Padre ci parla e ci ascolta. Maria è figura e primizia della Chiesa, madre del Cristo e degli uomini che essa ha generato a Dio nel dolore sotto la croce dei Figlio; pertanto è preannuncio della salvezza totale che si realizzerà nel regno di Dio.
Ciò avverrà ad opera di Cristo risorto (seconda lettura), modello e realizzatore della risurrezione finale, comunicata prima che ad altri a Maria, per la sua divina maternità. L’Immacolata ha preannunciato il fine della redenzione, che è di condurre gli uomini ad una integrale innocenza;l’Assunta è preannuncio del traguardo finale della redenzione: la glorificazione dell’umanità in Cristo. Maria richiama oggi i cristiani a sentirsi inseriti nella storia della salvezza e destinati ad essere conformati a Cristo, per opera dello Spirito, nella casa del Padre. Per questo, il Concilio dice che l’Assunta è data agli uomini come «segno di sicura speranza e di consolazione» (LG 68 e prefazio).

«Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente»
Nel «Magnificat» (vangelo) Maria ci comunica il suo messaggio. Essa proclama che Dio ha compiuto un triplice rovesciamento di false situazioni umane, per restaurare l’umanità nella salvezza. Nel campo religioso Dio travolge le autosufficienze umane: confonde i piani di quelli che nutrono pensieri di superbia, si drizzano contro Dio e opprimono gli altri.
Nel campo politico Dio capovolge gli ingiustificabili dislivelli umani: abbatte i potenti dai troni e innalza gli umili; non vuole coloro che spadroneggiano i popoli ma coloro che li servono per promuovere il bene delle persone e della società senza discriminazioni razziali o culturali o politiche.
Nei campo sociale Dio sconvolge l’intoccabile classismo stabilito sull’oro e sui mezzi di potere: colma di beni i bisognosi e rimanda a mani vuote i ricchi, per instaurare una vera fraternità nella società e fra i popoli, perché tutti sono figli di Dio.
Così le feste dell’immacolata e dell’Assunta ci richiamano da un capo all’altro tutta la storia della salvezza: quella che si compie oggi per noi, e per la quale preghiamo Maria nostra madre di condurci sino al compimento finale.

Maria, «primizia e immagine della Chiesa»
Maria, nell’Assunzione, è la creatura che ha raggiunto la pienezza della salvezza, fino alla trasfigurazione dei corpo. E’ la donna vestita di sole e coronata di dodici stelle. E’ la madre che ci aspetta e ci sollecita a camminare verso il regno di Dio. La Madre del Signore è l’immagine della Chiesa: luminosa garanzia che il suo destino di salvezza è assicurato perché come in lei, così in tutti noi lo Spirito del Risorto attuerà pienamente la sua missione; ella è già quello che noi saremo.
A molti dà fastidio sentir parlare di «salvezza delle anime». Sembra che la vita con i colori, i sapori, i contorni che la rendono attraente debba sparire: sembra che il corpo non serva a nulla. Hanno ragione perché non è così. Maria, assunta in cielo, è garanzia che tutto l’uomo sarà salvato, che i corpi risorgeranno. Nell’Eucaristia, pane di immortalità, si ritrovano gli alimenti base dell’uomo, frutti della terra, della vite e dei lavoro dell’uomo: è proprio l’Eucaristia la garanzia quotidiana che la salvezza raggiunge ogni uomo nella sua situazione concreta, per strapparlo alla morte, la nemica più terribile dei progresso.
 
 
AssunzioneIl gesto della rinnovazione dei voti in occasione dell'Assunzione della Beata Vergine Maria Si ripete in ogni comunità dell'Ordine della Madre di Dio.  Quest'anno con speciale attenzione nell'anno dedicato alla Vita Consacrata insieme con la Chiesa universale si celebra la festa dell'Assunta. 

In cui il nostro P. Generale fa gli Auguri a tutti religiosi dell'Ordine della Madre di Dio per la rinnovazione dei Voti, e presenta la lettera della visita canonica per 2015 - 2016.

14 Agosto 2015

  pdf  Le coordinate della Visita Fraterna
Sabato, 08 Agosto 2015 19:03

Gesù, la vita eterna

348L’ordo delle letture bibliche dell’annata liturgica B ha previsto che, giunti nella lettura cursiva di Marco all’evento della moltiplicazione dei pani (cf. Mc 6,35-44), si interrompa la lettura del vangelo più antico e la si sostituisca con la lettura dello stesso episodio narrato nel quarto vangelo. Per cinque domeniche si legge dunque il capitolo 6 di Giovanni, un testo che richiede una breve introduzione generale.
In verità questo capitolo, tutto incentrato sul tema del “pane di vita”, che mai appare altrove, appare piuttosto isolato nello svolgimento del racconto giovanneo. Con buona probabilità, si tratta di un brano aggiunto più tardi per dare alla chiesa giovannea una catechesi sull’eucaristia, il cui racconto è mancante nel quarto vangelo, sostituito da quello della lavanda dei piedi (cf. Gv 13,1-17). Se questa ipotesi fosse vera, questo capitolo diventerebbe ancora più importante, perché proprio trattando il tema dell’eucaristia si conclude con la confessione dell’identità di Gesù: per i giudei è il figlio di Giuseppe, semplicemente un uomo della Galilea (cf. Gv 6,42), mentre Gesù dichiara di essere il Figlio di Dio, colui che è suo Padre (cf. Gv 6,40); e ciò è confermato da Pietro e dagli altri discepoli, che riconoscono in lui “il Santo di Dio” (Gv 6,69). 
Gesù aveva detto: “Io sono il pane disceso dal cielo”, ma queste parole avevano destato la mormorazione degli ascoltatori, nel quarto vangelo definiti “i giudei”, per indicare coloro che erano legati all’ideologia giudaica ed erano strettamente dipendenti dai capi religiosi, i nemici di Gesù.
La loro domanda è legittima, ma è espressa con diffidenza e rigetto nei confronti di Gesù: “Questo Gesù di Nazaret, che dice di essere il pane disceso dal cielo, che afferma una tale pretesa sulla sua identità, non è forse il figlio di un falegname, Giuseppe? Suo padre e sua madre sono conosciuti, vivono a Nazaret, dove anch’egli ha vissuto. Come può dunque dire di essere disceso dal cielo, cioè da Dio, e di essere pane, dono di Dio, come lo era stata la manna?”. Anche noi, d’altronde, seguendo la nostra ragione umana e guardando a lui, questo ebreo marginale, restiamo perplessi: è davvero un uomo disceso dal cielo?
Gesù reagisce dicendo ai suoi interlocutori: “Non mormorate, non rifugiatevi in questa contestazione sorda!”. In verità queste parole possono essere comprese non con la ragione umana, non fidandosi delle proprie facoltà di cui giustamente ci si fida per giudicare le realtà di questo mondo, ma solo attraverso un dono di Dio, grazie a una sua azione che apre la nostra mente e ci attira verso Gesù, rendendoci destinatari della resurrezione nell’ultimo giorno. E Gesù continua ricordando loro una profezia: “Verrà l’ora in cui gli umani saranno tutti istruiti da Dio stesso (cf. Is 54,13; Ger 31,33-34)”. Allora il Signore Dio, il Padre, darà la sua istruzione, e chi la accoglierà verrà a Gesù stesso. Non ci sarà un “vedere Dio”, perché solo chi viene da Dio, cioè Gesù, lo ha visto, ma ci sarà un andare a Gesù e un vedere, in lui, il volto di Dio; ci sarà un guardare la sua vita umana che è narrazione del Dio vivente e vero (exeghésato: Gv 1,18). Occorre dunque la fede, occorre accettare quest’opera di Dio in noi, e in questo credere, in questa adesione a Gesù, accogliere da lui la vita eterna, perché lui stesso è la vita per sempre, liberata dalla morte.
Sì, questo vangelo è uno scorrere di parole sulle labbra del Cristo vivente e glorioso, parole che non possono neppure essere commentate. Forse possiamo, almeno un po’, parafrasarle: sono parole semplici eppure inaudite; sono chiare eppure la nostra ragione non riesce ad accoglierle; sono affermazioni di fronte alle quali si può solo, se si è raggiunti dall’amore di Dio, contemplare. Sono parole forti che sulla bocca di un uomo appaiono anche scandalose, irrazionali: “Io sono il pane della vita … Io sono il pane disceso dal cielo … Chi mangia di questo pane non muore più, anzi vivrà nell’eternità”. Ed ecco il vertice della rivelazione scandalosa: “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. Qui più che mai il discorso si fa duro, irricevibile. Non solo Gesù è il pane per la vita eterna, ma è carne che il credente deve assumere in se stesso: non è data una “vita eterna” come dono esterno, ma questa germina, fiorisce dall’interno dell’uomo, come il pane mangiato dà vita e la accresce. La vita di Gesù di Nazaret, vita terrena di un uomo, vita vissuta, è consegnata, offerta a noi umani come cibo da mangiare: quella carne fragile e mortale assunta dal Figlio di Dio è vita data, spesa, radicalmente offerta per noi umani.
I giudei ricordavano e conoscevano bene il grande dono fatto da Dio al popolo di Israele peregrinante nel deserto verso la terra promessa: avevano ricevuto dal cielo la manna, un cibo che permetteva loro di vivere e di non morire di fame in quelle steppe desolate (cf. Es 16). Ma poi tutti non solo mormorarono, ma non entrarono in quella terra della benedizione, neppure Mosè… Il pane che invece Gesù dona gratuitamente e senza rispondere ai meriti di ciascuno è un pane vivo (ho ártos ho zôn), cioè un pane che è capace di dare la vita per sempre, un antidoto nei confronti della morte.
Qui dovremmo esaminarci con parrhesía davanti a Dio e a noi stessi: siamo davvero tanto differenti da questi giudei che tanto faticavano a credere alle parole di Gesù? Non siamo in verità peggio di loro, perché conosciamo queste parole di Gesù, il suo essere vita, le conosciamo fin da quando siamo approdati alla fede, ma poi questa conoscenza resta vaga e intellettuale, e siamo incapaci di essere conseguenti a questa rivelazione di Gesù? Pensando a me stesso, dopo cinquant’anni di vita monastica posso affermare che sento che Gesù è la vita eterna, che dunque la morte è vinta, e che quando essa verrà sarà solo un esodo nel quale la vita eterna come dono si imporrà e sarà la mia vita, la mia vita in Cristo vivente? E queste parole riescono a mutare il mio vivere quotidiano oppure restano come un bagaglio intellettuale che, sì, è presente in me, ma di fatto non determina nulla di concreto nella mia esistenza? Mangiare la carne di Cristo, bere il suo sangue dovrebbe significare che accetto in me che la sua vita, cioè il suo sangue, scorra e mi faccia vivere in modo che io viva non più di me stesso, ma di lui, il mio Signore vivente.
A volte mi sembra di poter solo affermare, come in una litania: “Il Figlio di Dio, la Parola di Dio, si è fatta carne (cf. Gv 1,14), si è fatta un uomo, Gesù di Nazaret, e quest’uomo si è fatto pane, affinché il mangiare di questo pane mi permetta ciò che io non potrei mai fare: rendere la mia vita di carne mortale una vita sulla quale la morte non abbia più l’ultima parola”. Parole da contemplare, come in una litania, ma senza la pretesa di comprendere e soprattutto senza la pretesa di poterle vivere con la mia volontà. Solo Dio rende efficaci queste parole nella mia sempre più povera e misera vita.


Sabato, 25 Luglio 2015 17:50

La moltiplicazione dei pani

347Una grande folla segue Gesù, perché egli ha compiuto dei segni, guarendo i malati. Questa sembra l’ora del successo per Gesù, che rinnova le meraviglie dell’esodo e le azioni dei profeti, assenti in Israele almeno da cinque secoli. In realtà si tratta di una folla incredula e quel “grande raduno” si risolverà nell’epifania di una più grande distanza tra Gesù e quanti correvano a vederlo in cerca di straordinario, ma senza ascoltare le sue parola. Anche di quella folla, però, Gesù ha compassione e vuole saziarla di cibo. L’evangelista annota che “era vicina la festa di Pasqua”, dunque quella è un’ora vigiliare (come lo sarà per l’istituzione eucaristica secondo i sinottici!). La Pasqua era anche la festa dell’offerta delle primizie, il primo raccolto di cereali destinati a diventare pane (cf. Es 9,31; Rt 1,22, ecc.). Ma il cibo che Gesù vuole dare non può essere comprato nelle panetterie, né si potrebbe pagare in modo adeguato, come pensa Filippo…

Ormai è presente Gesù, il profeta escatologico, ben più di Eliseo che aveva moltiplicato i pani d’orzo (cf. 2Re 4,42-44). Un altro discepolo, Andrea, gli fa notare la presenza di un ragazzo che ha con sé cinque pani d’orzo (i pani primizia) e due pesci. Questi vengono presentati a Gesù, non al tempio, e attraverso quell’offerta egli compie il segno: quei pani e quei pesci condivisi sazieranno tutti, in un banchetto pasquale, primaverile, che vede tanta gente sdraiata sull’erba del prato come nel banchetto escatologico, come in un banchetto pasquale celebrato da persone libere, non schiave. Quella folla è immensa, costituita da più di cinquemila uomini, ma il cibo dato da Gesù basterà per tutti: nella vita cristiana si ha sempre poco, ma il poco condiviso basta per tutti!

L’azione compiuta da Gesù è quella che i sinottici mettono in evidenza sia nella moltiplicazione dei pani (cf. Mc 6,30-44 e par.; 8,1-10; Mt 15,32-39) sia nell’istituzione eucaristica avvenuta durante la cena pasquale (cf. Mc 14,22-26 e par.), sia nel pasto del Risorto con i discepoli di Emmaus (cf. Lc 24,30):

Gesù prese i pani e,
dopo aver reso grazie, fatto eucaristia (eucharistésas),
li distribuì ai commensali,
e lo stesso fece dei pesci,
quanto ne volevano.

Questa è l’azione eucaristica di Gesù, ma è anche il rinnovamento dei prodigi con cui Dio diede la manna al suo popolo nel tempo dell’esodo (cf. Es 16), è anche l’azione del Dio pastore che fa riposare il suo popolo su pascoli di erbe verdeggianti (cf. Sal 23,2), è anche il rinnovamento del gesto profetico di Eliseo.

Così tutta quella folla viene saziata da Gesù con una tale abbondanza che ne mangiarono “quanto ne volevano” e ne avanzarono pure dodici canestri. Ma questa azione di Gesù è un “segno” (semeîon), non è semplicemente un miracolo straordinario: un segno nel senso che richiede alla folla la capacità di risalire dal pane al donatore del pane, di non fermarsi a guardare il miracolo ma a colui che il miracolo indica. La folla invece, meravigliata dal miracolo, si serve di esso per sentirsi esaudita nelle proprie attese. Sapeva che, secondo la Legge, il Signore avrebbe suscitato un profeta pari a Mosè (cf. Dt 18,15), ed è pronta a riconoscerlo in Gesù; si aspetta però che egli si manifesti come un re, come un potente di questo mondo. Sì, è stato così allora ed è ancora così: di fronte a un’azione grandiosa gli esseri umani sono disposti a riconoscere che chi la compie è un profeta promesso e inviato da Dio, ma egli deve comportarsi come i potenti di questo mondo, per poterli sconfiggere con le loro armi, per poter portare la liberazione…

Il segno operato da Gesù si rivela dunque come un vero fallimento. La folla numerosa misconosce Gesù, lo interpreta e lo vuole secondo i propri desideri e le proprie proiezioni, non è disposta ad accettare un Messia, un Profeta al contrario: un uomo mite, un servo del Signore e degli umani, che chiede di comprendere che cosa indica quel pane donato in abbondanza. È significativo che Giovanni scriva che “volevano impadronirsi di lui per farlo re”, cioè volevano renderlo un oggetto, un idolo secondo i loro desideri, volevano un Messia con un altro stile, con un programma messianico mondano. Ma Gesù rifiuta quel potere che gli vogliono dare e fugge, così come aveva fuggito le tentazioni nel deserto (cf. Mc 1,12-13; Mt 4,1-11; Lc 4,1-13). Egli si ritira nella solitudine della montagna, discernendo l’illusione di un apparente successo, che non può né desiderare né accettare. Salendo su quel monte da solo, avendo lasciato a valle anche i discepoli, pure loro inadeguati a comprendere, Gesù con infinita compassione si ripeteva: “Non hanno capito nulla, continuano a non comprendere nulla”, e certamente li affidava al Padre…

Al termine di questa lettura dobbiamo sentire che quella folla siamo noi, sempre facilmente religiosi ma sempre faticosamente credenti, sempre in cerca di un Dio che si impone e si fa valere: il Dio fabbricato dai nostri desideri e dalle nostre brame, non quello che Gesù ha cercato di svelarci come unico Dio.

Commento al Vangelo di Enzo Bianchi 
Domenica, 19 Luglio 2015 10:17

La misericordia di Gesù

346I discepoli ritornati dalla missione meritano di essere chiamati “inviati”, “missionari”, per questo Marco li definisce “apostoli” (apóstoloi): discepoli di Gesù diventati suoi inviati.

Tornano dunque da Gesù, colui che li aveva inviati e abilitati alla missione, tornano alla fonte, tornano a colui che li aveva chiamati “perché stessero con lui”, oltre che “per mandarli a predicare” (Mc 3,14). Essi “raccontano a Gesù tutto quello che avevano fatto e insegnato”: azioni e parole che erano state comandate da Gesù, ma che soprattutto gli apostoli avevano imparato a ripetere stando con lui, coinvolti nella sua vita, vivendo con lui come con un fratello. Sappiamo di che cosa era fatto questo loro servizio: l’annuncio del Regno di Dio veniente, della necessaria conversione e una prassi di umanità autentica che si manifestava nell’incontrare le persone, nell’accoglierle, nel dare loro fiducia risvegliando la loro fede, nello sperare insieme a loro, nel liberarle, per quanto possibile, da oppressioni diverse dovute alla presenza del male operante nel mondo. Marco non dice che gli inviati hanno fatto cose straordinarie, miracoli, perché ciò che era sufficiente l’hanno eseguito in obbedienza al mandato di Gesù.

Gli apostoli sono stanchi, e Gesù, che è stato raggiunto dalla notizia della decapitazione di Giovanni, il suo rabbi, nella sua tristezza decide di prendere le distanze dalla predicazione che lo impegnava e lo affaticava. Dice dunque ai Dodici: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto (kat’ idian eis éremon tópon), e riposatevi un po’”. Anche per Gesù, come per ciascuno di noi, occorre a volte avere il coraggio e la forza di prendere le distanze da ciò che si fa, occorre uscire dall’agitazione delle moltitudini, dal rumore delle folle, da quel turbinio di occupazioni che rischiano di travolgerci. Lavorare, impegnarsi seriamente con tutta la propria persona è necessario ed è umano, ma lo è altrettanto la dimensione della solitudine, del silenzio, della quiete. Se noi sentissimo nel nostro cuore questa chiamata: “Fuggi, fa’ silenzio, cerca quiete” (Detti dei padri del deserto, Serie alfabetica, Arsenio 2), saremmo certamente più disponibili a trovare un “luogo deserto” in cui pensare, meditare, ascoltando il silenzio, il nostro cuore, le voci diverse con cui Dio tenta di parlarci. Senza ottemperare a questa esigenza, si cade nella superficialità, ci si disperde, si finisce per vivere senza sapere dove si va.

Ma la folla che da giorni segue Gesù lo raggiunge, anzi giunge prima di lui su quella riva deserta del lago. Gesù allora, sbarcando, la vede e la osserva con attenzione: non è preso dalla soddisfazione del successo, del fatto che tanta gente lo cerca e lo trova, ma è mosso a viscerale compassione (verbo splanchnízo). Le sue viscere si commuovono come quelle di Dio nei confronti del suo popolo oppresso (cf. Os 11,8); egli si commuove e soffre con un fremito causato solo dall’amore verso quella gente. Sì, è gente incredula, che cerca Gesù con ambiguità e interessi non trasparenti, ma per Gesù merita compassione. Sono “pecore senza pastore”, non hanno nessuno che dia loro da mangiare cibo, nessuno che si prenda cura di loro, nessuno che rivolga loro la parola per sostenerli nel duro mestiere di vivere e nessuno che li sostenga nei loro dubbi e contraddizioni. Gesù si intenerisce e rivive la compassione di Mosè quando vede il suo popolo senza pastore (cf. Nm 27,17), la compassione dei profeti che soffrono al vedere il popolo di Dio disperso e i cattivi pastori che lo sfruttano (cf. 1Re 22,17; Ez 34,5).

Non resta dunque a Gesù che farsi “buon pastore” (Gv 10,11.14) di quella folla: obbedisce puntualmente e fa ciò che Dio vuole venga fatto a suo nome da lui, il Figlio inviato nel mondo. Per prima cosa Gesù legge la fame di quella gente, fame di cui forse non sono pienamente coscienti, fame della Parola: vogliono che Gesù insegni, cioè “parli loro la Parola”, come Marco dice altrove (cf. Mc 2,2; 4,33). Ciò che è decisivo è che Gesù sia là e parli, perché lui è la Parola di Dio (cf. Gv 1,1.14). Gesù lo fa lungamente, come stando sotto un giogo: il giogo della misericordia che lo spinge a questa compassione, a questa fatica, a questa parola indirizzata a quanti suscitano in lui sentimenti di misericordia. Aveva avuto misericordia degli apostoli ritornati stanchi e li aveva chiamati al riposo, e ora ha misericordia delle folle e interrompe il proprio riposo. Solo la misericordia lo guidava e ne determinava il comportamento e le azioni durante la sua itineranza.

Questo è un grande insegnamento per noi: su ogni nostra decisione, su ogni nostra scelta necessaria e buona, ciò che deve avere il primato è la misericordia. Se ogni nostra scelta e ogni nostra azione non obbediscono innanzitutto alla misericordia, non sono conformi ai “sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5): sentimenti umani ma in profondità sentimenti di Dio, colui che è Santo e mostra la sua santità in mezzo al suo popolo con la compassione, scegliendo che nel suo cuore la misericordia regni sulla giustizia (cf. Os 11,7-9). Noi pastori di comunità dovremmo molto interrogarci su questa disponibilità a dare la precedenza alle domande della comunità rispetto alle nostre scelte e alle nostre pur buone iniziative. Dovremmo chiederci se in noi la misericordia, cioè l’amore viscerale di compassione, è sempre immanente alla giustizia che vogliamo vivere e annunciare. Non lo si dimentichi: nel cristianesimo non si danno giustizia e misericordia, ma solo misericordia nella giustizia o giustizia nella misericordia.

Prima di dare il pane Gesù dà la Parola, per saziare gli uomini e le donne che lo seguono. Ma presto darà anche il pane.

Commento al Vangelo di Enzo Bianchi 
Sabato, 04 Luglio 2015 20:22

Gesù, troppo umano

345Il brano evangelico di questa domenica ci interroga soprattutto sul nostro atteggiamento abituale, quotidiano: atteggiamento che in profondità non spera nulla e dunque non attende nessuno; e soprattutto, atteggiamento che non riesce a immaginare che dal quotidiano, dall’altro che ci è familiare, da colui che conosciamo possa scaturire per noi una parola veramente di Dio. Non abbiamo molta fiducia nell’altro, in particolare se lo conosciamo da vicino, mentre siamo sempre pronti a credere allo “straordinario”, a qualcuno che si imponga. Siamo talmente poco muniti di fede-fiducia, che impediamo che avvengano miracoli perché, anche se questi avvengono, non li vediamo, non li riconosciamo, e dunque questi restano eventi inutili, miracoli che non ottengono il loro fine.

Questo, in profondità, il messaggio del vangelo odierno, una pagina che riguarda la nostra fede, la nostra disponibilità a credere. Gesù era nato da una famiglia ordinaria: un padre artigiano e una madre casalinga come tutte le donne del tempo. La sua era una famiglia con fratelli e sorelle, cioè parenti, cugini, una famiglia numerosa e legata da forti vincoli di sangue, come accadeva in oriente. Da piccolo, come ogni ragazzo ebreo, Gesù ha aiutato il padre nei lavori, ha giocato con Giacomo, Ioses, Giuda, Simone e con le sue sorelle, ha condotto una vita molto quotidiana, senza che nulla lasciasse trasparire la sua vocazione e la sua singolarità. Poi a un certo punto, non sappiamo quando, sono iniziati per lui quelli che Robert Aron ha chiamato “gli anni oscuri di Gesù”, presso le rive del Giordano e del mar Morto, dove vivevano gruppi e comunità di credenti giudei in attesa del giorno di Dio, uomini dediti alla lettura delle sante Scritture e alla preghiera. Gesù a una certa età li raggiunse e qui divenne discepolo di Giovanni il Battista (il quale lo definì “colui che viene dietro a me”: cf. Mc 1,7). Poi sentì come vocazione da Dio quella di essere un predicatore itinerante, iniziando il suo ministero dalla Galilea, la terra in cui era stato allevato (cf. Mc 1,14-15).

E quando ormai Gesù ha un gruppo di discepoli che vivono con lui (cf. Mc 3,13-19), nella sua predicazione di villaggio in villaggio, in giorno di sabato entra nella sinagoga di Nazaret, “la sua patria”. Torna dopo molto tempo trascorso altrove, e gli abitanti del villaggio lo ricordano come “figlio di” e “fratello di”. Al momento della lettura del brano della Torah (parashah) e dei profeti (haftarah), Gesù, essendo un uomo ebreo, come ogni altro ebreo di più di dodici anni, dopo essere diventato bar mitzwah, figlio del comandamento, ha la possibilità di salire sull’ambone e di prendere la parola. Non è un sacerdote, non è un rabbi ufficialmente riconosciuto – “ordinato”, diremmo noi – ma esercita questo diritto di leggere le Scritture e tenere l’omelia.

A differenza di Luca (cf. Lc 4,16-30), Marco non specifica né i testi biblici proclamati né il contenuto del commento di Gesù, ma mette in evidenza la reazione dell’assemblea liturgica che lo ha ascoltato. D’altronde la sua fama lo ha preceduto: torna a Nazaret come un “maestro” dai tratti profetici, capace di operare guarigioni, azioni miracolose con le sue mani. La prima reazione è di stupore e ammirazione: è un bravo predicatore, ha autorevolezza, la sua parola colpisce e appare ricca di sapienza. Ma di fronte a tale incontestabile verità ecco emergere un pensiero: lo conosciamo come uno di noi, la sua famiglia è qui, i suoi fratelli e le sue sorelle hanno nomi precisi. Dunque che cosa pretende, che cosa vuole? Perché dovrebbe essere “altro”? Sì, Gesù era un uomo come gli altri, si presentava senza tratti straordinari, appariva fragile come ogni essere umano. Così quotidiano, così dimesso, senza qualcosa che nelle sue vesti proclamasse la sua gloria e la sua funzione, senza un “cerimoniale” fatto di persone che lo accompagnassero e lo rendessero solenne nell’apparire tra gli altri.

No, troppo umano! Ma se non c’è in lui nulla di “straordinario”, come poterlo accogliere? Con ogni probabilità, Gesù non aveva neppure una parola seducente, non si atteggiava in modo da essere ammirato o venerato. Era troppo umano, e per questo “si scandalizzavano di lui” (eskandalízonto en autô), cioè sentivano proprio in quello che vedevano, in quella sua umanità così quotidiana, un ostacolo a mettere fiducia in lui e nella sua parola. Dunque quel ritorno al villaggio natale è stato un fallimento. Gesù lo comprende e osa proclamarlo ad alta voce: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. Sì, questo è avvenuto: proprio chi pretendeva di conoscerlo, in quanto concittadino, vicino o parente, giunge a disprezzarlo. Marco aveva già annotato che all’inizio della sua predicazione i suoi familiari erano venuti per prenderlo e portarlo via, dicendo che egli era pazzo, fuori di sé (éxo: cf. Mc 3,21); ma ora è tutta la gente a emettere questo giudizio negativo su di lui: il suo atteggiamento è troppo umano, poco sacrale, poco rituale!

Gesù allora si mette a curare i malati là presenti, e ne guarisce anche qualcuno, ma è come se non avesse operato miracoli, perché il miracolo avviene quando il testimone passa dall’incredulità alla fede. Qui invece sono restati tutti increduli, per questo Marco sentenzia: “non poteva compiere nessun miracolo” (dýnamis). Gesù è ridotto all’impotenza, non può agire con potenza, non può neanche fare il bene, perché non c’è fede in lui da parte dei presenti. Che torto aveva Gesù? Rispetto a quei “suoi”, camminava troppo avanti agli altri, teneva un passo troppo veloce, vedeva troppo lontano, aveva laparrhesía, il coraggio di dire ciò che gli altri non dicevano, osava pensare ciò che gli altri non pensavano, e tutto questo restando umano, troppo umano.

Ecco ciò che attende chiunque abbia ricevuto un dono da Dio, anche solo una briciola di profezia: diventa insopportabile, e comunque è meglio non fargli fiducia… Gesù “si stupisce della loro mancanza di fede (apistía)”, e tuttavia non demorde: continua la sua missione andando altrove, sempre predicando e operando il bene. Ma senza ricevere fede-fiducia, Gesù non riesce né a convertire né a guarire.

Commento al Vangelo di Enzo Bianchi 
Giovedì, 02 Luglio 2015 09:51

Il Numero 177 di Notiziario OMD

Noti-177Pubblicato il n° 177 di Notiziario OMD oltre la cronaca dell’Ordine continua lo speciale a cura del P. Generale “ricette dalla spezieria” di san Giovanni Leonardi, In questo numero: Messaggio USG; Causa dì beatificazione dì P. Cosimo e Anna Moroni; ricordo dì P. L. migliaccio. Il numero si chiude con le Notizie dell'Italia, Cile, India, Indonesia e Colombia.

02 Luglio 2015

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