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lawrenceIl Diacono Lawrence sarà ordinato sacerdote in 04 Luglio 2015, alle ore 17,00 nella Chiesa di Sacro cuore di Gesù in T. Sindalaicherry in India. Il vescovo di Kottar Mons. Peter Remigious viene a presiedere la messa e imporrare le mani sul nostro Diacono. Il giorno dopo 05 Luglio mattina alle ore 08,00 nella stessa chiesa il nuovo sacerdote presiederà la sua prima messa. Insieme con Diacono Lawrence l'Ordine della Madre di Dio rende lode e grazie al Signore per il dono del nuovo sacerdote.

01 Giugno 2015
aperturaIl Vescovo Lorenzo Chiarinelli presiederà la concelebrazione eucaristica per l'apertura della Causa dei Servi di Dio Cosimo Berlinsani e Anna Moroni Venerdì 5 giugno ore 9,45 a San Giovanni in Laterano presso l'altare papale (non più nella Chiesa delle Suore Oblate a via Cavour). I sacerdoti concelebranti si troveranno in sagrestia alle 9,15 portando il camice.

31 maggio 2015
Sabato, 30 Maggio 2015 17:22

La Triunità di Dio

340Domenica scorsa con la Pentecoste, pienezza delle energie della resurrezione di Cristo, abbiamo terminato di vivere il tempo pasquale e siamo così entrati nel tempo per annum. Una recente consuetudine liturgica ci impone però di celebrare in questa domenica la festa della Santissima Trinità, idea non biblica, astratta e insufficiente per farci contemplare con umiltà il mistero del nostro Dio vivente. In realtà questa festa sarebbe più onorata se la si chiamasse con il nome di Triunità di Dio. Questo titolo, infatti, afferma che Dio è uno – come recita lo Shema‘ Jisra’el (cf. Dt 6,4) –, ma è nello stesso tempo comunione plurale, comunione del Padre e del Figlio e dello Spirito santo: un’unica vita divina, ma vissuta nella pluralità, nella sinfonia di soggetti uniti da un unico amore.

Ma proprio perché l’idea della Trinità è insufficiente nel “narrare” il Dio che nessuno ha mai visto (cf. Gv 1,18) né contemplato (cf. 1Gv 4,12), dovremmo non pensare a questa “idea” ma a una realtà: in Dio c’è ormai l’umanità del Figlio morto come uomo ma risuscitato nella forza dello Spirito santo, sicché non si può più parlare di Dio senza parlare dell’uomo e, soprattutto, non si può più andare a Dio se non attraverso “la via” (Gv 14,6) che è suo Figlio Gesù Cristo, uomo nato da Maria, vissuto tra di noi, morto e risorto nella nostra storia. Ecco allora cosa annunciare in questa festa che succede al tempo pasquale: Dio si è unito all’umanità in modo indissolubile e l’umanità trasfigurata è in Dio attraverso il Figlio Gesù che, come era disceso, così è salito al cielo (cf. Ef 4,9-10), “costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della resurrezione dei morti” (Rm 1,4). Questo testo paolino, il prologo della Lettera ai Romani (cf. Rm 1,1-7) sarebbe forse stato più indicato come seconda lettura della festa odierna…

Fatte queste precisazioni, cerchiamo di ascoltare il brano evangelico previsto dalla liturgia, la conclusione del vangelo secondo Matteo. Vorrei sostare soprattutto su una frase molto semplice: “Gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato”. Secondo Matteo solo Maria di Magdala e l’altra Maria, dopo aver trovato la tomba vuota, avevano visto Gesù, il quale le aveva salutate con il dono messianico della pace: “Shalom!” (Mt 28,9). Poi aveva comandato loro di essere messaggere dell’annuncio pasquale presso gli apostoli: “Non temete; andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno” (Mt 28,10). I discepoli intimi di Gesù, ascoltato l’annuncio da parte delle donne discepole, eseguono puntualmente quel comando.

E così quel gruppo di dodici, ridotto a undici perche Giuda se n’è andato, ritorna sulle strade della Galilea. Devono lasciare Gerusalemme, la città santa, e tornare dov’era iniziata la predicazione di Gesù (cf. Mt 4,12-17): nella Galilea delle genti, terra periferica, terra spuria, abitata da ebrei e non ebrei, terra cosmopolita… Devono andare nel mondo, tra gli uomini e le donne, per affermare che tutti sono chiamati alla fede in Cristo, che ormai – come scrive Paolo – “non c’è più né giudeo né greco” (Gal 3,28), per dare vita a una nuova comunità, non più legata da carne e sangue, da lingua o cultura, da vicinanza o lontananza, ma una comunità che trovi in Gesù Cristo un legame, un fondamento al suo credere, sperare e amare. Potremmo dire che quel soggetto di undici persone è “il piccolo gregge” (Lc 12,32), la chiesa sulle strade del mondo, un piccolo gregge non chiuso in un recinto, non pauroso, non autoreferenziale, ma disposto a stare in mezzo ad altri, fossero anche dei lupi. Non è una gran cosa, né quegli undici sono uomini straordinari: di qualcuno si è tramandato qualche fatto della vita, di altri sappiamo appena il nome; povera gente, in mezzo alla quale vi sono anche alcuni che dubitano su Gesù e sulla sua missione…

Eppure, obbedendo all’indicazione delle donne vanno verso la montagna, il nuovo Nebo (cf. Dt 32,49; 34,1), il luogo della manifestazione della volontà di Dio. Sulla montagna Gesù aveva predicato il Vangelo delle beatitudini (cf. Mt 5,1-7,29), sulla montagna aveva moltiplicato il pane (cf. Mt 15,32-39), sulla montagna era stato trasfigurato dal Padre davanti ai discepoli (cf. Mt 17,1-8): ora sulla montagna gli undici devono ascoltare le ultime parole del Risorto, le sue ultime volontà. Ed ecco che salgono sul monte indicato e, non appena vedono Gesù, si prostrano, si inginocchiano a terra e adorano. Gesù, che li aveva visti l’ultima volta all’inizio della passione, quando “tutti i discepoli lo abbandonarono e fuggirono” (Mt 26,56), ora li vede ai suoi piedi, in adorazione: gesto pieno di significato, perché quando un uomo si inchina di fronte a un altro, compie uno dei più grandi gesti umani. Come già accennato, essi adorano Gesù anche tra i dubbi, perché in loro i dubbi rimangono e rimarranno fino alla morte, vinti però e trascesi dall’amore: sì, perché l’amore vince i dubbi della fede, questa è la dinamica nel cuore del cristiano…

Gesù allora si avvicina a questi uomini, chiesa di peccatori fragili e dubbiosi, ma chiesa che sa amare e adorare il suo Signore. Questa è la chiesa quotidiana che noi conosciamo e siamo, non un’istituzione trionfante e che si impone, ma un gruppetto di povere persone che dicono per amore: “Signore, aumenta la nostra fede (cf. Lc 17,5)! Signore, noi veniamo meno, qualcuno se ne va, ma vogliamo restare con te! Signore, siamo fuggiti davanti alla sofferenza e alla morte ma, non appena ci hai richiamati, eccoci qui, inchinati davanti a te! Vieni Signore Gesù, vieni presto, Maràna tha (1Cor 16,22; cf. Ap 22,20)!”.

Gesù, in risposta, si rivolge agli undici con la sua parola di Kýrios, di Signore risorto e vivente, dicendo loro: “Una volta andati tra le genti dell’umanità intera, fino ai confini del mondo, fate discepoli, cioè cercate che gli uomini e le donne accolgano la buona notizia del Vangelo, mettendosi alla sua scuola. E immergeteli (questo significa letteralmente il verbo “battezzare”) nel Nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. È l’unica volta in cui nel Nuovo Testamento si parla di battesimo-immersione nel Nome della Triunità di Dio, mentre di solito si attesta il battesimo nel Nome di Gesù, l’essere immersi con lui nella sua morte e resurrezione, o nello Spirito che rimette i peccati e santifica. Qui Matteo opera un accrescimento teologico, perché nel suo vangelo Gesù rivela il Padre parlando sovente di lui e rivela lo Spirito promettendolo ai discepoli (cf. Mt 10,20). La comunità dei discepoli ha le sue radici nella vita triunitaria del Padre e del Figlio e dello Spirito santo.

Infine, il Signore Gesù proclama se stesso come colui che ha ricevuto ogni potere in cielo e sulla terra. La sua signoria è ben più grande di quella di Ciro, imperatore del mondo (cf. 2Cr 36,23, ultimo versetto della Bibbia ebraica!), perché è quella del Figlio dell’uomo che riceve da Dio stesso il potere (cf. Dn 7,13-14). È una signoria che chiede ai suoi servi solo di vivere il comandamento nuovo dell’amore (cf. Gv 13,34; 15,12); è la signoria di colui che ci assicura di essere l’‘Immanu-El, il Dio-con-noi (cf. Is 7,14; Mt 1,23), sempre, senza mai abbandonarci. Dio ormai non è più nell’alto dei cieli, “Santo, Santo, Santo” (Is 6,3) – ossia Altro, Altro, Altro – ma è il Dio-uomo, il Dio-con-noi, uomo tra gli uomini, che in Gesù ci accompagna sulle vie del mondo; e la comunione di Dio, comunione plurale, è la nostra dimora.

Commento al Vangelo di Enzo Bianchi 
341Il lezionario della chiesa universale prevede per la solennità della Pentecoste il vangelo giovanneo che narra l’apparizione di Gesù risorto ai discepoli la sera del primo giorno della settimana, quando egli soffiò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito santo” (cf. Gv 20,19-23). Il lezionario della chiesa italiana prevede invece, a seconda dell’annata, altri due brani tratti dal quarto vangelo, che in verità sono costruzioni un po’ artificiali, in quanto costituiti da versetti appartenenti a contesti diversi. In questa annata B il testo è composto da due versetti in cui Gesù promette ai discepoli lo Spirito santo (cf. Gv 15,26-27) e da altri quattro nei quali egli specifica l’azione dello stesso Spirito nei giorni della chiesa (cf. Gv 16,12-15). Anche se non è un’operazione facile commentare versetti non consecutivi, tentiamo comunque di farlo, con spirito d’obbedienza.

Gesù è ancora a tavola con i suoi discepoli dopo la lavanda dei piedi (cf. Gv 13,1-20) e pronuncia parole di addio, perché è “venuta l’ora di passare da questo mondo al Padre” (Gv 13,1). Sono parole che la chiesa giovannea ha custodito, meditato, interpretato e finalmente messo per iscritto, con un linguaggio e uno stile diversi da quelli delle parole uscite dalla bocca di Gesù. Potremmo dire che il discepolo amato e la sua chiesa hanno fatto “risorgere” le parole di Gesù e qui nel vangelo le ritroviamo nella loro verità, ma pronunciate dal Risorto glorioso, il Kýrios.

Sappiamo dai vangeli sinottici che Gesù aveva parlato dello Spirito santo, disceso su di lui nel battesimo (cf. Mc 1,10 e par.), e lo aveva promesso come dono ai discepoli, in particolare per l’ora della persecuzione (cf. Mc 13,11 e par.), quando lo Spirito sarà la loro autentica difesa, “parlando in loro” e “insegnando loro ciò che occorre dire”. Ed ecco la stessa promessa nel vangelo secondo Giovanni (cf. Gv 14,26-27): quando verrà il Parákletos – il chiamato accanto come difensore, soccorritore e consolatore, lo Spirito santificatore che Gesù, salito al Padre, invierà –, allora lo Spirito darà testimonianza a Gesù, così come faranno i discepoli stessi, che sono stati con lui fin dal principio della sua missione.

L’alito di Dio, che Gesù soffierà sui discepoli dopo la sua resurrezione, la vita stessa di Dio che è la vita di Gesù, sarà vita nei discepoli e li abiliterà a essere suoi testimoni. Avverrà così una sinergia tra la testimonianza dello Spirito e quella del discepolo riguardo a Cristo: anche quando gli uomini sentiranno estranei i cristiani, anche nelle persecuzioni e nelle ostilità subite da parte del mondo, nella potenza dello Spirito i cristiani continueranno a rendere testimonianza a Gesù. Questa è la funzione decisiva dello Spirito santo che, come fu “compagno inseparabile di Gesù” (Basilio di Cesarea), dopo che Gesù lo ha inviato dalla sua gloria presso il Padre, è il compagno inseparabile di ogni cristiano.

Riguardo a questo soffio divino Gesù dice ancora qualche parola (cf. Gv 16,12-15). Egli è consapevole di aver narrato, spiegato (exeghésato: Gv 1,18) Dio ai discepoli per alcuni anni con il suo comportamento e le sue parole, soprattutto amando i suoi fino alla fine (cf. Gv 13,1), ma sa anche che avrebbe potuto dire molte cose in più. Gesù sa che c’è una progressiva iniziazione alla conoscenza di Dio, una crescita di questa stessa conoscenza, che non può essere data una volta per tutte. Il discepolo impara a conoscere il Signore ogni giorno della sua vita, “di inizio in inizio, per inizi che non hanno mai fine” (Gregorio di Nissa). La vita del discepolo deve essere vissuta per una comprensione sempre più grande, e tutto ciò che una persona vive (incontri, realtà, ecc.), attraverso l’energia dello Spirito santo apre una via, approfondisce la conoscenza, rivela un senso. Ognuno di noi lo sperimenta: più andiamo avanti nella vita personale e nella risposta alla chiamata del Signore nella storia, più lo conosciamo! Il Vangelo è sempre lo stesso, “Gesù Cristo è lo stesso ieri e oggi e per sempre” (Eb 13,8), non cambia, ma noi lo conosciamo meglio proprio vivendo la nostra storia e la storia del mondo.

Per questo Gesù confessa di non aver detto tutto: ha detto l’essenziale riguardo a Dio, quello che basta alla salvezza, ma la conoscenza è infinita. Ora Gesù è nel Regno con il Padre, ma lo Spirito santo che egli invia ai discepoli ricorda loro le sue parole (cf. Gv 14,26), le approfondisce, rende comprensibile ciò che essi non hanno compreso su di lui durante la sua vita (cf. Gv 2,22; 12,16). Nuovi eventi e realtà sono illuminati e compresi proprio grazie alla presenza dello Spirito santo. Ma si faccia attenzione:

a Cristo non succede lo Spirito santo,

all’età del Figlio non succede quella dello Spirito,

perché lo Spirito che procede dal Padre è anche lo Spirito del Figlio (questo significa l’affermazione: “Tutto quello che il Padre possiede è mio”), inviato da lui e suo compagno inseparabile. Dove c’è Cristo c’è lo Spirito e dove c’è lo Spirito c’è Cristo! E la parola di Dio è sempre la stessa: in Mosè, nei profeti e nei salmi (cf. Lc 24,44) c’è una stessa parola di Dio, uscita dalla sua bocca insieme al suo soffio.

Leggendo la Pentecoste alla luce di queste parole di Gesù del quarto vangelo, oggi confessiamo che l’alito, il soffio di vita di Dio è il soffio di Cristo, è lo Spirito santo ed è il nostro soffio di cristiani: un soffio che scende su di noi e in noi costantemente e che, soprattutto nell’eucaristia, ci rinnova, donandoci la remissione di tutti i nostri peccati.

Commento al Vangelo di Enzo Bianchi
cosmo-e-anna-okIl Vescovo Lorenzo Chiarinelli presiederà la concelebrazione eucaristica per l'apertura della Causa dei Servi di Dio Cosimo Berlinsani e Anna Moroni Venerdì 5 giugno ore 9,45 a San Giovanni in Laterano presso l'altare papale (non più nella Chiesa delle Suore Oblate a via Cavour). I sacerdoti concelebranti si troveranno in sagrestia alle 9,15 portando il camice.

17 maggio 2015

  pdf  INVITO  


340Il brano evangelico che la chiesa ci propone per la solennità dell’Ascensione del Signore è tratto dalla conclusione aggiunta più tardi al vangelo secondo Marco da parte di “scribi cristiani”, che lo hanno completato con una chiusura meno brusca di quella del racconto originale (cf. Mc 16,1-8). Sono versetti che non si trovano nei manoscritti più antichi e sono sconosciuti a molti padri della chiesa. Tuttavia la chiesa li ha accolti come contenenti la parola di Dio, tanto quanto il resto del vangelo, e infatti sono conformi alle Scritture (secundum Scripturas: 1Cor 15,3.4); sono addirittura una sintesi dei finali degli altri vangeli (soprattutto dei sinottici), che raccontano gli eventi riguardanti Gesù risorto, asceso al cielo e glorificato dal Padre.

Secondo questa conclusione, Gesù apparve al gruppo dei Dodici privi di Giuda, agli Undici dunque, mentre giacevano a tavola. Costoro che, chiamati da Gesù alla sua sequela, erano stati coinvolti nella sua vita e avevano appreso da lui un insegnamento autorevole per almeno tre anni, nell’alba pasquale avevano ascoltato da Maria di Magdala l’annuncio della resurrezione di Gesù (cf. Mc 16,9-10), ma a lei “non credettero” (epístesan: Mc 16,11); anche i due discepoli di Emmaus avevano raccontato come il Risorto si era manifestato sulla strada (cf. Mc 16,12-13), “ma non credettero (epísteusan) neppure a loro” (v. 13). Per questo, quando Gesù “alla fine apparve anche agli Undici, mentre erano a tavola, li rimproverò per la loro incredulità (apistía) e durezza di cuore (sklerokardía), perché non avevano creduto (epísteusan) a quelli che lo avevano visto risorto” (Mc 16,14).

Questa è la verità che va detta, ed è stata detta nella chiesa (prova ne sia questo testo) quando non erano ancora dominanti il trionfalismo e l’adulazione delle autorità. Gli Undici sono stati preda del dubbio profondo, sono stati increduli dopo la morte di Gesù come lo erano stati durante la sua sequela, quando egli era stato costretto a rivolgersi alla sua comunità dicendo: “Non capite ancora e non comprendete? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non ascoltate?” (Mc 8,17-18). Situazione disperante quella dei futuri testimoni, assaliti dall’incredulità! Come potranno annunciare la buona notizia, se neppure loro credono? In questa chiusura – si faccia attenzione – dopo i rimproveri Gesù non mostra segni per portare i suoi discepoli a credere, come la trafittura delle mani e dei piedi (cf. Lc 24,39-40) o quella del costato (cf. Gv 20,20.27)…

Ma nonostante il persistere di questa poca fede, Gesù invia proprio loro in una missione senza confini, veramente universale; una missione cosmica, si potrebbe anche dire: “Andati in tutto il mondo, annunciate la buona notizia a tutta la creazione”. Dovunque vanno, in tutte le terre e in tutte le culture, i discepoli di Gesù devono annunciare la buona notizia che è il Vangelo di Gesù. Non ci sono più le barriere del popolo eletto di Israele, non ci sono più i confini della terra santa: davanti a quei poveri discepoli titubanti c’è tutta la creazione! Il Vangelo non può essere contenuto né in un popolo, né in una cultura, e neppure in un modo religioso di vivere la fede nel Dio unico e vero: gli inviati devono lasciarsi alle loro spalle terra, famiglia, legami e cultura, per guardare a nuove terre, a nuove culture, nelle quali il semplice Vangelo potrà essere seminato e dare frutti abbondanti.

Quella che viene richiesta è un’opera di spogliazione ben più faticosa di quella dai semplici mezzi economici: si tratta, infatti, di abbandonare le certezze, gli appoggi intellettuali, gli assetti religiosi praticati fino a quel momento, e di immergersi in altre culture. Certo, per fare questo ci vuole fede nel Vangelo, nella sua “potenza divina” (dýnamis theoû: Rm 1,16), mentre occorre smettere di porre fede nella propria elaborazione o nei propri progetti culturali. Più spogli si va, più il Vangelo è annunciato con franchezza e, come seme non rivestito caduto a terra, germoglia subito e più facilmente. Quanti errori abbiamo commesso nell’evangelizzazione, confidando nei nostri mezzi, nelle nostre “ideologie”, e, in parallelo, disprezzando le culture degli altri, che sovente abbiamo mortificato e distrutto per imporre la nostra! E la sterilità del seme del Vangelo, soprattutto in Asia, dove esistevano culture che potevano concorrere con la nostra occidentale, è un segno evidente dell’errore fatto. Il Vangelo è caduto a terra come un seme ma, essendo un seme troppo rivestito, per causa nostra, non ha potuto marcire né, di conseguenza, germogliare.

Ecco il compito dei cristiani: senza febbre “proselitista”, senza cercare di guadagnare a ogni costo dei credenti, percorrendo i mari e le terre come i farisei (cf. Mt 23,15), dovunque si trovino i cristiani annuncino il Vangelo innanzitutto con la vita; poi, se Dio lo concede, con le parole. Sono parole di Francesco di Assisi, riprese da papa Francesco… Gesù non chiede di convincere né di imporre, ma di vivere il Vangelo con gioia, perché questa è la testimonianza. Oggi ci sono troppi leader cristiani che passano di palco in palco “per dare testimonianza”, finendo per raccontare la storia del loro movimento o della loro comunità. C’è solo da arrossire nel chiamare questo comportamento “testimonianza”; c’è da vergognarsi per una tale contraffazione del Vangelo! Meglio quei cristiani dubbiosi, magari come gli Undici, che tentano semplicemente e umilmente ogni giorno di essere cristiani dove si trovano, vivendo il Vangelo e amando Gesù Cristo al di sopra di tutto e di tutti. È di questi cristiani e cristiane che abbiamo bisogno, di discepoli e discepole, non di militanti!

Gesù, salito al cielo, non ci ha abbandonati, ma vivendo nella gloria di Dio ha lasciato noi poveri uomini e donne a dare al mondo segni che egli è risorto e vivente, che lavora insieme a noi e conferma la nostra povera parola con la Parola potente del Vangelo e con i segni del suo operare.

Commento al Vangelo di Enzo Bianchi 
Sabato, 09 Maggio 2015 14:59

Il comandamento nuovo

339Nei discorsi di addio” (cf. Gv 13,31-16,33), attraverso i quali Giovanni ci svela le parole del Signore risorto alla sua comunità, per due volte viene annunciato il “comandamento nuovo”, cioè ultimo e definitivo: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri (Gv 13,34); “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15,12, all’interno del brano di questa domenica).

Sono parole certamente consegnate ai discepoli, ai discepoli di Gesù che in ogni tempo lo seguono, ma questo comandamento non è limitante, non è riduttivo delle parole sull’amore comandato da Gesù addirittura verso i nemici e i persecutori (cf. Mt 5,44; Lc 6,27-28.35). L’amore è sempre amore di chi dà la vita per i propri amici, è sempre amore che ha avuto la sua epifania sulla croce, dunque amore di Dio per il mondo, per tutta l’umanità (cf. Gv 3,16). Questo amore è innanzitutto ciò che Dio è, perché “Dio è amore” (1Gv 4,8.16); è ciò che è vita del Padre e del Figlio nella comunione dello Spirito santo; è amore che Gesù di Nazaret ha vissuto fino alla fine, fino all’estremo (eis télos: Gv 13,1).

Per noi l’abisso di amore estatico che è Dio stesso, è incommensurabile, e riusciamo solo a leggerlo guardando alla vita e alla morte di Gesù, che avendo spiegato Dio (exeghésato: Gv 1,18), ci ha narrato il suo amore. Con tutta l’autorevolezza di chi ha vissuto l’amore fino all’estremo, Gesù ha potuto dire: “Come il Padre ha amato me, così anche io ho amato voi”. Ancora una volta queste parole di Gesù ci dovrebbero scandalizzare, perché appaiono come una pretesa: Gesù pretende di aver amato i suoi discepoli come Dio sa amare e di questo amore di Dio dice di avere conoscenza, di averne fatto esperienza.

Come può un uomo dire questo? Eppure il Kýrios risorto lo afferma e lo dice a noi che lo ascoltiamo. In questi nove versetti per nove volte risuona la parola “amore/amare” e per tre volte la parola “amici”: questo amore discende da Dio Padre sul Figlio, dal Figlio sui discepoli suoi amici e dai discepoli sugli altri uomini e donne. È un amore che si incarna e si dilata per poter raggiungere tutti. È quasi impossibile seguire adeguatamente il discorso di Gesù; possiamo però almeno segnalare che in lui l’amore di Dio è diventato amore dei discepoli, i quali possono rispondere a questo amore discendente, donato a loro gratuitamente, dimorando in tale amore, ossia restando saldi nel realizzare la volontà di Gesù, ciò che lui ha comandato.

E questa volontà consiste, in estrema sintesi, nell’amare l’altro, ogni altro. Riusciamo a capire cosa Gesù ci chiede nel farci dono del suo amore? Non ci chiede innanzitutto che amiamo lui, che ricambiamo il suo amore, amandolo a nostra volta. No, la risposta al suo amore è l’amare gli altri come lui ci ha amati e li ha amati. La restituzione dell’amore, il contro-dono, che è la legge dell’amore umano, deve essere amore rivolto verso gli altri. Allora questo amore fraterno è compiere la volontà di Dio, dunque amarlo in modo vero, come Dio desidera essere amato. Gesù ha risposto all’amore del Padre amando noi, e noi rispondiamo all’amore di Gesù amando l’altro, gli altri. Per questo tutta la Legge, tutti i comandamenti sono ridotti a uno solo, l’ultimo e il definitivo, che relativizza tutti gli altri: l’amore del prossimo.

In questa pagina del quarto vangelo Gesù ha anche l’audacia di reinterpretare il rapporto tra Dio e il credente tracciato da tutte le Scritture prima di lui. Il credente è certamente un servo (termine che indica un rapporto di sottomissione e di obbedienza) del Signore, ma Gesù dice ai suoi che ormai non sono più servi, bensì sono da lui resi amici: “Non vi chiamo più servi … ma vi ho chiamati amici (phíloi), perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi”. Intimità più profonda di quell’amicizia di Abramo (cf. Gc 2,23) o di Mosè (cf. Es 33,11) con Dio; intimità che è comunione di vita, comunione di amore. Il discepolo di Gesù è stato da lui scelto, l’amore di Cristo lo ha preceduto e il frutto che Cristo attende è l’amore per gli altri. Questo sarà anche l’unico segno di riconoscimento del discepolo cristiano nel mondo (cf. Gv 13,35): null’altro, anzi il resto offusca l’identità del cristiano e non permette di vederla.

Che cosa dunque fare come discepoli di Gesù? Credere all’amore (cf. 1Gv 4,16), amare gli altri perché Dio ci ha amati per primo (cf. 1Gv 4,19) e non cedere mai alla tentazione di pensare che amiamo Dio solo desiderandolo o attendendolo: no, lo amiamo se realizziamo il comandamento nuovo dell’amore reciproco, a immagine di quello vissuto da Gesù. L’amore presente nel desiderio di Dio può essere una grande illusione, e Giovanni lo ribadisce con forza: “Se uno dice: ‘Io amo Dio’ e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20). Stiamo attenti, soprattutto noi persone investite di un ruolo e di un’immagine ecclesiale: facilmente siamo bugiardi proprio nel confessare il nostro amore per Dio!

Commento al Vangelo di Enzo Bianchi 
Sabato, 02 Maggio 2015 16:40

Gesù, vite vera

338338Nel vangelo secondo Giovanni ci sono parole di Gesù alle quali purtroppo siamo abituati e che dunque ascoltiamo o leggiamo in modo superficiale. In verità confesso che queste parole mi sembrano folli, mi sembrano pretese assurde, che un uomo equilibrato non può avanzare. Solo quando le leggo o le ascolto quali parole del Risorto vivente, del Kýrios, del Signore in mezzo alla sua chiesa (cf. Gv 20,19.26), mi sento di accoglierle come parole di verità e di vita. Ma allora mi danno quasi le vertigini e mi fanno sentire inadeguato di fronte alla rivelazione del mistero… I brani giovannei che ascoltiamo nel tempo pasquale e che innanzitutto testimoniano – come si vedeva domenica scorsa – le affermazioni di Gesù “Io sono…”, possono urtarci, possono sembrare incomprensibili… eppure sono parole del Signore!

La pagina odierna è tratta dai “discorsi di addio” (cf. Gv 13,31-16,33), parole – lo ripeto – del Risorto. Gesù afferma: “Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore, il vignaiolo”. Per un ebreo credente la vite è una pianta familiare, che insieme al grano e all’olivo contrassegna la terra di Israele; è la pianta da cui si trae “il vino, che rallegra il cuore umano” (Sal 104,15). Proprio la vite era diventata l’immagine del popolo di Israele, della comunità del Signore: vite scelta, strappata all’Egitto e trapiantata (cf. Sal 80,9-12), coltivata con cura e amore dal Signore, che da essa attende frutti (cf. Is 5,4). Gesù, rivelando di essere lui la vite vera (alethiné) – come Geremia proclama di Israele: “Ti ho piantato come vite vera (alethiné)” (Ger 2,21) – si definisce l’Israele autentico, piantato da Dio, dunque pretende di rappresentare tutto il suo popolo. Egli è la vite vera e Dio, chiamato con audacia “Padre”, è il vignaiolo, colui che la coltiva. I profeti nella loro predicazione si erano più volte serviti di questa immagine per parlare dei credenti: Dio è il vignaiolo che ama la sua vigna ma da essa è frustrato (cf. Is 5,1-7; Ger 2,21; 5,10; 6,9; 8,13); Dio è il vignaiolo che piange la sua vigna, un tempo rigogliosa ma ora bruciata (cf. Os 10,1; Ez 15,1-8); Dio è il vignaiolo invocato in soccorso della sua vigna devastata e recisa (cf. Sal 80,13-17). Sì, Gesù, il Messia di Israele, è la vigna che ricapitola in sé tutta la storia del popolo di Dio, assumendo i suoi peccati e le sue sofferenze.

Gesù però è anche la vigna che è la sua comunità, la chiesa, e – come dice Paolo servendosi della metafora del corpo che, seppur formato dal capo e dalle membra è uno solo (cf. Rm 12,4-8; 1Cor 12,12-27) – egli è la pianta e i credenti in lui sono i tralci: ma la pianta della vite è sempre una! Il Padre vignaiolo, avendo cura di questa vite e desiderando che faccia frutti abbondanti, interviene non solo lavorando la terra ma anche con la potatura, operazione che il contadino fa d’inverno, quando la vite non ha foglie e sembra morta. Conosciamo bene la potatura necessaria affinché la vite possa aumentare la linfa e così produrre non fogliame, non tralci vuoti, ma grappoli grandi, nutriti fino alla maturazione. Quando il contadino pota, allora la vite “piange” dove è tagliata, fino a quando la ferita guarisce e si cicatrizza. La potatura tanto necessaria è pur sempre un’operazione dolorosa per la vite, e molti tralci sono tagliati e gettati nel fuoco…

Gesù non ha paura di dire che anche suo Padre, Dio, deve compiere tale potatura, che la vita che egli è deve essere mondata e che dunque deve sentire nel suo stesso corpo le ferite. È la parola di Dio che compie questa potatura, perché essa è anche giudizio che separa; del resto, non era stata proprio la parola di Dio a mondare la comunità di Gesù, con l’uscita dal cenacolo di Giuda il traditore, la sera precedente la passione (cf. Gv 13,30)? Per i discepoli di Gesù c’è la necessità di rimanere tralci della vite che egli è, di rimanere (verbo méno) in Gesù (facendo rimanere in loro le sue parole) come lui rimane in loro. Rimanere non è solo restare, dimorare, ma significa essere comunicanti in e con Gesù a tal punto da poter vivere, per la stessa linfa, di una stessa vita. Ognuno di noi discepoli di Gesù è un tralcio che, se non porta frutto, viene separato dalla vite e può solo seccare ed essere gettato nel fuoco; ma se resta un tralcio della vite, allora dà frutto e, per la potatura ricevuta dal Padre, darà frutto buono e abbondante!

Ma in questa parola di Gesù ci viene anche ricordato che non spetta né alla vigna né alla vite potare, e dunque separare, staccare i tralci: solo Dio lo può fare, non la chiesa, vigna del Signore, non i tralci. E non va dimenticato che, se anche la vigna a volte può diventare rigogliosa e lussureggiante, resta però sempre esposta al rischio di fare fogliame e di non dare frutto. Per questo è assolutamente necessario che nella vita dei credenti sia presente la parola di Dio con tutta la sua potenza e la sua signoria: la Parola che monda (verbo kathaíro) chiesa e comunità; la Parola che, come spada a doppio taglio (cf. Eb 4,12), taglia il tralcio sterile, pota il tralcio rigoglioso e prepara una vendemmia abbondante e buona.

Commento al Vangelo di Enzo Bianchi 
Sabato, 02 Maggio 2015 12:15

Lettere circolare del P. Generale

P.-Francesco-PetrilloLettere circolare del P. Generale con il messaggio per l'anno vita Consacrata insieme gli appuntamenti dei prossimi messi. ci sono il calendario per la visita canonica del P. Generale con il suo covisitatore. un altro appuntamento per tutti noi, apertura delle due cause, il 5  giugno p. v. alle ore 12,00  a  san Giovanni in Laterano. 
Vi saluto tutti con affetto e vi benedico

P. Franceco Petrillo
Rettore  Generale OMD
 

pdf  LETTERA DEL PADRE GENERALE  
Sabato, 25 Aprile 2015 16:06

Gesù, il pastore santo, buono e bello

337Nei brani evangelici che la chiesa (dopo quelli delle manifestazioni del Risorto) ci propone per il tempo pasquale, sempre tratti dal quarto vangelo, è il Gesù Cristo risorto che parla alla sua comunità, rivelando la sua identità più profonda, identità che viene da Dio suo Padre. Il Signore vivente per sempre è più che mai autorizzato a presentarsi con il Nome stesso di Dio: “Io sono” (Egó eimi). Quando Mosè aveva chiesto a Dio che gli parlava dal roveto ardente di rivelargli il suo Nome, Dio aveva risposto: “Io sono” (Es 3,14), Nome ineffabile, nome indicibile inscritto nel tetragramma JHWH.

Il Cristo vivente si rivela dunque come “Io sono”, e specifica: “Io sono il pane della vita” (Gv 6,35); “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12); “Io sono la porta delle pecore” (Gv 10,7); “Io sono la resurrezione e la vita” (Gv 11,25); “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6); “Io sono la vite” (Gv 15,5). Nel nostro brano, dopo essersi presentato come la porta dell’ovile, Gesù dichiara per due volte: “Io sono il pastore buono e bello” (kalós), riassumendo in sé l’immagine di tutti i pastori donati da Dio al suo popolo (Mosè, David, i profeti), ma anche l’immagine di Dio stesso, invocato e lodato come “Pastore di Israele” (Sal 80,2), dei credenti in lui.

Gesù aveva evocato più volte l’immagine del pastore e del gregge da lui pascolato (cf. Mt 9,36; 10,6; 15,24, ecc.), ma ora con questa rivelazione parla di se stesso, si proclama Messia e Inviato da Dio per condurre l’umanità alla vita piena, “venuto perché tutti abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). Il buon pastore è l’opposto del pastore mercenario, che fa questo mestiere solo perché pagato, che guarda alla ricompensa per il lavoro, ma che in verità non ama le pecore: queste non gli appartengono, non sono destinatarie del suo amore e non contano nulla per lui. Lo dimostra il fatto che, quando arriva il lupo, egli abbandona le pecore e fugge via: vuole salvare se stesso, non le pecore a lui affidate!

Al contrario, l’amore del buon pastore per le sue pecore provoca addirittura il suo esporre, deporre la vita per la loro salvezza. Non solo egli spende la vita stando in mezzo alle pecore, guidando il gregge, conducendolo in pascoli dove gli sia possibile sfamarsi; ma può anche accadere che la minaccia per la vita del gregge diventi minaccia per la vita stessa del pastore. È questo il momento in cui il buon pastore si rivela. Questa solidarietà, questo amore sono però possibili solo se il pastore non solo non è un mercenario, ma se conosce le sue pecore di una conoscenza particolare che lo porta a discernere e a riconoscere l’identità di ciascuna di esse: una conoscenza penetrativa che è generata dalla prossimità, dall’assidua custodia del gregge.

Gesù cerca di spiegare questa comunione reciproca evocando addirittura la conoscenza tra sé e il Padre, che lo ha inviato e del quale cerca di realizzare giorno dopo giorno la volontà: “Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre”. Tale comunione è certamente quella vissuta da Gesù nei suoi giorni terreni, all’interno della sua comunità, con i suoi discepoli e le sue discepole; ma è anche una comunione che trascende i tempi, in quanto sarà vissuta nella storia tra il Risorto e quanti egli attirerà a sé, chiamandoli da altri ovili. Venuto per tutti, non solo per Israele, e volendo portare tutti alla pienezza della vita, Gesù è consumato dal desiderio che vi sia un solo gregge sotto un solo pastore e che tutti i figli di Dio dispersi siano radunati (cf. Gv 11,52).

Dopo questa auto-rivelazione, ecco altre parole con cui Gesù esprime la sua intimità, la sua comunione con Dio: “Per questo il Padre mi ama: perché io depongo la mia vita, per riceverla di nuovo”. Perché il Padre ama Gesù? Perché Gesù realizza la sua volontà, quella volontà che è amore fino al dono della vita. In Gesù c’è questo amore “fino all’estremo” (Gv 13,1), fino al dono della vita appunto, e c’è la fede di poterla riceverla di nuovo dal Padre. Si faccia qui attenzione e non si segua la traduzione italiana ufficiale della Bibbia, che compromette seriamente il senso delle parole di Gesù. Gesù non dice: “Il Padre mi ama perché offro la mia vita per riprenderla di nuovo” (sarebbe un giochetto!), ma “per riceverla di nuovo” (il verbo lambáno nel quarto vangelo significa sempre “ricevere” non “riprendere”). L’offrire la vita da parte di Gesù sta nello spazio della fede, non dell’assicurazione anticipata! Il comando del Padre è che lui spenda, offra la vita; e la promessa del Padre è che così potrà riceverla, perché “chi perde la sua vita la ritroverà, ma chi vuole salvarla la perderà” (cf. Mc 8,35 e par.; Gv 12,25). Nessuno prende la vita a Gesù, nessuno gliela ruba, e la sua morte non è né un destino (una necessità) né un caso (gli è andata male…): no, il suo è un dono fatto nella libertà e per amore, un dono di cui egli è stato consapevole lungo tutta la sua vita, dicendo ogni giorno il suo “sì” all’amore. Non ha dato la sua vita per ragioni religiose, sacre, teologiche, ma perché quando si ama si è capaci di dare per gli amati tutto se stessi, tutto ciò che si è.

Sulla tomba di un cristiano della fine del II secolo, un certo Abercio, si legge questa iscrizione: “Sono il discepolo di un pastore santo che ha occhi grandi; il suo sguardo raggiunge tutti”. Sì, Gesù è il pastore santo, buono e bello, con occhi grandi, che raggiungono tutti, anche noi oggi. E da questi occhi noi ci sentiamo protetti e guidati.

Commento al Vangelo di Enzo Bianchi 
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