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Con Cristo
misurate le cose
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Con Cristo
misurate le cose
Gesù è a una svolta della sua missione, ha messo i suoi discepoli davanti allo sconcerto del primo annuncio della passione: il Figlio dell'uomo deve soffrire molto, essere rifiutato, venire ucciso. E i dubbi sono legione, è tutto così difficile da capire e da vivere. E allora anche lui si ferma, vuole vederci chiaro, ed è davanti al Padre che va per cogliere il senso profondo di ciò che sta per accadere. Nel contatto con il Padre anche la nostra realtà si illumina, ciò che è nascosto appare in tutta la sua chiarezza ed evidenza, come il volto di Gesù: Mentre pregava il suo volto cambiò di aspetto, si trasformò. Pregare trasforma. Pregare ti cambia dentro, tu diventi ciò che contempli, ciò che ascolti, ciò che ami... Preghi e ti trasformi in Colui che preghi; entri in intimità con Dio, che ha un cuore di luce, e ne sei illuminato a tua volta. La preghiera è mettersi in viaggio: destinazione Tabor, un battesimo di luce e di silenzio; destinazione futuro, lampada ai tuoi passi è la Parola e il cuore di Dio. Gesù sale su di un monte. I monti sono come indici puntati verso il cielo, verso il mistero di Dio, raccontano la vita come una ascensione verso più luce e più cielo. Scriveva il filosofo latino Seneca: fino a che sei all'osteria, puoi negare Dio. Ma non è facile negarlo quando sei nel silenzio della tua camera o della natura. Siamo mai saliti sul Tabor, toccati dalla gioia, dalla dolcezza di Dio? Vi è mai successo di dire come Pietro: Signore, che bello! Vorrei che questo momento durasse per sempre. Facciamo qui tre tende...? Si trattava di una luce, una bellezza, un amore che cantavano dentro. E una voce diceva: è bello stare su questa terra, che è gravida di luce. È bello essere uomini, dentro una umanità che pian piano si libera, cresce, ascende. È bello vivere. Perché tutto ha senso, un senso positivo, senso per sempre. Il cristianesimo è proprio la religione della penitenza e della mortificazione, come molti pensano? Il Tabor dice «no». E che fare con le croci? Fissare gli occhi solo su di esse o all'opposto ignorarle? Dio fa di più: ci regala quel volto che gronda luce, su cui tenere fissi gli occhi per affrontare il momento in cui la vita gronda sangue, come Gesù nell'orto degli ulivi. Pietro fa l'esperienza che Dio è bello e lo annuncia. Noi invece abbiamo ridotto Dio in miseria, l'abbiamo mostrato pedante, pignolo, a rovistare nel passato e nel peccato. Restituiamogli il suo volto solare: un Dio bello, grembo di fioriture, un Dio da gustare e da godere, come Francesco: «tu sei bellezza, tu sei bellezza», come Agostino: tardi ti ho amato. bellezza tanto antica e tanto nuova. Allora credere sarà come bere alle sorgenti della luce.
"Guardiamo alla roccia da cui siamo stati tratti(Is, 51,1), Padri e fratelli carissimi, cioè a Giovanni Leonardi, fondatore della nostra congregazione sforzandoci, ad imitazione di cosi grande Padre, di amare, venerare, pregare con tutto il cuore la Vergine Maria Madre di Dio".
Questo invito che il P. Ippolito Marracci, il grande apologeta dell'Immacolata Concezione di Maria rivolgeva tre secoli fa ai suoi confratelli esortandoli alla riscoperta della devozione mariana di San Giovanni Leonardi, risuona oggi per noi, figli spirituali del Santo, alla vigilia di un Capitolo Generale, in tutta la sua gioiosa e pressante urgenza. la riscoperta quasi casuale di questo testo bellissimo del Marrracci è un forte invito per noi a ritornare alle sorgenti della nostra spiritualità mariana: "ad patram unde excisumus", alla cava da cui siamo stati intagliati, secondo la forte espressione di Is. 51,1, utilizzata da Marracci. ciò significa andare alle radici del nostro carisma, riscoprendo le "fondamenta mariana" che il Leonardi pose come base sicura per ogni successiva costruzione, perché il nostro Santo, secondo la suggestiva espressione del suo primo biografo"gittò la Beata Vergine nei fondamenti della sua cara benché minima Congregazione".
Ecco perché come ricordano le nostre Costituzioni: "il nome che noi portiamo'della Madre di Dio' è un impegno di fede e di azione mariana, la devozione alla Madonna deve costituire il nostro distintivo nella vita privata ed apostolica" (Cost. 70).
La sua presenza ecclesiale è quella di Madre che coopera alla generazione mistica della Chiesa, ancella che si mette a completo servizio della comunità nascente. Ecco perché la Chiesa ha in Maria il suo modello il suo "tipo", come afferma esplicitamente il Concilio. Maria è il "Vangelo vivente" del ristoro e tale è rimasta per chi vuole conoscere Gesù più intimamente e più attivamente operare per Lui nell'ordine della Fede, della Speranza e della Carità (LG 63).
E' in questo quadro ecclesiale che va vista la sorgente copiosa della spiritualità mariana di San Giovanni Leonardi. Se Maria occupa un posto cosi importante ed unico nella Chiesa, anzi di più, se Maria è il modello stesso di essere Chiesa, come pensare di poter prescindere dalla sua esemplarità, come fare a meno di invocarla teneramente, come non modellare la propria santità sulla sua? proprio per questo parliamo di un "vissuto mariano" del nostro Santo e non di una particolare esposizione della mariologia del suo pensiero, perché la sua devozione non è speculativa ma esistenziale, tesa cioè a riprodurre nella propria vita gli atteggiamenti che furono propri della Vergine di Nazareth.
Questo ambio percorso del "vissuto mariano" di S. Giovanni Leonardi ha radici molto lontane nella sua spiritualità e si identifica a tal punto con il carisma che il Marracci, nella già citata lettera, afferma: "arse di un amore cosi grande verso la B. V. Maria da sembrare di essere stato inviato da Dio principalmente per il suo culto e per rinnovarne ed accrescerne la devozione". Cosi ci sostenga e ci accompagni il patrocino della Vergine Maria Assunta in cielo, segno di sicura speranza e di consolazione per il pellegrinate popolo di Dio, l'intercessione del nostro pare Fondatore san Giovanni Leonardi e a preghiera di tutte le altre comunità e noi unite dai vincoli di fraternità.
P. Francesco Petrillo
Rettore Generale OMD.
1° gennaio, è dedicata alla giornata mondiale della pace: quella pace che può solo essere dono di Dio e compito obbediente degli uomini e delle donne della terra; quella pace che Cristo, il Messia re di pace (cf. Is 9,5-6; Lc 2,14; Ef 2,14-18), ha portato, e che ancora e sempre può portare, se lo invochiamo e ci impegniamo a osservare i suoi comandi. Cercheremo dunque semplicemente di dare il primato al messaggio del Vangelo e lasceremo che da esso scaturisca il messaggio della pace, senza offuscare con le nostre parole sulla pace l’annuncio evangelico schietto e chiaro.A Natale il testo del vangelo secondo Luca ci ha narrato come avvenne la nascita di Gesù a Betlemme e come questo evento così umano e poco appariscente fu rivelato a poveri pastori che quella notte vegliavano sulle loro greggi (cf. Lc 2,1-14). Ebbene, quei pastori, che non hanno ascoltato passivamente l’annuncio dell’angelo ma l’hanno accolto in “un cuore capace di ascolto” (1Re 3,9), si mettono in cammino per verificare ciò che hanno udito. Senza indugio, in una fretta escatologica, vanno e trovano, contemplano quell’umile “segno” (Lc 2,12) comunicato loro dall’angelo: “Maria, Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia”. Avendo constatato la veridicità dell’annuncio, diventano essi stessi annunciatori perché ridicono, proclamano che quel neonato è il Salvatore, il Messia, il Signore: tutto questo in un’umanità reale, nella debolezza di un infante che giace non in una culla regale, ma in una greppia di una stalla della campagna di Betlemme. È impossibile per noi seguire il processo della fede dei pastori, ma è certo che essi hanno compreso che l’annuncio dell’angelo andava letto “al contrario”, non seguendo cioè l’immaginazione sollecitata dalle sue parole. Un liberatore, infatti, è un uomo forte; un Messia è un re pieno di potere e circondato da una corte; un Kýrios è un Signore, nome di Dio ma anche titolo dell’imperatore romano regnante, Cesare Augusto: tutto il contrario di ciò che appare agli occhi di questi pastori!La trasmissione delle parole ascoltate dall’angelo, ridette dai pastori a quanti incontravano, compresi Maria e Giuseppe, desta grande stupore (cf. anche Lc 2,33). E Maria, che aveva ricevuto la stessa buona notizia dall’angelo (cf. Lc 1,26-38), ora se la sente ripetere a voce alta dai pastori. Nel suo cuore, dunque, parole ed eventi si intrecciano, vengono pensati e contemplati, vengono interpretati con l’aiuto della sua fede-fiducia nel Dio che compie la sua parola (cf. anche Lc 2,51). Anche alla nascita di Gesù Maria ha dovuto ripetere quell’“amen”, quel “sì” pronunciato al momento del concepimento (cf. Lc 1,38) e ha dovuto ridirlo nella fede e nell’amore per Dio, perché non capiva pienamente tutto ciò che avveniva e che stava trasformando la sua vita…Il Vangelo, la buona notizia, sta facendo la sua corsa sulla terra (cf. 2Ts 3,1), e i pastori che fanno ritorno alle loro greggi compiono le stesse azioni degli angeli, quando li avevano visitati nella notte (cf. Lc 2,13-14): “glorificavano e lodavano Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro”. Per loro è chiaro che la parola del Signore è efficace e si realizza sempre (cf. Is 55,10-11; Eb 4,12-13): se la si ascolta e a essa si aderisce, allora si può vedere, constatare la sua puntuale realizzazione!La narrazione evangelica prosegue raccontando ciò che accade per ogni figlio nella discendenza di Abramo (cf. Gen 17,9-14; Lc 1,59): al compimento dell’ottavo giorno dalla nascita, il bambino viene circonciso, cioè riceve nella carne del proprio corpo un taglio indelebile, che testimonia l’essere in alleanza con Dio. Purtroppo noi cristiani non diamo importanza a questo evento riguardante Gesù, al punto che la riforma liturgica post-conciliare ha stabilito di togliere dal titolo della festa la menzione della circoncisione. Eppure questo atto è importante, perciò va ricordato e sottolineato. Non farlo significa non riconoscere lo spessore della storia e, in definitiva, non accogliere la piena umanità di Gesù, ebreo nato da ebrei nel popolo santo di Israele. La circoncisione è il segno dell’alleanza, un segno permanente nella carne, e proprio perché i cristiani non saranno più tenuti a praticarla, Gesù Cristo ha invece voluto assumerla in fedeltà alla comunione con il suo popolo, portatore delle promesse e delle benedizioni.La chiesa, nell’occultare o svuotare di significato la circoncisione di Gesù (la Lettera di Barnaba giunge addirittura ad affermare che Maria e Giuseppe circoncisero Gesù su istigazione di un angelo maligno; cf. 9,4!), dimentica che Gesù non è stato un uomo qualsiasi o ideale, ma è stato sárx, carne, in un corpo discendente della stirpe di Abramo: Gesù era un ben Jisra’el, un figlio di Israele! Nel libro dell’Esodo sta scritto che nessun incirconciso può partecipare alla Pasqua, in quanto è fuori dall’alleanza (cf. Es 12,48): per questo Gesù è inserito nell’alleanza, per poter portare a compimento la Pasqua. Noi cristiani, venuti dalle genti, proprio “in lui”, in Cristo, “siamo stati circoncisi non mediante una circoncisione fatta da mano d’uomo con la spogliazione del corpo di carne, ma con la circoncisione di Cristo” (cf. Col 2,11). Dunque Gesù fu circonciso e noi lo ricordiamo innanzitutto a noi stessi, ma anche agli ebrei, perché Gesù appartiene a loro e perché “la salvezza viene dai giudei” (Gv 4,22). Gesù unisce per sempre la chiesa e Israele e, nello stesso tempo, su di lui la chiesa e Israele si separano! Questa ferita non dovrà mai essere taciuta, e chi è sentinella sulle mura della chiesa dovrà sempre gridarla, in obbedienza alle Scritture e al loro compimento.Insieme alla circoncisione viene anche dato il Nome “Gesù” a quel neonato: Nome che è la sua vocazione, Jeshu‘a, “il Signore salva” (cf. anche Mt 1,21). Sì, il Signore salva, perché “ha visitato e riscattato il suo popolo e ha suscitato per noi una forza di salvezza nella casa di David, suo servo” (Lc 1,68-69). È il Nome datogli dall’angelo (cf. Lc 1,31), nell’ora del concepimento da parte di Maria, Nome che esprime la vocazione e dunque la missione di Gesù. Quel neonato salva Israele e le genti della terra, i pagani: è lui che farà dei due un popolo solo; è lui che farà cadere il muro di separazione, è lui chesarà la pace (cf. Ef 2,14), perché fino a quando durerà il conflitto tra Israele e le genti non vi sarà pace sulla terra.Chi oggi celebra la giornata mondiale della pace si ricordi di questa buona notizia e non la offuschi con le proprie iniziative o con trovate pastorali sempre nuove, che impediscono al Vangelo di assumere la sua assoluta centralità ed egemonia nella vita personale ed ecclesiale.
Ogni anno in questa notte di Natale noi ascoltiamo sempre lo stesso vangelo, la stessa buona notizia, in una breve pagina di Luca. Eppure questa ripetitività non ci disturba, anzi è per noi una grazia grande, perché ci permette di verificare come il Vangelo, la buona notizia, sia inesauribile, sempre nuova, compresa in modo sempre più profondo, perché noi l’ascoltiamo non solo come “sta scritto” ma anche con la nostra vita che passa di anno in anno, con gli eventi che viviamo, sempre diversi, e con la gioia o il dolore che essi ci procurano. Mettiamoci dunque ancora una volta in ascolto.Il vangelo secondo Luca testimonia una storia iniziata con l’annuncio dell’angelo a Zaccaria, sacerdote nel tempio di Gerusalemme (cf. Lc 1,5-25). La parola di Dio indirizzata a Zaccaria gli rivela non solo la nascita per lui di un figlio, ma anche la nascita di colui attraverso il quale Dio “visiterà e porterà la redenzione al suo popolo”: così, infatti, Zaccaria benedice il Signore (cf. Lc 1,68). Poi la rivelazione da parte di Dio raggiunge anche Maria di Nazaret: questa giovane vergine sarà la madre del Messia, e lo sarà per la potenza dello Spirito santo sceso su di lei per dichiarare che un Figlio così solo Dio lo poteva dare all’umanità (cf. Lc 1,26-38).“Si compiono” dunque “per Maria i giorni della gravidanza”, e si compiono mentre lei e Giuseppe si trovano a Betlemme, la città di David. Da Nazaret, dove abitavano, erano infatti saliti in Giudea, obbedienti al censimento imperiale ordinato da Cesare per tutta l’ecumene. Augusto, imperatore sebastós, cioè “degno di adorazione”, comanda sul mondo con tutta la sua forza e il suo potere, regna visibilmente, mentre il Figlio di Dio non solo nasce come tutti gli umani, nella fragilità e nella debolezza, ma nasce come figlio sconosciuto, fuori della sua terra, nella povertà di una stalla della campagna di Betlemme.Questo è lo scandalo dell’incarnazione di Dio! Le profezie che parlano di lui, lo preannunciano e lo acclamano, proprio alla sua nascita, come “bambino sulle cui spalle è il potere, il cui Nome è Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace” (cf. Is 9,5); e invece questo bambino appare debole, figlio di migranti, nato in incognito, senza che vi sia per lui un luogo degno, una casa! Il racconto di Luca, inoltre, è sobrio, essenziale, senza alcuna concessione allo straordinario. Una donna incinta partorisce un figlio in un riparo di pastori nella campagna di Betlemme. Sicché nessuno se ne accorge, nessuno di quelli che contano lo sa… Maria, la madre, lo partorisce nel dolore, come ogni donna, mentre il marito Giuseppe è là, solo, con lei; poi certamente deve averlo trattato come fanno tutte le madri con chi esce dal loro grembo, quindi lo ha avvolto in fasce e lo ha deposto in una mangiatoia per le pecore.Una nascita come tante e tra tante, eppure era la nascita di un uomo che solo Dio ci poteva dare, un uomo che era la forma stessa di Dio (cf. Fil 2,6), un uomo che era la Parola di Dio fatta carne (cf. Gv 1,14). Da quel momento Dio – possiamo dire – non solo era presente in mezzo a noi, ma era uno di noi, umanità della nostra umanità, fratello di ogni umano che è nel mondo. Ecco il grande mistero che celebriamo a Natale: l’Altissimo si è fatto bassissimo, l’Eterno si è fatto mortale, l’Onnipotente si è fatto debole, il Santo si è fatto solidale con i peccatori, l’Invisibile si è fatto visibile. In breve, Dio, cioè il non uomo, si è fatto umanità in Gesù, il figlio di Maria. Questo evento ha prodotto la crisi di ogni relazione nella quale Dio è Dio e l’uomo è un uomo, perché la trascendenza, la santità li separa. Con il Natale l’umanità è in Dio e Dio è nell’umanità, e non è più possibile dire e pensare Dio senza dire e pensare l’uomo. Proprio quel bambino dalla nascita fino alla morte racconterà Dio (cf. Gv 1,18: exeghésato) con la sua vita, le sue parole, il suo comportamento, con gli sguardi e le carezze, con le mani che abbracciano e curano, con il suo corpo offerto, dato, consegnato in mano ai violenti e ai malfattori.Questa è la singolarità del cristianesimo, che chiede alla fede cristiana di essere “una religione che continuamente esce dalla religione” (Marcel Gauchet), perché dopo questa nascita del Dio-uomo, prima c’è l’uomo e non il tempio,prima c’è l’uomo e non il sabato,prima c’è l’uomo e non la legge,prima c’è l’uomo santo e non la terra santa.Con questa nascita del Dio-uomo, che cosa può significare ancora l’espressione “Dio degli eserciti”, presente tante volte nei profeti e nei salmi, se Dio è un bambino disarmato? Che cosa può significare ancora l’espressione “Dio delle vendette” (Sal 94,1), se Dio è tra noi, debole a tal punto che noi umani dobbiamo avere cura di lui?Di questa rivelazione si fanno ministri i messaggeri di Dio, prima l’angelo che appare ai pastori, poi le schiere degli angeli che lodano Dio e riconoscono la sua gloria. Sì, proprio quei pastori, ritenuti indegni del culto al tempio e nelle sinagoghe, proprio quei pastori ritenuti ultimi nella società di Israele, sono i primi destinatari del Vangelo. A loro l’angelo del Signore, rischiarando le loro menti e i loro cuori, annuncia la buona notizia. Come già nel caso di Zaccaria (cf. Lc 1,19), si usa il verbo euanghelízomai, “portare la buona notizia del Vangelo”, ma qui in senso pieno e definitivo. È la buona e bella notizia annunciata a tutto il mondo, che da tanti secoli l’attendeva:Oggi a Betlemme, nella città di David,è nato per voi un Salvatore, che è il Messia Signore.Qui c’è tutta la fede cristiana: Gesù, uomo nato da Maria, è il Salvatore, il Messia, il Kýrios-Signore, cioè porta il Nome stesso di Dio! E questo messaggio come viene proclamato? Dalla semplicità di un neonato avvolto in fasce e deposto in una greppia: tutto è detto da una realtà umanissima, umile, quotidiana… la nascita di un bambino nella povertà!Amici e amiche care, tremo nel pensare e nel comunicarvi che questa è la nostra fede: umanissima, senza miracoli, senza nulla di straordinario; solo la vita umana nella sua realtà! Una parola attribuita a Gesù dai padri della chiesa dice: “Hai visto un uomo, hai visto Dio”. Sì, perché Dio ormai si vede, si incontra, si riconosce, si ama, si adora nell’uomo, nella donna che ogni giorno incontriamo.
Commento al Vangelo di ENZO BIANCHI
50° Anniversario di Consacrazione nell’Ordine della Madre di Dio di P. Raffaele Angelo Tosto Giornate di preparazione predicate da P. Rosario piazzolla, Vicario Generale OMD: Martedì 15 alle ore 18.30 “L’amore, la Misericordia” Mercoledì 16 alle ore 18.30: “Il manto, la prova, il rifugio” Giovedì 17 alle ore 18.30: “L’impegno, l’azione, il dono” Venerdì 18 Dicembre alle ore 18,30: Concelebrazione Eucaristica di Ringraziamento presieduta da S.E. Mons. Giovan Batista Pichierri
Cosa chiede Giovanni nella sua predicazione? L’evento che si compie è straordinario, unico in tutta la storia: Dio è tra gli uomini, uomo tra gli uomini, talmente uomo da aver avuto bisogno di un maestro (Giovanni), di una comunità di fratelli (quella del Battista), per “venire al mondo” nella sua soggettività adulta capace di prendere e di rivolgere la parola. Come era stato generato da Maria, educato da lei e da Giuseppe, così aveva avuto bisogno di un “tempo oscuro” nel deserto per essere iniziato alla sua missione. Sì, tutto avviene nella semplicità della vita umana quotidiana, e così anche ciò che il Battista chiede nella sua predicazione appartiene alla vita quotidiana. Affinché il popolo sia preparato all’incontro con il Veniente, Giovanni non richiede di fare sacrifici e olocausti, di recarsi più volte al tempio per partecipare alle solenni liturgie, di rispettare calendari liturgici o di fare particolari digiuni, ma chiede azioni umanissime. Ecco dunque le sue risposte alle domande che le folle gli pongono, domande che ogni essere umano, di ogni generazione, sempre rinnova nella storia: “Che cosa dobbiamo fare? Che fare?”.Innanzitutto egli afferma: “Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto”. Ecco ciò che bisogna fare in vista della venuta del Signore: condividere l’essenziale, cioè cibo, vestito, casa. Questo è sufficiente per dire che uno si è convertito, ha fatto metánoia, ha cambiato la sua vita in vista dell’incontro con il Signore veniente. Giovanni ci stupisce, perché non chiede ciò che ancora oggi la predicazione ecclesiastica chiede: liturgie, novene, pii esercizi… Questi infatti sono strumenti, solo strumenti per acquisire una più grande carità, per essere più facilmente capaci di condividere l’essenziale. Dopo aver incontrato Gesù, Zaccheo dà la metà dei suoi beni ai poveri (cf. Lc 19,8) e così la salvezza entra nella sua casa (cf. Lc 19,9); i giudei di Gerusalemme, diventati cristiani, condividono i loro beni (cf. At 2,44; 4,32). Noi cristiani, come tutti gli uomini religiosi, ci preoccupiamo invece così spesso di regole di purità, mentre il Vangelo ci chiede di preoccuparci di condividere ciò che abbiamo in casa, ciò che è nostro, con chi è nel bisogno: allora saremo nella vera purità (cf. Lc 11,41)!Vi sono poi alcune categorie specifiche di persone, presenti nell’uditorio di Giovanni, che gli pongono la stessa domanda: “Che cosa dobbiamo fare?”. È il caso dei pubblicani, esattori delle tasse in combutta con il potere imperiale e frequentatori di pagani. A loro il Battista non chiede cose straordinarie, non chiede neppure di abbandonare la loro professione, ma di viverla nella giustizia. Per questi funzionari tentati dal sopruso, dalla vessazione finanziaria, dal rubare nell’esigere le tasse, è sufficiente praticare una grande virtù: la giustizia. Anche i militari sono attratti da Giovanni, uomo così inerme, senza difesa, destinato a essere ucciso proprio da loro, esecutori degli ordini dei potenti di questo mondo, di quanti opprimono e dominano la povera gente e si fanno anche chiamare benefattori (cf. Lc 22,25). E Giovanni cosa chiede ai militari? Non di disertare, perché nella loro funzione c’è un compito necessario, quello di garantire la libertà e l’ordine di qualsiasi convivenza sociale; no, chiede di rinunciare alla violenza. Com’è facile la violenza per chi ha armi, com’è facile compiere denunce false, com’è facile – siccome le paghe sono normalmente base – rivalersi sulla gente, usando l’immunità professionale concessa a polizia e forze dell’ordine: quando si è più forti, diventa facilissimo schiacciare i deboli…Giovanni predica dunque una conversione che chiede un mutamento concreto del vivere quotidiano, un mutamento che cambia profondamente i rapporti interpersonali. In reazione a queste sue parole, si crea un clima di grande attesa nel popolo di Israele, al punto che sorgono domande su di lui: “Chi è questo Giovanni? È un profeta? È il Profeta (cf. Dt 18,15.18)? È Elia redivivo?”. Non appena Giovanni si rende conto di questi pensieri presenti tra i suoi ascoltatori, subito proclama con chiarezza: “Io sono solo uno che immerge nell’acqua, ma ecco, viene il più forte di me, a cui non sono degno di slegare i laccidei sandali. Egli vi immergerà in Spirito Santo e fuoco”. Tra le due immersioni, i due battesimi, c’è continuità ma anche differenza. Entrambi significano spogliazione dell’uomo vecchio segnato dalla logica del peccato e rinascita dell’uomo nuovo, ma il battesimo di Giovanni è solo un’anticipazione di quello definitivo: l’uno è immersione nell’acqua, l’altro nel fuoco dello Spirito santo. Quest’ultimo battesimo, l’immersione operata da Gesù, è quello che la comunità dei discepoli riceverà nel giorno di Pentecoste (cf. At 2,1-11), quando sarà resa nuovo popolo di Dio mediante la nuova alleanza, perché la Legge sarà scritta nei cuori (cf. Ger 31,31-33) e lo Spirito nuovo abiterà un cuore nuovo (cf. Ez 11,19; 36,26). E proprio perché annuncia questa immersione nel fuoco dello Spirito santo, Giovanni, in conformità alle Scritture alle quali obbedisce, deve annunciare che questo Veniente, questo più forte sarà giudice, con in mano il ventilabro del giudizio, della separazione tra grano e pula, tra giusti e ingiusti.Così, dice Luca, “Giovanni annunciava al popolo il Vangelo”: già lui, Giovanni, annuncia la stessa buona notizia di Gesù. Va però detto che questo suo discepolo, Gesù, da lui annunciato e presentato a Israele, lo deluderà nel realizzare la sua missione: sarà diverso e non sarà quel giudice che Giovanni aveva previsto. Giovanni si è dunque sbagliato? La sua predicazione è stata un’illusione (cf. Lc 7,18-19; Mt 11,2-3)? No, ma Dio la realizzerà solo alla fine dei tempi: per ora a Giovanni spetta il compiere ogni giustizia (cf. Mt 3,15), a Gesù l’annunciare e il fare misericordia. E Giovanni, in carcere, accetta ancora una volta, in piena obbedienza, di rinnovare la sua avventura della fede. Sì, come dirà Gesù, “tra i nati da donna nessuno è più grande di Giovanni” (Lc 7,28; cf. Mt 11,11).
Per l’evangelista Luca l’inizio dell’annuncio del Vangelo si ha con la chiamata e la missione di Giovanni il Battista, che non a caso egli ci presenta già come “colui che annuncia il Vangelo” (cf. Lc 3,18). Gesù, infatti, era nato a Betlemme circa trent’anni prima (cf. Lc 3,23), ma la sua vita era stata caratterizzata dal nascondimento. Quei tre decenni restano per tutti i vangeli “gli anni oscuri di Gesù”, nel senso che sappiamo che egli è stato allevato a Nazaret (cf. Lc 2,51-52), poi è cresciuto ed è diventato una persona matura: non conosciamo però con esattezza dove ciò sia avvenuto, anche se supponiamo che Gesù abbia trascorso quel tempo nel deserto, quale discepolo di Giovanni.Ecco allora il racconto solenne di Luca, che menziona proprio, e in posizione finale, di rilievo, il deserto. Vale la pena riportarlo alla lettera: “Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode principe della Galilea, e Filippo, suo fratello, principe dell’Iturea e della Traconìtide, e Lisània principe dell’Abilene, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio venne, cadde su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto”. Quest’ultimo è l’evento decisivo: la parola di Dio viene su un uomo, Giovanni, asceta che abita nel deserto di Giuda, e lo istituisce profeta, cioè porta-parola dello stesso Signore Dio. La profezia che da cinque secoli taceva in Israele si rende dunque di nuovo presente in uomo che, reso predicatore itinerante dalla Parola, percorre tutta la valle del Giordano, regione marginale situata tra la terra santa e il deserto, per far ritornare a Dio il suo popolo.Giovanni predica la conversione, ossia l’esigenza di un mutamento di mentalità, di comportamento e di stile di vita, e chiede che questa volontà, questa decisione che può avere origine solo nel cuore, sia accompagnata da un’azione semplice, umana: si tratta di lasciarsi immergere (questo, alla lettera, il senso del verbo “battezzare”) nelle acque del fiume Giordano. Questo atto è immagine di un affogamento: si va sott’acqua, si depone nell’acqua “l’uomo vecchio con i suoi comportamenti mortiferi” (Col 3,9; cf. Rm 6,6; Ef 4,22), e si viene fatti riemergere dalle acque come uomini e donne in grado di “camminare in una vita nuova” (Rm 6,4). Questa immersione, segno che significa un ricominciare, una novità, ed è compiuto pubblicamente, davanti a tutti e davanti al profeta che immerge, diventa un impegno. Non è una delle tante abluzioni prescritte dalla Torah per riacquistare la purità perduta, ma è un atto compiuto una volta per sempre, che indica una precisa opzione, che dovrà essere guida e criterio di tutta la vita che verrà. Conversione, ritorno sulla strada che porta a Dio, ritorno al Signore, rivolgersi a lui: ecco ciò che questa immersione significa.Secondo il vangelo (cf. anche Mc 1,4) in questo gesto è contenuta una grande novità: la remissione dei peccati da parte di Dio. Sì, quell’immersione, segno della volontà di conversione, è strettamente legata alla remissione, al perdono dei peccati per opera di Dio. È questa offerta potente di perdono da parte di Dio, è questo suo amore preveniente a causare la conversione, oppure è la conversione a causare il suo perdono? Nessun dubbio: “è Dio che produce in noi il volere e l’operare” (cf. Fil 2,13) e che sempre ci offre, ben prima che noi lo desideriamo o lo cerchiamo, il suo amore, che è misericordia infinita. Se noi predisponiamo tutto per ricevere questo amore, se sappiamo accoglierlo e dunque ci convertiamo, allora il dono del perdono dei peccati ci raggiunge e opera ciò che nessuno di noi potrebbe operare: i nostri peccati, il nostro aver fatto il male è cancellato e dimenticato da Dio, che ci guarda come creature irreprensibili perché perdonate e giustificate dalla sua misericordia. Questo è il Vangelo, la buona notizia che comincia a risuonare tra le dune e le rocce del deserto e il fiume Giordano, per opera di Giovanni: ormai un profeta è in mezzo al popolo, che accorre a lui per ascoltare la parola di Dio annunciata dalla sua voce.Giovanni, chiamato dalla parola di Dio caduta su di lui come cadeva sugli antichi profeti (cf. Ger 1,2; Ez 1,3), compie una missione ben precisa, preannunciata dal profeta Isaia (cf. Is 40,3-5): una missione, un ministero di consolazione. Non possiamo qui non fare memoria dei “monaci” della comunità di Qumran che vivevano proprio in quella regione del deserto in cui era apparso pubblicamente Giovanni. Essi avevano applicato a se stessi proprio questa profezia di Isaia che chiedeva di aprire una strada nel deserto e di appianarla per la venuta del Signore, assumendola come fonte del loro ministero e della loro missione. Per questo erano venuti nel deserto per vivere secondo la volontà di Dio e per attendere nella preghiera e nello studio perseverante delle sante Scritture la venuta del suo Messia e del suo regno. Giovanni, asceta come loro nel deserto, condivide con loro la stessa missione, e il suo manifestarsi è conforme alla medesima profezia di Isaia: “Com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaia, ‘voce che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, rendete dritti i suoi sentieri … Ogni carne vedrà la salvezza di Dio’”. Questa voce – Luca lo sottolinea – vuole raggiungere “ogni carne”, ogni uomo e ogni donna, non solo i figli e le figlie di Israele, in modo che tutti possano ricevere la salvezza di Dio: questa infatti non è rivolta solo al popolo delle alleanze e delle benedizioni, come annunciavano gli antichi profeti, ma Giovanni il Battista proclama che è una salvezza universale, per tutti, per tutti! Dunque buona notizia per tutti, “non per alcuni, né per pochi né per molti, ma per tutti”, come recentemente ha gridato con gioia papa Francesco (Cattedrale di Firenze, 10 novembre 2015, Incontro con i rappresentanti del convegno nazionale della chiesa italiana).Tutto ciò avviene ai margini della terra santa, alle soglie del deserto, con il suo vuoto, il suo silenzio, la sua solitudine. Quale contrasto tra la “grande” storia, che vede regnare Tiberio, Erode e gli altri, che registra il sommo sacerdozio di Anna e Caifa, e la storia di salvezza, che si realizza in modo umile, nascosto! Niente di ciò che dà lustro al potere politico è presente; niente di ciò che caratterizza la solenne liturgia sacerdotale appare: no, semplicemente un fiumiciattolo, dell’acqua in cui immergersi, dei corpi che scendono e risalgono dall’acqua per azione delle braccia di un uomo, Giovanni, il quale è solo voce che nel deserto chiede una vita altra, nuova, chiede agli uomini e alle donne di ricominciare a vivere secondo la volontà del Signore. Quello di Giovanni era un battesimo in cui l’acqua era eloquente di per sé, non oscurata o nascosta da tante pretese azioni cultuali: acqua, parola, corpi che sono immersi e poi riemergono, braccia che accompagnano chi discende e poi lo risollevano… piena umanità di quel segno-sacramento dell’immersione. È sufficiente però definirlo “battesimo”, per comprenderlo purtroppo solo come rito e non come gesto e parola, gesto che parla, parola che agisce!
21 novembre 2015 - P. Arockiasamy, omd, e' sacerdote. E' stato Ordinato nel santuario di S.Maria in Campitelli da Mons.Matteo Zuppi, neo Arcivescovo di Bologna
"Tu es sacerdos in Eeternum
Secundum Ordinem Melchisedech" (salmo 109, 4)
Una famiglia che ha avuto la grazia di San. Giovanni Leonardi. il funerale per la Sigra. Lella sarà 17 novembre nella Chiesa di Sacro Cuore di Gesù di Napoli, alle ore 12.00.Vittorio Lamberti di Napoli sofferente di “osteomielite flemmonosa del femore sinistro” fin dal terzo anno di età. Nel febbraio del 1926 le condizioni si complicarono con infezioni di setticemia e febbri altissime che conducevano il piccolo in stato comatoso. Sgomento per quella situazione il medico di famiglia il Prof. Vitali, chiese aiuto al Prof. De Gaetano primario presso l’università di Napoli, era la sera del 9 febbraio, il giudizio sulla gravità del male era letale. Mentre avvenivano questi fatti, la zia di Vittorio, Ernestina de Cicco, corse all’Altare del Beato Leonardi nella Chiesa di Santa Maria in Portico a Chiaia. Queste furono le sue parole dettate dal dolore e dalla fede: “O beato Giovanni Leonardi mi dovete fare questa grazia che vi chiedo con tutto il cuore e la forza della devozione che vi porto. Se questo bambino deve come conseguenza del male rimanere un infelice, prendetevelo; altrimenti guaritelo completamente e ridonate la pace ai suoi genitori”. La stessa sera del 9 febbraio 1926 alle ore 18,00 dopo il consulto medico si verificò un improvviso e rapidissimo miglioramento, cessò la febbre e il giorno seguente i medici pieni di stupore lo dichiararono guarito.
L’ Ordinazione di un Sacerdote è un dono di Dio, un segno del Suo amore fedele e provvidente per il nostro Ordine. Sabato 21 Novembre 2015, nella Festa della Presentazione della Beata Vergine Maria, alle ore 18.30 il diacono Arockiasamy, sarà ordinato Sacerdote nella Parrocchia di Santa Maria in Portico in Campitelli, Roma. per l’imposizione delle mani e la preghiera consacratoria di Mons. Matteo Zuppi, Vescovo di Bologna.