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stemma e nome

360Le parole di Gesù riportate sono quelle da lui pronunciate negli ultimi giorni della sua vita, prima della passione e morte; parole da lui dette sul monte degli Ulivi ai quattro discepoli della prima ora (cf. Mc 1,16-20), quelli a lui più vicini: Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea (cf. Mc 13,3). Il cosiddetto “discorso escatologico” è molto lungo – occupa tutto il capitolo 13 – e vuole essere una risposta alla domanda circa il tempo successivo alla vicenda terrena di Gesù: cosa accadrà? Gesù profetizza che il tempio di Gerusalemme, che si ergeva maestoso davanti a lui e ai discepoli, andrà in rovina (cf. Mc 13,2), che ci saranno eventi che causeranno grande sofferenza agli umani (cf. Mc 13,5-23) e che alla fine – è il tema del nostro brano – il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria per compiere il giudizio ultimo e definitivo (cf. Mt 25,31-46). Questo discorso di Gesù è un messaggio in un linguaggio codificato, secondo il genere apocalittico, un linguaggio che vuole essere rivelativo, profetico, pur risultando a volte oscuro, di difficile interpretazione.

Noi ne leggiamo per l’appunto solo la parte finale, l’annuncio della venuta gloriosa del Messia, quando si sarà verificata la distruzione del tempio e sarà passato il tempo della storia, nella quale guerre, calamità e persecuzioni si faranno dolorosamente presenti nella vita di uomini e donne. Dopo la terribile prova che investirà l’intera umanità, il popolo di Israele e la chiesa del Signore, ci sarà uno sconvolgimento di tutto l’assetto dell’universo creato. Non lasciamoci spaventare dalle parole di Gesù, ma intimorire sì, perché essere rivelano la “verità” di questo mondo che Dio ha creato, voluto e sostenuto, ma che avrà un termine, una fine: come c’è una fine personale, la morte, così ci sarà una fine di questo mondo. Gesù vuole parlare di questi eventi, per rivelare una realtà dai tratti indescrivibili. La creazione subirà un processo di de-creazione, potremmo dire un ritorno all’in-principio (cf. Gen 1,1-2), ma in vista di una nuova creazione, di un mondo nuovo, con cieli e terra nuovi (cf. Is 65,17; 66,22; 2Pt 3,13; Ap 21,1). Queste immagini non vogliono significare distruzione, decomposizione, scomparsa della materia, ma la fine degli attuali assetti della creazione, in preda alla sofferenza, al male e alla morte, per una ri-creazione, una trasfigurazione che non riusciamo neppure a immaginare.

Ecco allora le immagini apocalittiche, ispirate da fenomeni che l’uomo contempla, ma che sono transitori, dunque non distruttori della vita: il sole che si eclissa definitivamente, la luna che perde la sua luce, le stelle che cadono dal cielo… Immagini evocatrici della fragilità dell’assetto del nostro universo, che non è eterno, che – come ci assicurano anche le scienze – ha avuto un inizio e avrà una fine. E tuttavia questo universo, che agli occhi dei credenti nel Signore Gesù “geme e soffre le doglie del parto” (Rm 8,22), è un universo voluto da Dio e che Dio salverà, trasfigurandolo in dimora del suo Regno.

Proprio in questa “crisi” cosmica si manifesterà il Figlio dell’uomo, farà la sua parusia in modo glorioso, venendo dai cieli, avendo come trono le nubi (cf. Dn 7,13), nella luce definitiva che vincerà per sempre le tenebre. Anche questo evento, chi può descriverlo? I cristiani hanno dipinto o rappresentato in mosaici nelle absidi delle chiese il Veniente nella gloria, seduto sull’arcobaleno, giudice di tutto l’universo, Pantokrátor (2Cor 6,18; Ap 1,8; 4,8, ecc.), cioè colui che tiene insieme tutte le cose; ma nel farlo hanno dovuto ispirarsi alla parusia, all’ingresso glorioso dei re e degli imperatori, rivestendo il Figlio di Dio e Figlio dell’uomo dei tratti di una gloria umana. In realtà, non sappiamo in che forma contempleremo il Signore veniente; possiamo solo dire che allora lo riconosceremo tutti, anche quelli che durante la loro vita non l’hanno mai riconosciuto nel povero, nel malato, nello straniero, nel carcerato, nell’ignudo (cf. Mt 25,31-46). Anche quelli che hanno trafitto Gesù o hanno trafitto il povero, la vittima, allora lo riconosceranno, si batteranno il petto (cf. Ap 1,7) e capiranno che le trafitture inferte all’altro, al fratello o alla sorella, erano trafitture che raggiungevano il Signore, il quale ora si mostra giudice misericordioso ma temibile. Sarà quella anche l’ora del raduno di tutti gli eletti, i giusti, quelli che hanno vissuto esercitando fiducia nell’altro, sperando insieme agli altri, amando chi avevano accanto e rendevano prossimo. I figli di Dio dispersi saranno finalmente una comunione, che non conoscerà più né morte, né male, né peccato (cf. Is 35,10; Ap 21,4).

Quando questo accadrà (cf. Mc 13,4)? In un giorno che nessuno conosce, eppure è un giorno certo, è una promessa di Dio che si realizzerà. I discepoli di Gesù non devono dunque chiedere “quando?”, ma devono piuttosto chiedersi se loro stessi saranno pronti ad accogliere quell’evento della parusia come salvezza, se saranno capaci di gioire davanti alla venuta del Figlio dell’uomo, se avranno saputo sperare con perseveranza in quell’ora: un’ora che è un segreto, perché neanche l’uomo Gesù la conosceva, e neppure gli angeli, ma solo il Padre. Per questo i credenti imparino a osservare la storia con spirito di discernimento, leggendo i “segni dei tempi”. La venuta del Figlio dell’uomo sarà come l’estate che i contadini sanno prevedere, guardando soprattutto la pianta di fico: quando il fico, per il risalire della linfa, intenerisce i suoi rami e si aprono le gemme rimaste chiuse per tutto l’inverno, allora sta per scoppiare l’estate. Così, se il credente sa leggere la storia, aderendo alla realtà quotidiana della vita umana e ascoltando la parola di Dio che sempre risuona nel suo “oggi” (cf. Sal 95,7), allora sarà pronto per l’ora della venuta temibile e misericordiosa del Signore. Si tratta – come si legge nella conclusione del discorso (cf. Mc 13,33-37) – di vegliare, di restare vigilanti, desti, capaci di esercitare l’intelligenza per discernere e non essere trovati addormentati o spiritualmente intontiti…

Sarà la fine? Sì, ma quella fine porta un nome: è il Signore Gesù Cristo, Figlio dell’uomo e Figlio di Dio, uomo e Dio che è venuto nel mondo, da Dio qual era (cf. Fil 2,6), per farsi uomo, e verrà nella gloria perché l’uomo diventi Dio. Sì, tutta l’umanità sarà in Dio e ognuno di noi sarà il Figlio di Dio.

Commento al Vangelo di ENZO BIANCHI 
361Il brano evangelico di questa domenica ci testimonia un attacco molto duro di Gesù verso gli scribi e i farisei, diventati nel mondo cristiano figure tipologiche, che incarnano perfidia, ipocrisia, orgoglio. Attenzione però, perché qui si richiede da parte nostra un esercizio ermeneutico sapiente, che sappia anche essere “giusto”.

Gli scribi erano gli esperti delle sante Scritture, uomini che fin dall’infanzia si dedicavano alla lettura e allo studio della tradizione di Israele; giunti poi all’età matura, diventavano persone autorevoli, rabbini, “maestri”, dotati di poteri giuridici nelle diverse istituzioni giudaiche. I farisei – l’abbiamo sottolineato altre volte – erano invece un “movimento ecclesiale”, un gruppo che con zelo cercava di vivere la Legge di Mosè e la precettistica elaborata dai padri rabbinici. Erano semplici fedeli, appartenenti al popolo, e rappresentavano una componente forte, molto presente e anche missionaria all’interno di Israele. Certamente gli scribi e anche alcuni farisei furono avversari di Gesù, ma la polemica di Gesù, riattualizzata dagli evangelisti in un contesto di aspro confronto e di persecuzione dei cristiani, ritenuti dai farisei una setta eterodossa, riguardava soprattutto la loro postura di “persone religiose”. Nel riprendere questa polemica gli evangelisti intendevano inoltre denunciare quelli che nella chiesa cristiana avevano ormai assunto lo stesso stile. Si faccia dunque attenzione a non finire per leggere i vangeli in modo antigiudaico: non tutti gli scribi erano arroganti, non tutti i farisei erano ipocriti, anzi a volte i vangeli testimoniano di scribi vicini al regno di Dio (cf. Mc 12,34) e di farisei retti e giusti che sono stati ben disposti verso Gesù (cf. Lc 13,31).

Sì, c’è stato un conflitto aspro, ma Gesù oggi potrebbe rivolgere gli stessi duri avvertimenti a tanti ecclesiastici… Basta leggere con attenzione le parole rivolte da Gesù alla folla, che si potrebbero così parafrasare e attualizzare: “Diffidate degli scribi, degli esperti di Bibbia e di teologia! Quando escono, appaiono con vesti lunghe, filettate, addirittura colorate, indossano abiti sgargianti, si ornano di catene, di croci gemmate e preziose, cercano i volti di chi passa per essere salutati e riveriti, senza discernere le persone nel loro bisogno e nella loro sofferenza: volti che non sono guardati, ma chiamati a guardare! Nelle assemblee liturgiche hanno posti eminenti, cattedre e troni simili a quelli dei faraoni e dei re, e sono sempre invitati ai banchetti di potenti”. Davvero queste invettive di Gesù sono più che mai attuali: sono parole che dovrebbero farci arrossire e spingerci a interrogarci nel cuore su dove siamo finiti…

Quando si adotta questa postura di arroganza, si assume inevitabilmente uno stile che chiede ammirazione, che desidera adepti, che esige applausi da parte di persone devote. Per mantenere un tale atteggiamento occorre poi avere molto denaro, e così si finisce per divorare le case delle vedove ed esigere soldi proprio da parte dei più poveri, soldi derubati! È stato così ed è ancora così qua e là nella chiesa, e ognuno di noi in cuor suo conosce in quali modi, magari diversi da quelli stigmatizzati da Gesù, è tentato di apparire, di mostrarsi, di ricevere riconoscimenti e applausi anche nella vita ecclesiale! Non possiamo qui non rendere testimonianza a papa Francesco per i suoi richiami e i suoi sforzi in vista di una chiesa povera, nella quale “i primi”, quelli che governano o presiedano, non ricadano nei vizi degli uomini religiosi, che chiedono agli altri di dare gloria a Dio dando gloria proprio a loro, che si pensano suoi rappresentanti…

Gesù fa questi discorsi nel tempio, di fronte alla sala del tesoro, dove i fedeli, i pellegrini saliti a Gerusalemme, mettono le loro monete in “cassette per le offerte”. Come sempre, Gesù osserva, vede, comprende e discerne: sa cosa accade accanto a sé, è vigilante e trae dalla concreta realtà lezioni di vita. Qui che cosa vede? Nota che ci sono alcuni che mettono grandi somme di denaro: sono i ricchi, quelli che senza grande fatica e senza privarsi di qualcosa di essenziale, nella loro devozione possono mettere anche molto denaro nel tesoro del tempio. Anche di questo abbiamo avuto e abbiamo esperienza nella chiesa. Solo cinquant’anni fa i primi banchi in chiesa avevano la targa in ottone con incisi i nomi dei ricchi che avevano fatto grandi offerte, e quei banchi erano loro riservati. E i poveri? In fondo alla chiesa, in piedi, perché anche le sedie messe a disposizione erano a pagamento. Nulla di nuovo dunque!

Gesù però vede e discerne tra tutti una donna – per di più vedova –, cioè una persona che non conta nulla in un mondo dominato da uomini, che sentono anche il tempio come qualcosa che appartiene a loro: le donne, infatti, non facevano assemblea davanti a Dio come loro e con loro. Questa povera donna avanza tra molti altri, nella sua umiltà, e sembra che nessuno possa notarla. Gesù invece la nota e la addita tra tutti come “la vera offerente”, la vera persona capace di fare un dono, di dare gloria al Signore. Costei getta solo due spiccioli, due piccole monete, ma ecco che Gesù commenta il suo gesto. E lo fa in modo solenne, introducendo le sue parole con: “Amen”, cioè: “È così, è la verità e io ve la dico”. “Amen, io vi dico: questa povera vedova ha gettato nella cassetta delle offerte più di tutti gli altri. Tutti, infatti, hanno preso dal loro superfluo; lei, invece, nella sua povertà, ha dato tutto quello che aveva, tutto quello che aveva per vivere (hólon tòn bíon autês; alla lettera, ‘tutta la sua vita’)”. Questa vedova non dà, come gli altri, briciole di ciò che possiede; non dà l’offerta senza che ne consegua per lei una sofferenza; non offre denaro di cui non ha affatto bisogno, perché ne ha tanto in più: no, questa donna si spoglia di ciò che le era necessario per vivere, di tutto ciò che aveva, non di una sua porzione minima. Questa donna è per Gesù un’immagine dell’amore che sa rinunciare anche a ciò che è necessario: ecco una donna anonima, ma una vera discepola di Gesù. In questa pagina del vangelo il contrasto diventa ancora più forte: scribi che divorano le case delle vedove perché donne (non divorano le case dei vedovi!), perché povere, non difese da nessuno; e, al contrario, una di queste che dà in sacrificio al Signore ciò di cui lei ha bisogno per vivere, spogliandosi oltre misura.

Oggi quando parliamo di “chiesa dei poveri” dovremmo fare memoriale di questa donna, discepola di Gesù nella chiesa dei poveri da lei inaugurata, e dovremmo interrogarci su cosa diamo a quelli meno muniti di noi, ai più poveri. Noi che facilmente buttiamo via il cibo, qualche volta diamo ai poveri qualcosa che ci costringe a sentire un bisogno, a fare a meno di ciò che ci piacerebbe possedere o consumare? Si fa troppo presto a dire “chiesa povera” o “di poveri”: ne facciamo parte o ne siamo esclusi?

Commento al Vangelo di ENZO BIANCHI 
Sabato, 31 Ottobre 2015 09:32

Le Beatitudini, promessa e programma

358Celebriamo oggi una festa che riguarda soprattutto noi cristiani, discepoli di Gesù Cristo, ma non solo. Sia che siamo ancora viventi, sulla terra, sia che siamo passati attraverso l’esodo della morte e siamo dunque “in cielo”, nel regno di Dio, tutti noi siamo partecipi della beatitudine, della felicità. In un salmo risuona questa domanda: “C’è un uomo che desidera la vita e vuole giorni felici?” (Sal 34,13). L’essere umano cerca la felicità, la vita piena e senza fine, e Gesù vuole dare una risposta a questa sete profonda presente nel cuore di ogni persona.

Ecco dunque davanti a noi le beatitudini di Gesù attestate dal vangelo secondo Matteo, una pagina talmente conosciuta, citata, commentata e predicata che rischiamo di presumere di conoscerla già e di non avere più bisogno di ricominciare a leggerla, meditarla, comprenderla. Gesù ha iniziato il suo ministero pubblico predicando la venuta del Regno (cf. Mt 4,17) e chiamando alla sua sequela alcuni che sono diventati suoi discepoli (cf. Mt 4,18-22). Ormai è un rabbi, un profeta anche per molti credenti di Galilea e di Giudea, e attorno a lui c’è una piccola folla, nella quale abbondano malati, oppressi, poveri, persone che soffrono e piangono (cf. Mt 4,23-25). Gesù sa guardare a quelli che lo cercano, lo incontrano e lo seguono, sa discernere innanzitutto la loro fatica e la loro sofferenza ed è profondamente toccato dai mali delle persone. Non è un predicatore distaccato, che annuncia e parla guardando solo a Dio che lo ha inviato e lo ispira in ogni momento; sa anche guardare all’uditorio concreto, a chi ha di fronte e, come sa ascoltare Dio, così sa ascoltare questa gente che si rivolge a lui con gemiti, invocazioni, lamenti, domande senza risposta…

Secondo Matteo, Gesù decide allora di consegnare a queste persone le promesse di Dio, che possono essere anche un programma per chi vuole seguirlo. Sale sul monte, il luogo delle rivelazioni di Dio e, quale nuovo Mosè, ultimo e definitivo (dopo il quale non ce ne saranno altri!), dà la buona notiziail Vangelo. Attenzione: non dà “una nuova Legge” – definizione ambigua e sviante – ma dà una parola di Dio che risuona in modo nuovo e crea il regno dello Spirito santo, non più della Legge. Ecco allora il grido: “‘Ashrè”, parola che in ebraico significa soprattutto un invito ad andare avanti, promessa che è certa e precede quanti vivono una determinata situazione, parola che indica uno stile da assumere, parola che cambia l’ottica con la quale si guardano la vita, la realtà, gli altri.

Noi traduciamo quest’espressione tante volte presente nei Salmi e nella sapienza di Israele con “beati” (dal greco makárioi, che i vangeli prendono dalla versione dei LXX), ma purtroppo non abbiamo un termine italiano che ne sveli adeguatamente il contenuto. “Beati” non è un aggettivo, è un invito alla felicità, alla pienezza di vita, alla consapevolezza di una gioia che niente e nessuno può rapire né spegnere (cf. Gv 16,23). “Beati” ha anche il valore di “benedetti” (cf. Mt 25,34), in opposizione ai “guai” (cf. Mt 23,13-32; Lc 6,24-26), ma indica qualcosa che non è soltanto un’azione di Dio che rende giusti e salvati nel giorno del giudizio (cf. Sal 1,1; 41,2), ma che già da ora dà un senso, una speranza consapevole e gioiosa a chi è destinatario di tale parola. Promessa e programma! Nessuno dunque pensi alla beatitudine come a una gioia esente da prove e sofferenze, a uno “stare bene” mondano. No, la si deve comprendere come la possibilità di sperimentare che ciò che si è e si vive ha senso, fornisce una “convinzione”, dà una ragione per cui vale la pena vivere. E certo questa felicità la si misura alla fine del percorso, della sequela, perché durante il cammino è presente, ma a volte può essere contraddetta dalle prove, dalle sofferenze, dalla passione.

La promessa fatta solennemente da Gesù, parola potente di Dio, è il regno dei cieli, non un luogo, ma una relazione: essere con Dio, essere suoi figli, così come chi non è beato resta lontano e separato da Dio. Questo regno, dove Dio regna pienamente, è la comunione dei santi del cielo e della terra, la comunione dei fratelli di Gesù, dei figli di Dio, che noi cristiani dovremmo vivere con consapevolezza, ma che, a causa della nostra philautía, del nostro egoismo, non arriviamo neppure a credere saldamente. Questa esperienza del regnare di Dio su di noi possiamo farla qui e ora, alla sequela di Gesù: ciò accade quando su di noi non regnano né idoli, né poteri di nessun tipo, quando sentiamo che solo Dio e il Vangelo di Gesù ci determinano, ci muovono, ci tengono in piedi. È questo il caso in cui possiamo dire, umilmente ma con stupore, senza pensare di avere meriti, che Dio regna in noi, su di noi, dunque il regno di Dio è venuto: sempre però in modo non osservabile (cf. Lc 17,20), da noi riconosciuto solo parzialmente, sempre in modo fragile, che possiamo negare con il nostro venir meno all’amore.

Essere “poveri nello spirito”, nel cuore – precisa Matteo –, non semplicemente “poveri” (Lc 6,20), ma esserlo nell’umiltà di chi sa attendere Dio e la sua giustizia (cf. Mt 6,33) può aprire alla beatitudine di chi riceve in dono il regno di Dio.

Essere piangenti è una condizione frequente: le lacrime scorrono sul viso come un’invocazione, un grido a volte muto, ma il Signore raccoglie le lacrime (cf. Sal 56,9), non le dimentica. Ed ecco, manda già ora il Consolatore (cf. Gv 15,26; 16,7) a consolare, affinché ci aiuti ad attraversare la sofferenza e poi alla fine ci doni la gioia eterna, quando Dio asciugherà lacrime da ogni volto (cf. Is 25,8; Ap 7,17; 21,4).

Essere miti tra gli uomini e le donne, miti su questa terra, senza abitarla con prepotenza né violenza, senza riconoscere solo se stessi, rinunciando a ogni volontà di aggressione, fosse anche per difesa, è non solo possedere la terra promessa da Dio, ma già oggi pregustare una risposta amorosa da parte dell’umanità. San Francesco e papa Giovanni con la loro mitezza hanno “posseduto la terra”, nel senso più vero, evangelico, senza attraversare i sentieri del potere e della ricchezza.

Chi ha fame e sete di giustizia, cioè non è mosso dalla legge del vivere nella forza senza riconoscere l’altro, ma è vittima dei fratelli e delle sorelle che non si accorgono di lui, non desista da questa fame e combatta affinché Dio gli dia ora un cibo che lo sostiene e poi nel Regno quella giustizia della quale tanto ha avuto fame e sete.

Chi fa misericordia agli altri “obbligherà” Dio a fargli misericordia, perché Dio – dicevano i padri del deserto – obbedisce ai misericordiosi che sono come lui (cf. Lc 6,36), hanno lo stesso cuore, sono cioè santi come lui è santo (cf. Lv 19,2; 1Pt 1,16).

Essere puri di cuore significa vedere tutte le persone e gli eventi con gli occhi di Dio, vederli con “gli occhi del cuore” (Ef 1,18). Allora la gioia è quella di essere trasparenti, di non dover impiegare il tempo a organizzare la “maschera” con la quale desideriamo apparire agli altri ed essere da loro conosciuti. È la gioia di capire che l’altro è altro, è un dono di Dio, è un fratello o una sorella, e che io accetto di non mettere le mani su di lui o su di lei, di non possederli, sfruttarli, strumentalizzarli.

Un uomo, una donna che sa “fare pace” in ogni situazione di conflitto, da quelle tra i fratelli e le sorelle a quelle tra i popoli, siccome compie ciò che Dio vorrebbe fosse fatto, mostra di essere già qui sulla terra figlio, figlia di Dio, cioè partecipe della sua natura (cf. 2Pt 1,4), e lo sarà definitivamente nel regno dei cieli.

Infine, per tutti i discepoli la beatitudine riguarda il loro stare nel mondo tra le ostilità e le persecuzioni. Se un discepolo di Gesù riceve solo approvazione, applauso, abbia timore e si interroghi se è veramente tale! Almeno l’ostilità, la calunnia, l’opposizione deve conoscerla. Ha detto Gesù: “Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi!” (Lc 6,26). Cercare questo consenso è una delle peggiori tentazioni nella chiesa: compiacere tutti per essere da tutti approvati; sedurre gli altri per ricevere il plauso e avere successo; mancare di parrhesía cristiana (che sembra essere scambiata, all’interno della propria comunità o della chiesa, con la libertà di mormorare!) per essere da tutti apprezzati. Che miseria! Certo, in tal modo si sarà apprezzati e si avrà successo, ma non si conoscerà dentro di sé la gioia più vera, la beatitudine di essere in piena comunione con Gesù Cristo. Per rallegrarsi in profondità occorre invece non guardare ai propri interessi né mettere in atto alcuna strategia, ma “tenere fisso lo sguardo su Gesù” (cf. Eb 12,2) e solo da lui accettare la ricompensa, che consiste nel poter condividere il suo amore.

La comunione dei santi che festeggiamo oggi è gioia, festa per quanti con umiltà, senza arroganza, senza vanti, si riconoscono in queste situazioni sulle quali Gesù ha posto come sigillo la beatitudine.

Commento al Vangelo di ENZO BIANCHI

 
Sabato, 24 Ottobre 2015 13:28

Permanent Formation Meeting in India

India-PFOn 22nd October,  most of the fathers of Indian delegation came together at Samayapuram for permanent formation programme on Marian theme. This is the third new topic for we have done some sessions on Reconciliation and Eucharist already. Marian theme was decided in council in view of 'Marianizzare' theme in the canonical visit and the theme in next 111th General Chapter. Fr. Santiagu Raja, a scholar in dogmatic theology, at present working at St.Paul's seminary, will be guiding  three different sessions on the theme.

In the first session, resource person brought the Understanding of Mary as to how it was and how it should be. For it, he illustrated from theological view point the different approaches on Mariology in different times and from Scriptural view point how Mary is viewed in different Gospels and Pauline letters. And then he gave clear explanation on who was Mary, a real historical person.

On the whole, the session was purely a Marian, a  complete adherence to the theme and updating our understanding on Mariology.
Sabato, 24 Ottobre 2015 13:15

Caminata de la Familia Leonardina

CaminataSan Juan nos invita a peregrinar

El próximo año se cumplen 70 años de presencia de la Orden de la Madre de Dios en Chile. Por esto, el pasado sábado 17 de octubre, se realizó la “Caminata de la Familia Leonardina” para dar inicio a los fester2t6q por este  tiempo de gracia. En ella participaron niños, jóvenes y adultos de todas nuestras parroquias de Santiago y de la VI región. 

La caminata tuvo lugar en diferentes sectores de Quinta de Tilcoco con varias estaciones, animadas por cada parroquia,  que iban ayudando a rememorar la vida de San Juan Leonardi y la llegada de los primeros misioneros leonardinos a Chile. 

La conclusión del peregrinar fue en las dependencias de la parroquia madre, que acogió a los primeros religiosos. Ahí se representó la llegada y presencia de la Orden en Chile, y el modo como hemos pasado de ser un grupo de religiosos a una verdadera Familia Leonardina. 

Finalmente, en un momento de oración se presentó una “Custodia por los 70 años” que un laico leonardino de la Parroquia Nuestra Señora del Carmen de Rancagua confeccionó con ocasión de este tiempo de alegría. Esta  recorrerá todas las comunidades a lo largo de este año. Luego de la adoración eucarística se vivió el envío con la entrega del logo oficial y la oración por las vocaciones a cada parroquia de la Orden.  

¡O Cristo o nada!
Sabato, 24 Ottobre 2015 12:53

"La tua fede ti ha salvato"

357Con il brano che leggiamo in questa domenica il vangelo secondo Marco conclude il racconto della salita di Gesù a Gerusalemme, ossia l’itinerario del discepolato durante il quale Gesù ha dato insegnamenti, ha formato quanti lo seguivano, nella consapevolezza che giunti a Gerusalemme sarebbe avvenuta “la fine del profeta”, mediante la sua condanna a morte. Subito dopo Gesù entrerà nella città santa, scortato festosamente e acclamato figlio di David, cioè Messia (cf. Mc 11,7-11), evento in qualche modo anticipato nella nostra pagina.

Siamo a Gerico, la porta della Giudea a oriente. Mentre non solo i discepoli ma molti altri seguono Gesù, un cieco che porta il nome di Bar-Timeo (figlio di Timeo), un uomo marginale, ridotto a mendicare sulla strada, uno “scarto” di cui nessuno si prende cura, sente dire che sta per passare Gesù di Nazaret. Essendo cieco, non l’aveva ovviamente mai visto, né l’aveva incontrato, ma la fama di questo rabbi galileo l’aveva raggiunto. Nel suo cuore era certamente presente almeno il desiderio di vedere, la speranza di avere la vista, per poter uscire dalla notte. Udito che Gesù sta passando, inizia dunque a gridare: “Figlio di David, Gesù, abbi pietà di me!”. In questo grido vi è una grande spontaneità, vi è la sua fede giudaica nel Messia veniente, vi è l’attesa di una guarigione, della salvezza, vi è la forza di gridare e di farsi sentire, nella personale convinzione che quel rabbi può fare qualcosa per lui, dunque è un maestro capace di cura e di amore verso chi incontra.

Ma allora come adesso tra Gesù e chi lo cerca ci sono altri: qui è la folla, in altri casi sono i discepoli stessi, cioè la sua comunità, a diventare ostacolo, barriera tra Gesù e chi desidera incontrarlo. Attenzione, ciò accade anche per sante ragioni: paura di disturbare il maestro, volontà di proteggerlo dagli assalti della gente… Bartimeo, però, non desiste, si mette a gridare più forte, e così la sua invocazione raggiunge Gesù. Questi si ferma e lo manda a chiamare. Ciò avviene puntualmente, con le parole che tante volte i discepoli di Gesù avevano udito durante i suoi incontri con chi si trovava nella sofferenza o nel peccato: “Coraggio, alzati!”. Nell’invito espresso con “Coraggio!” (cf. Mt 9,2-22; 14,27; Mc 6,50) c’è il cuore di Gesù, che dice innanzitutto: “Coraggio, non temere, abbi fiducia!”. Questo il primo atteggiamento necessario all’incontro con Gesù: occorre uscire dal timore, dalla sfiducia, dalla mancanza di attesa, dalla visione di se stessi come non degni di essere da lui amati. A quel punto si tratta di alzarsi – verbo egheíro, che esprime anche il risorgere (cf. Mc 5,41; 6,14.16; 12,26; 14,28; 16,6)! – dal giaciglio alla postura dell’uomo che ha speranza (homo spe erectus). Una volta in piedi, si può ascoltare e comprendere che il Signore chiama ciascuno in modo personalissimo e pieno di affetto (“Chiama te”).

Quel cieco, allora, “getta via il suo mantello, balza in piedi e viene da Gesù”. È un povero che non ha nulla, se non il mantello, segno della sua identità di escluso, unica sua inalienabile proprietà (cf. Dt 24,13). Gettandolo, si spoglia di ogni pur minima sicurezza, per stare in piedi di fronte a Gesù. Quest’ultimo non presume il bisogno di chi lo ha invocato, non si rivolge a lui in modo meccanico e anonimo, ma proprio per conoscere dalle sue parole il bisogno che lo abita gli domanda: “Che cosa vuoi che io faccia per te?”. E Bartimeo risponde: “Rabbunì, mio grande maestro, che io veda di nuovo!”. La preghiera è desiderio espresso davanti a Gesù, e Bartimeo desidera vedere, ben oltre la semplice visione con gli occhi: vuole vedere anche con il cuore, vuole vedere nella fede, vuole essere nella luce e non nella tenebra…

Di fronte a questa preghiera Gesù allora replica: “Va’, la tua fede ti ha salvato”, parole che egli ha ripetuto spesso di fronte a chi gli chiedeva salvezza (cf. Mc 5,34 e par.; Lc 7,50; 17,19; 18,42). “Va’”, cioè “non essere più paralizzato dalla cecità, rimettiti in cammino, cammina nella luce, perché la tua fede, cioè la tua fiducia nel cercare, nel chiedere, in questo sconosciuto che sono io”, dice Gesù, “ti ha salvato”. Straordinario, Gesù non dice: “Io ti ho salvato”, bensì: “La tua fede ti ha salvato”. Guarigione non solo fisica quella di Bartimeo, ma salvezza che lo investe interamente: infatti, “subito si mette a seguire Gesù lungo la strada”. Si pone alla sequela di Gesù, come i discepoli che sempre lo seguono (cf. Mc 1,18; 2,14.15; 5,37, 6,1; 8,34; 10,21.28.32; 11,9; 14,51.54; 15,41), vanno dietro a lui (cf. Mc 1,17.20; 8,33.34). Colui che era cieco, ai bordi della strada, mendicante, dopo l’incontro con Gesù è capace di seguirlo come un discepolo, verso Gerusalemme. Di più, il suo grido rivolto a Gesù – “Figlio di David!” – subito dopo viene ripreso dalla folla, durante l’ingresso di Gesù nella città santa: “Benedetto il Regno veniente di David nostro padre!” (Mc 11,10). Si potrebbe dire che è questo cieco ad aver intonato per primo le grida di gloria nei confronti di Gesù…

Questo episodio è molto di più di un semplice racconto di miracolo, come il lettore di Marco può ormai capire. Gesù sta per entrare nella città santa per la sua passione e morte, ma i suoi Dodici discepoli lungo tutto quel cammino sono rimasti ciechi. Ascoltavano le sue parole ma non capivano, mostrando di essere ben lontani dal vedere gli eventi come li vedeva Gesù: prima Pietro (cf. Mc 8,32), poi tutti e Dodici (cf. Mc 9,34), infine Giacomo e Giovanni (cf. Mc 10,35-37) sono sembrati ciechi di fronte a ogni rivelazione fatta loro da Gesù. Ma ora ogni lettore può identificarsi con questo cieco di Gerico; deve solo prendere coscienza della propria cecità, gridare al Signore: “Abbi pietà di me!” e avere fede che egli può strapparlo dalla tenebra e fargli vedere ciò che i suoi occhi non riescono a vedere. Sì, in quel mettersi in cammino dietro a Gesù, Bartimeo è per noi più esemplare dei Dodici. E allora? Ognuno di noi si metta davanti al Signore Gesù e, guardando a lui con fede e attesa, si scoprirà non vedente. Allora abbia la forza e il coraggio di gridargli solo: “Signore, abbi pietà di me”, “Kýrie eleison”, questa invocazione brevissima eppure così completa rivolta a lui, con piena fiducia che egli può salvarci.

Commento al Vangelo di ENZO BIANCHI 
Sabato, 17 Ottobre 2015 07:43

Tra voi non è così

359Nel vangelo secondo Marco dopo ognuno dei tre annunci della passione fatti da Gesù nella sua salita a Gerusalemme è registrata una scena di incomprensione da parte dei discepoli. Dopo il primo annuncio (cf. Mc 8,31), è Pietro che arriva a contestare le parole di Gesù (cf. Mc 8,32), facendosi “ostacolo” – “Satana” (Mc 8,33), come lo chiama Gesù  sul cammino che Dio ha assegnato a suo Figlio. Quando Gesù afferma per la seconda volta la necessitas passionis (cf. Mc 9,31), tutti i discepoli, come intontiti, non comprendono, anzi si mettono a discutere su chi tra loro può essere considerato il più grande (cf. Mc 9,32-34).

Nel brano evangelico di questa domenica, dopo il terzo annuncio della sua sofferenza e morte, passaggio inevitabile verso la resurrezione (cf. Mc 10,32-34), sono Giacomo e Giovanni che mostrano quanto sono distanti dal modo di pensare di Gesù. I due fratelli hanno seguito Gesù fin dall’inizio del suo ministero pubblico, sono i suoi primi compagni insieme a Pietro e ad Andrea, hanno abbandonato tutto, famiglia e professione, per stare con lui (cf. Mc 1,16-20), e in qualche modo si sentono gli “anziani” della comunità. Essendo figli di Salome, probabilmente sorella di Maria, la madre di Gesù (cf. Mc 15,40; Mt 27,56; Gv 19,25), sono cugini di Gesù, dunque suoi parenti, appartenenti alla famiglia, al clan, e per questo pensano di vantare precedenze sugli altri. Eccoli allora presentarsi a Gesù per dirgli ciò che pensano di “meritare” per l’avvenire, quando Gesù, il Re Messia, stabilirà il suo regno: “Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”. È una pretesa più che una domanda, fatta da chi ragiona esattamente come tante volte facciamo noi nel quotidiano: le relazioni contano, dunque occorre rivendicare il loro peso… E questo non avviene solo tra noi uomini e donne, fratelli e sorelle, perché anche nei confronti di Dio vantiamo pretese: siamo noi i credenti, siamo noi i cristiani, dunque presso Dio dobbiamo avere una precedenza sugli altri…

Gesù risponde a Giacomo e Giovanni con infinita pazienza: “Non sapete quello che chiedete”. Risposta anche ironica, perché Gesù sa che nella sua vera gloria, quella sulla croce, alla sua destra e alla sua sinistra ci saranno due malfattori, crocifissi e suppliziati come lui. Vi è qui lo scontro tra due visioni della gloria: i due discepoli la intendono come successo, potere, splendore, mentre Gesù l’ha appena indicata nel servizio, nel dono della vita, nell’essere rigettato in quanto obbediente alla volontà di Dio. Per questo egli tenta ancora una volta di portare i discepoli a guardare non alla gloria come termine finale, ma al cammino che conduce alla vera gloria, quella che essi neppure riescono a immaginare. E lo fa ponendo loro una domanda: “Potete bere il calice che io sto per bere, o ricevere l’immersione nella quale io devo essere immerso?”.

Gesù chiede innanzitutto se sono disposti a bere “il calice della sofferenza”, espressione biblica per indicare la sofferenza da subire (cf. Sal 75,9; Is 51,17.22, ecc.). Si ricordi che Gesù stesso nell’agonia del Getsemani sarà tentato di allontanare da sé quel calice: “Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice!” (Mc 14,36)… Nella sequela di Gesù, nel condividere la sua strada e la sua sorte, vi è per i discepoli una sofferenza da accogliere, senza rivolte e senza la tentazione di esserne esenti. Non solo, c’è anche un’immersione, un “andare sotto”, un affogare momentaneo nei “flutti della morte” (Sal 18,5), che sarà un evento prima per Gesù, ma che poi dovrà essere condiviso da chi si sente coinvolto nella sua vita e vuole stare con lui ovunque egli vada (cf. Ap 14,4). Viene qui impiegato il termine greco báptisma (e il verbo corrispondente baptízein), di cui non comprendiamo più il significato: battesimo è immersione, è andare sott’acqua, è affogare come creatura vecchia per uscire dall’acqua come creatura nuova. Si noti l’insistenza del testo originale, come appare da una traduzione alla lettera: “Potete voi con l’immersione con cui sono immerso essere immersi?”. Ecco il battesimo, che dà inizio sacramentalmente alla vita cristiana, ma che deve diventare esperienza, vita concreta, fino al momento finale della morte, quando i flutti ci travolgeranno, e poi dopo la morte, quando Dio ci chiamerà alla vita eterna attraverso la resurrezione.

Giacomo e Giovanni, sempre “boanèrghes, cioè ‘figli del tuono’” (Mc 3,17), rispondono affermativamente alla domanda di Gesù, e capiranno solo più tardi il prezzo di questa disponibilità: quando Marco scrive il vangelo, intorno all’anno 70, sa che nel 44 Giacomo era stato martirizzato da Erode a Gerusalemme (cf. At 12,2) e Giovanni secondo alcune tradizioni farà la stessa fine… In ogni caso, Gesù accoglie questa loro spontanea professione di disponibilità alla croce, ma ricorda anche che non spetta a lui concedere di sedere alla sua destra o alla sua sinistra, ma “è per coloro per i quali è stato preparato” dal Padre (passivo divino). Sta di fatto che questa che questa richiesta dei due fratelli – che Matteo, per riguardo a Giacomo e a Giovanni, pone in bocca alla loro madre (cf. Mt 20,20) – suscita subito una reazione sdegnata negli altri con-discepoli, che li contestano per gelosia e perché infastiditi dalla loro pretesa.

Allora Gesù li chiama tutti e dodici intorno a sé e dà loro una lezione molto istruttiva, perché è un’apocalisse del potere mondano, politico. Dice: “Voi sapete”, perché basta guardare, osservare, “che coloro i quali sono considerati i governanti delle genti dominano, spadroneggiano su di esse, e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così (Non ita est autem in vobis)”. Attenzione, Gesù non dice: “Tra voi non sia così”, facendo un augurio o impartendo un comando, ma: “Tra voi nonè così”, ovvero, “se è così, voi non siete la mia comunità!”. Non è possibile che la comunità cristiana abbia come modello il potere mondano, che si lasci conformare a ciò che fanno i governi, quasi sempre ingiusti e spesso totalitari: il governo nella comunità cristiana è “altro”, oppure non è governo, ma dominio. D’altra parte, Gesù non nega la necessità di un governo nella società umana, ma lo legge nella sua realtà, come si manifesta in concreto. Sì, a volte c’è qualcuno che merita il governo perché sa esercitarlo nella giustizia, ma è evento raro, perché le forze mondane, i poteri oscuri lo rimuovono presto…

Ecco dunque la vera “costituzione” data alla chiesa: una comunità di fratelli e sorelle, che si servono gli uni gli altri, e tra i quali chi ha autorità è servo di tutti i servi. Nella chiesa non c’è possibilità di acquisire meriti di anzianità, di fare carriera, di vantare privilegi, di ricevere onori: occorre essere servi dei fratelli e delle sorelle, e basta! Il fondamento di questa comunità è proprio l’evento nel quale il Figlio dell’uomo, Gesù, si è fatto servo e ha dato la sua vita in riscatto per le moltitudini, cioè per tutti. Gesù non ha dominato, ma ha sempre servito fino a farsi schiavo, fino a lavare i piedi, fino ad accettare una morte ignominiosa, assimilato ai malfattori. Sì, Gesù è il Servo sofferente tratteggiato dal profeta Isaia nel brano che in questa domenica ascoltiamo come prima lettura: “Dopo il suo intimo tormento”, cioè dopo aver conosciuto la sofferenza, “il giusto mio Servo” – dice il Signore – “giustificherà le moltitudini (rabbim), egli si addosserà le loro iniquità” (Is 53,11).

Questo vangelo non riguarda solo la comunità storica di Gesù, i Dodici, ma riguarda soprattutto noi, la chiesa oggi. In particolare, riguarda quelli che nella comunità cristiana esercitano un servizio, sempre tentati di farlo diventare dominio, potere, sempre tentati di lavorare per sé e non per il bene della comunità.
SB-Espressione di fede e condivisione di gioia a S. Brigida per la Festa Liturgica di S. Giovanni Leonardi, Fondatore dell’Ordine della Madre di Dio e  Patrono dei Farmacisti. Al Triduo di preparazione  tenuto  dal vice parroco della Parrocchia, P Seelan ,omd, è seguita la celebrazione della giornata festiva di Venerdì 9 ottobre con le messe del mattino e la messa solenne concelebrata nelle ore pomeridiane. Ma il momento più solenne è stato Domenica 11 ottobre  con la presenza di Sua Em.za Rev.ma il Cardinale Sepe, che ha presieduto la Messa solenne della sera, cui hanno partecipato vari Religiosi Leonardini e Confratelli delle Parrocchie del III Decanato con Il Decano Don Giuseppe Carmelo. Sentita e partecipata la presenza di numerosissimi Farmacisti appartenenti all’Ordine con il Presidente, Dott. Vincenzo Santagada e all’Unione Cattolica Farmacisti Italiani di Napoli con la Presidente  Dott.ssa Angela Lupoli.

Nell’Omelia il Cardinale con la sua calorosa parola ha messo in evidenza l’attualità della figura e dell’insegnamento di S. Giovanni Leonardi, specialmente in relazione alla professione del farmacista cristiano, che sa trasmettere all’ammalato oltre alla medicina del corpo le medicine del medico celeste. Il Leonardi  giovane farmacista, che trova il tempo da dedicare all’approfondimento della propria fede, il fantasioso sacerdote, che nell’insegnamento del catechismo fatto con vivacità vede la chiave per un rinnovamento della fede nei più giovani, il riformatore santo che comincia da se stesso per proporre agli altri un serio lavorio interiore di cui tutta la Chiesa ha bisogno. Poche pennellate per rendere la figura del Leonardi amabile  e perciò attualissima oggi, per la ricca eredità di opere da lui compiute e che hanno lasciato il segno nella Chiesa.
Lunedì, 12 Ottobre 2015 21:05

I sogni dell’Africa diventano realtà

Nig-2015-«I have a dream» («Io ho un sogno») è il titolo del discorso tenuto da Martin Luther King il 28 agosto del 1963 davanti al Lincoln Memorial di Washington, al termine di una marcia di protesta per i diritti civili: in esso esprimeva la speranza che un giorno la popolazione di colore avrebbe goduto degli stessi diritti dei bianchi. Anch’io ho avuto dei sogni con l’Africa da quanto mi sono arrivato in Nigeria nel 2005. Vedevo un bosco, una foresta che incuteva timore e preoccupazione, ma sognavo con un giardino! Vedevo dei seminaristi spauriti e fragili, sognando di vederli un giorno forti e maturi religiosi dell’Ordine della Madre di Dio.  Vedevo bambini che cercavano qualcuno che volesse aprire il cammino della vita, dandogli educazione e futuro, sognando di offrire una  scuola, una  casa di affetto e di rispetto. Mi sono svegliato ed era realtà.

Si, ieri, mi sono svegliato e ho visto tutto quello che il sogno aveva di concreto. Ieri era il giorno di san Giovanni Leonardi, il 9 ottobre. Mi sono svegliato nel nostro seminario intitolando al santo in Nigeria e ho potuto lodare il Signore in un bellissimo  giardino che fino a pochi anni fa era la foresta. Poi sono andato a Amakoia, un villaggio poco distante, dove anche i primi seminaristi dell’Ordine avevano una casa d’affitto, sono stato ricevuto da centinaia di bambini  nella scuola “St. Leonardi Nursey & Primary School” che l’Ordine della Madre di Dio ha costruito con l’appoggio della  Conferenza Episcopale Italiana, con l’aiuto della EsseGiElle.  È stato fantastico vedere quei volti piccoli e occhi grandi che sprizzavano gioia. Lì, con il visitatore P. Lourdu, abbiamo fatto la prima Vista Canonica alla casa dell’assunta inaugurata il 15 agosto del 2014. Li c’erano due religiosi sacerdoti, un professo semplice, sette postulanti. Era una bella comunità.

Sono ritornato al seminario di San Giovanni Leonardi e il giorno dopo, il 10 ottobre, ho visto religiosi giovani e forti che hanno detto “Si” a Cristo con la Professione Solenne. Erano Eneji Emmanuel ed  Ajogo Michael che si sono consacrati a Dio seguendo l’esempio del loro fondatori. È stata una mattina indimenticabile. Piena di colori, di canti, di danze per dire a tutto il mondo che il sogno è realtà.

P. Francesco Petrillo
9-otto-15Durante la solenne concelebrazione eucaristica presieduta dal Signor Cardinale Giovanni Battista Re prefetto emerito della Congregazione per i Vescovi è stato ricordato il Fondatore dei Chierici Regolari della Madre di Dio nel giorno in cui la Chiesa ne celebra la memoria liturgica. “Luminosa figura di sacerdote che ci fa respirare quel rinnovamento spirituale che è anelito del popolo di Dio di ogni tempo”. Così il presule durante l’omelia della messa celebrata nel santuario parrocchiale di Santa Maria in Portico in Campitelli che venera le spoglie di San Giovanni Leonardi. “Egli seppe coinvolgere ed attira a sé gli altri per condurli a Cristo” e fondando l’Ordine della Madre di Dio intuì che con tale istituzione “Dio avesse più diritto nella società degli uomini”. Aiutato da grandi santi come Filippo Neri si spese perché “Dio fosse al centro della vita”: Era possibile percepire nel santo lucchese, i tratti di “una grande umanità animata dal desiderio per il bene”. L’affermazione della centralità di Cristo nella sua vita rivelò: “una spiritualità segnata da una profonda amicizia con lui che fece crescere anche negli altri”. Nel suo servizio di riformatore e visitatore apostolico: “cercò di migliorare le strutture della Chiesa, puntando sempre a migliorare il cuore umano”. Oggi ricordiamo il Leonardi in un tempo in cui la crisi morale e dei valori sembra prevalere, ma “al di sotto di questa crisi ce n’è una che è alla radice di tutte: la mancanza di fede in Dio.” In effetti: “gli uomini e le donne del nostro tempo non trovano più orientamento e devono guardare al cielo superando il loro egoismo”. Al termine della liturgia eucaristica animata dalla Cappella Musicale di Santa Maria in Campitelli diretta dal M° Di Betta, il Cardinale accompagnato dai sacerdoti celebranti e da un gruppo di farmacisti cattolici, ha reso omaggio alle reliquie del Santo.

10 ottobre 2015
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