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Sabato, 02 Aprile 2016 09:31

L’amore fedele del Risorto

366Per ben tre volte, nel brano del Vangelo che abbiamo appena ascoltato, Gesù dice a suoi Discepoli: «Pace a voi». Il Signore, con la sua Morte e Risurrezione, è venuto a portarci la sua pace. Ma cosa è la pace? Tutto il mondo ne parla, tutti la vogliono, ma nessuno la raggiunge. Anzi, sembra che più se ne parla e più essa si allontana. La pace di cui parla Gesù è ben diversa da quella che il mondo cerca tanto ansiosamente. La pace portata da Gesù è innanzitutto interiore. Prima che regnare nel mondo, essa deve esserci nel nostro cuore. Solo allora saremo autentici operatori di pace, solo quando vivremo in comunione con Dio e allontaneremo il peccato dalla nostra vita.
È molto interessante il fatto che Gesù ripete questa frase: «Pace a voi», proprio nel momento in cui Egli istituisce il sacramento della Confessione. Infatti, subito dopo, Egli dice ai suoi Apostoli: «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20,22). Questo particolare ci fa comprendere che la pace si ottiene innanzitutto con una buona Confessione, quando riceviamo il perdono di Dio.
Oggi, inoltre, è la festa della Divina Misericordia, festa voluta da Gesù stesso, secondo le richieste da Lui fatte a santa Faustina. Egli diceva alla Santa: «Chi si accosterà alla sorgente della vita - ovvero alla Confessione e alla Comunione - questi conseguirà la remissione totale delle colpe e delle pene». Poi continuò dicendo: «L'umanità non troverà pace, finché non si rivolgerà con fiducia alla mia Misericordia. Oh, quanto mi ferisce la diffidenza di un'anima! Tale anima riconosce che sono santo e giusto, e non crede che io sono misericordioso, non ha fiducia nella mia Bontà». Vogliamo anche noi glorificare l'infinita Misericordia di Dio, accogliendola nel sacramento della Confessione, confessandoci spesso e bene, e domandando a Gesù che ogni volta sia come l'ultima Confessione della nostra vita.
Il brano del Vangelo, inoltre, ci parla della fede. Dopo aver dissipato i dubbi di Tommaso, Gesù proclama solennemente: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto» (Gv 20,29). La fede è un dono di Dio, ma deve essere alimentata dalla nostra preghiera. Essa è come una piccola fiammella che deve essere di continuo ravvivata con l'olio della nostra orazione e delle nostre buone opere. Se manca tutto questo, essa, inevitabilmente, tende a morire. Domandiamo ogni giorno che il Signore aumenti la nostra fede. Sarà soprattutto con la meditazione assidua che questo dono si rafforzerà sempre di più. In questo periodo di Pasqua, per poi proseguire con lo stesso proposito, cerchiamo di meditare frequentemente la Parola di Gesù, il suo Santo Vangelo, domandandoci: "Cosa mi vuole dire Gesù con queste sue parole che sto meditando?". Se saremo fedeli a questo piccolo proposito, anche solo per un quarto d'ora al giorno, la fiamma della nostra fede si ravviverà sempre di più fino ad illuminare tutti quelli che incontreremo sul nostro cammino.
Tommaso ravveduto, infine, fece uno stupendo atto di fede. Egli vide l'Umanità di Cristo Risorto, e credette senza esitare nella sua Divinità. Egli, infatti, esclamò: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28). Anche noi facciamo qualcosa di simile ogni volta che partecipiamo alla Santa Messa, anzi facciamo di più. Tommaso vide l'Umanità di Cristo e credette nella sua Divinità; noi non vediamo né la Divinità, né l'Umanità di Gesù, eppure crediamo senza esitare che l'Ostia consacrata che riceviamo al momento della Comunione e che adoriamo presente nel Tabernacolo, è Gesù vivo e vero, in Corpo, Sangue, Anima e Divinità. Per questo siamo beati, perché crediamo senza vedere.
Chiediamo alla Vergine Santa che custodisca in noi il dono della fede e lo accresca sempre di più ottenendoci una fede senza esitazioni, una fede che ci faccia spostare le montagne, una fede che ci faccia superare tutte le difficoltà.
 
papa-franceCercare la via dell’incontro e della fiducia

C’è una pietra da far rotolare via nella notte che conduce alla Pasqua. E non è soltanto la pietra che chiude il sepolcro di Cristo, ma è quella della “mancanza di speranza che ci chiude in noi stessi”. Il Papa lo ricorda nella sua omelia, tutta declinata intorno al verbo ‘sperare’. È speranza, infatti, quella che spinge Pietro a correre verso il sepolcro del Signore:
“Non rimase seduto a pensare, non restò chiuso in casa come gli altri. Non si lasciò intrappolare dall’atmosfera cupa di quei giorni, né travolgere dai suoi dubbi; non si fece assorbire dai rimorsi, dalla paura e dalle chiacchiere continue che non portano a nulla. Cercò Gesù, non se stesso. Preferì la via dell’incontro e della fiducia”.
Aprire il cuore a Dio. Centro della vita non sono i nostri problemi
In un certo senso, sottolinea il Papa, quel gesto è stato “l’inizio della ‘risurrezione’ di Pietro, la risurrezione del suo cuore”, che ha lasciato entrare la luce di Dio, “senza soffocarla”. Di qui, il richiamo del Pontefice ad aprire al Signore “i nostri sepolcri sigillati”, a portare a Lui “le pietre dei rancori, i macigni del passato, i pesanti massi delle debolezze e delle cadute”, perché Dio ci prenderà per mano e ci trarrà fuori dall’angoscia:
“Che il Signore ci liberi da questa terribile trappola, dall’essere cristiani senza speranza, che vivono come se il Signore non fosse risorto e il centro della vita fossero i nostri problemi”. 
Speranza è dono di Dio, non semplice ottimismo
Illuminare i problemi con la luce del Risorto, ovvero “evangelizzarli”: questo è il suggerimento del Papa che invita a non lasciare che “le oscurità e le paure” attirino lo sguardo dell’anima e prendano possesso del cuore. Speranza, dunque. Speranza che “non è semplice ottimismo”, né “un atteggiamento psicologico” e neppure “un invito a farsi coraggio”, ma è “dono di Dio che non delude”:
 “Il Consolatore non fa apparire tutto bello, non elimina il male con la bacchetta magica, ma infonde la vera forza della vita, che non è l’assenza di problemi, ma la certezza di essere amati e perdonati sempre da Cristo, che per noi ha vinto il peccato, la morte e la paura. Oggi è la festa della nostra speranza, la celebrazione di questa certezza: niente e nessuno potranno mai separarci dal suo amore (cfr Rm 8,39)”.
Chiesa non è una struttura internazionale con regole e adepti
Forti di questa certezza, ribadisce Francesco, i cristiani sono chiamati a “suscitare la speranza nei cuori appesantiti dalla tristezza, in chi fatica a trovare la luce della vita”, “dimentichi di se stessi” ed annunciando il Risorto “con la vita e mediante l’amore”:
“…altrimenti saremmo una struttura internazionale con un grande numero di adepti e delle buone regole, ma incapace di donare la speranza di cui il mondo è assetato”.
Fare memoria della storia d’amore di Dio con l’umanità
Ma tale speranza va anche nutrita – è il monito del Papa – facendo memoria delle opere di Dio, della sua “storia di amore” e di fedeltà verso l’umanità:
“Facciamo memoria del Signore, della sua bontà e delle sue parole di vita che ci hanno toccato; ricordiamole e facciamole nostre, per essere sentinelle del mattino che sanno scorgere i segni del Risorto”.
“Cristo è risorto! Apriamoci alla speranza e mettiamoci in cammino – conclude il Pontefice – verso la Pasqua che non avrà fine”. 
(Da Radio Vaticana)
Sabato, 26 Marzo 2016 22:53

Non è qui, è risorto

risorto2016È “il primo giorno della settimana”, quello dopo il sabato, il giorno del Signore finalmente manifestato, e al mattino presto quelle donne discepole di Gesù, venute a Gerusalemme con lui dalla Galilea (cf. Lc 8,1-3; 23,49), quelle donne che avevano assistito al suo seppellimento la sera del venerdì (cf. Lc 23,55), si recano alla tomba di Gesù con gli aromi che hanno preparato. Dopo la morte di Gesù c’era stato solo il tempo di seppellirlo, non di compiere i riti dell’unzione, perché era sopraggiunto il tramonto, inizio del sabato (cf. Lc 23,56).

Ma ecco che le donne discepole, le quali non abbandonano facilmente il corpo morto del loro rabbi e profeta, trovano la tomba aperta. La pietra che la chiudeva è stata rotolata via dall’entrata e il corpo di Gesù non c’è più: la tomba è vuota! Le donne “sono nell’aporia” – dice Luca –, perplesse, incerte, sorprese e frustrate: il corpo di colui che hanno amato e seguito, che sono venute a ungere, a toccare e a baciare ancora una volta, non c’è più. Assenza definitiva! Dove cercare Gesù? Dove trovarlo? Chi può far uscire le discepole da quell’aporia? Nessuno e niente. Solo una rivelazione da parte di Dio, solo una sua parola può dare senso e significato a quella tomba vuota. Noi umani possiamo solo fare ipotesi umane: l’hanno portato via; non era veramente morto ed è fuggito; c’è un inganno da parte dei discepoli; quelli che l’hanno ucciso non vogliono che ci sia una sua tomba…

Ma in quell’aporia ecco “due uomini con una veste raggiante”, come era accaduto nella trasfigurazione di Gesù, due uomini luminosi che hanno una parola da dire: nella trasfigurazione la dicono a Gesù (cf. Lc 9,30-31), qui alle discepole. Due uomini che, per chiunque conosce il linguaggio biblico, sono Mosè ed Elia, la Legge e i Profeti, i porta-parola di Dio nell’antica alleanza. Anche nell’ora dell’ascensione, descritta da Luca negli Atti degli apostoli, questi “due uomini in bianche vesti” (At 1,10) riveleranno il mistero della presenza di Gesù alla destra di Dio (cf. At 1,11). Le discepole di Gesù, vedendo i due uomini, “sono prese dal timore” della presenza eloquente di Dio “e abbassano il volto verso terra”. Non sono pronte ad “alzare il capo”, come Gesù aveva invitato a fare nel giorno del Signore (cf. Lc 21,28), ma sentono gli occhi pesanti, schiacciati verso terra.

Allora Mosè ed Elia prendono la parola: “Perché cercate tra i morti colui che è il Vivente? Non è qui, è risorto!”. La ricerca delle donne era ricerca del corpo di Gesù, era desiderio di compiere un’azione che tramite l’unzione e gli aromi impedisse la corruzione della sua carne, ma Gesù non va cercato tra i morti perché lui è il Vivente che va cercato presso il Dio vivente, suo Padre, come Gesù stesso aveva detto a Maria e Giuseppe quando l’avevano perduto e ritrovato nel tempio, la casa del Dio vivente (cf. Lc 2,49). La rivelazione di Mosè ed Elia si esprime in modo particolare secondo Luca, discepolo di Paolo, mettendo a contrasto vita e morte. Questo essere il Vivente da parte di Gesù aiuta a capire la sua resurrezione, che non è rianimazione di un cadavere, ritorno all’esistenza nella carne; e dire che Gesù è risorto aiuta a capire che egli non solo è vivente nel suo messaggio, nei suoi discepoli, ma è il Vivente (tòn zónta).

Le donne devono solo ascoltare Mosè ed Elia e ricordare le parole di Gesù, perché l’Antico Testamento (la Legge e i Profeti) e il Vangelo di Gesù sono concordi nell’annunciare la necessitas della passione, morte e resurrezione (cf. Lc 9,22.44; 18,31-33), come viene rivelato a più riprese in quest’ultimo capitolo del vangelo secondo Luca (cf. Lc 24,7.25-27.44-47). E non appena le donne si ricordano delle parole di Gesù e accettano le parole di Mosè ed Elia, ecco nascere in loro la fede pasquale, che le rende subito messaggere, apostole presso gli Undici e gli altri discepoli. “È il Vivente!”: questa è la nostra fede, la nostra speranza, la nostra carità!

Dove noi constatiamo morte, c’è il Vivente che dà la vita ai morti;
dove c’è aporia, dubbio, vuoto, c’è il Vivente che dà senso alle nostre vite;
dove c’è sofferenza e dolore senza vie d’uscita, c’è il Vivente che porta la liberazione, la salvezza.

Dov’è il Vivente? In ciascuno di noi, se gli permettiamo di prendere dimora in noi (cf. Gv 14,23), in ciascuno di noi, per ravvivare ciò che è morto, per essere vita nei nostri corpi, nella nostra carne. Perché con la resurrezione Gesù è più che mai colui che prende dimora nella carne e nei corpi di noi umani: noi oggi siamo il suo corpo sulla terra, nella storia; noi siamo la sua carne e incontriamo la sua carne nelle sorelle e nei fratelli bisognosi, sofferenti, vittime, ultimi, non riconosciuti, scarti per molti…

Siccome c’è il Vivente nel nostro corpo, possiamo dire all’altro che amiamo: “Questo mio corpo è il tuo corpo!”. E così si vive la danza, la festa pasquale!

omelia per la Pasqua del Signore di ENZO BIANCHI 
Sabato, 19 Marzo 2016 08:19

Veramente quest’uomo era giusto!

363Nella prima domenica di Quaresima, alla fine del racconto delle tentazioni di Gesù nel deserto abbiamo ascoltato questa precisazione lucana: «dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da Gesù fino al tempo fissato» (Lc  4,13). Ed eccoci giunti al tempo fissatol’ora della passione, l’ora in cui Gesù è nuovamente tentato dal demonio ed è sottoposto a una prova terribile angosciosa: restare fedele al Padre, anche al prezzo di subire una morte violenta in croce, oppure percorrere altre vie, quelle suggerite dal demonio, che portano come promessa sazietà, potere, ricchezza, successo? La passione secondo Luca è davvero l’ora della grande tentazione non solo di Gesù, ma anche dei discepoli, dunque della chiesa…

Proprio durante la cena pasquale, quando Gesù anticipa con dei gesti sul pane e sul vino e con delle parole ciò che gli sarebbe accaduto nelle ore successive, proprio quando svela che la sua è una vita donata, spesa, offerta fino all’effusione del sangue per i discepoli, questi mostrano di entrare in tentazione e di essere sedotti. Innanzitutto uno di loro tradisce l’alleanza della comunità, la nuova alleanza sancita dal sangue di Gesù, consegnandolo nelle mani dei nemici; Luca ricorda poi che, mentre Gesù a tavola serve i suoi stando in mezzo a loro, questi litigano per sapere «chi poteva essere considerato sopra di loro il più grande»; infine Pietro, la roccia, proclama a Gesù una fedeltà che smentirà per tre volte con un rinnegamento. Sì, nell’ora della tentazione i discepoli soccombono alla prova, mentre Gesù lungo tutta la passione si mostra fedele a Dio e ai discepoli…

Venuto al monte degli Ulivi, durante la lotta spirituale decisiva Gesù invita i discepoli a «pregare per non entrare in tentazione»; lui stesso dà loro l’esempio e prega il Padre, restando pienamente sottomesso alla sua volontà, fino ad accogliere l’arresto senza difendersi, senza opporre violenza a violenza, senza mutare il suo stile e il suo comportamento di mitezza e di amore, ma rimanendo fedele alla verità che aveva contraddistinto la sua vita. Pregando, Gesù è entrato nella sua passione, e pregando ha fatto della morte violenta in croce un atto: ha chiesto al Padre di perdonare i suoi crocifissori e, infine, ha invocato Dio dicendogli: «Padre, nelle tue mani consegno il mio respiro» (cf. Sal 31,6). Davanti a Dio, da lui chiamato e sentito come Padre, Gesù ha posto noi uomini e tutta la sua vita, e così è morto: in piena fedeltà a Dio, agli uomini, alla terra da cui era stato tratto come uomo, «figlio di Adamo» (Lc  3,38).

Quella di Gesù è stata una fedeltà a caro prezzo, perché anche in croce è stato nuovamente tentato, simmetricamente alle tentazioni da lui subite nel deserto, all’inizio della sua vita pubblica. Nell’ora conclusiva della sua vita terrena riecheggiano da parte degli uomini parole simili a quelle di Satana: «sei tu sei il re dei Giudei, se tu sei il Cristo, se hai salvato gli altri… salva te stesso!». Ma Gesù non vuole salvare se stesso; al contrario, vuole compiere fedelmente la volontà di Dio, continuando a comportarsi fino alla morte in obbedienza a Dio, ossia amando e servendo la verità. Questo è causa di morte per lui, ma causa di vita per gli uomini tutti!

Quanto a noi che ascoltiamo questo racconto della passione, Luca ci invita a seguire Gesù dal suo essere servo a tavola fino alla sua morte in croce. Allora potremo vedere in lui «l’uomo giusto», riconosciuto tale anche da Pilato, che per tre volte è costretto a proclamare che Gesù non ha mai commesso il male. Guardando a lui, il crocifisso che invoca il perdono per i suoi persecutori e si affida a Dio, entreremo nell’autentica contemplazione, come «le folle che, accorse a quella contemplazione–spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornavano battendosi il petto». E con il centurione faremo un’autentica confessione di fede: «Veramente quest’uomo era giusto». Sì, Gesù è il Giusto perseguitato, il Figlio di Dio (cf. Sap 2,10-20); è colui che il Padre ha richiamato dai morti in risposta alla vita da lui vissuta, segnata da un amore più forte della morte.

Commento al Vangelo di ENZO BIANCHI 
p.-oscar-okNel giorno di san Giuseppe il Papa Francesco ha nominato il nostro confratello cileno, P Oscar Hernan BLACO MARTINEZ, vescovo di san Juan Bautista de Calama (Cile).

È veramente una bellissima notizia per l’Ordine della madre di Dio e per la Delegazione cilena che proprio quest’anno celebrerà il 70 anniversario dell’arrivo dell’Ordine in quel paese. È un regalo per tutto l’Ordine come riconoscimento della pienezza di obbedienza, di servizio a Cristo, alla Chiesa e al Papa. Era dalla morte del Vescovo di Chiusi e Pienza, Mons. Carlo Baldini, avvenuta il 2 gennaio 1970, che nell’Ordine non era stato scelto alcuno membro per l’episcopato.  Ora esultiamo di gioia di fronte a quest’annuncio per il nostro caro confratello P. Oscar  Blanco.

P. Oscar è nato il 24 settembre del 1964 nella città di Puerto Dominguez nella diocesi di Auracani. Figlio di Blanco Chavez Pedro y di Martinez Vasquez Maria Leonor.  Il P. Oscar è il quarto di dieci fratelli e sorelle.

Entrò come postulante nel marzo del 1987. Fece il noviziato dal 3 marzo del 1992 e professò temporalmente 1 marzo del 1993. Il 17 marzo del 1996 fece la Professione Solenne. Venne ordinato Diacono da Mons. Javier Prado Aranguiz il 5  di maggio del 1996 e ordinato Presbitero da  Mons. Carlos Oviedo Cavada il 13 aprile del 1997 in Santiago del Cile. Da allora il nostro religioso ha avuto i seguenti incarichi : Vicario parrocchiale di san Lazzaro (Santiago) 1997-2000; vicario parrocchiale di Nostra Signora di Guadalupe (Santiago) 2000 e parroco della stessa Parrocchia dal 2001 al 2006. Successivamente fu trasferito nella parrocchia di Nostra Signora del Carmelo a Rancagua dal 2006 al 2012. Dal 2013 fu nominato maestro dei novizi e,  portato a buon termine tale impegno, ritornò a  fare il Parroco della stessa comunità di Rancagua fino ad oggi. Importante  fu il suo lavoro con il P. Baldo Santi nella Clinica famiglia per i malati di Aids della quale è anche Vice Presidente dal 2012.

Il nostro P. Oscar ha un carattere tranquillo e sereno; possiede una buona relazione  con il resto del clero secolare e sempre ha manifestato un grande amore alla Chiesa.

Durante il suo ministero ha dimostrato un’alta motivazione al lavoro pastorale, mettendo insieme sia l’impegno della parrocchia come la formazione e l’attenzione ai pazienti, al volontariato e alle famiglie della Clinica Famiglia.  Ha collaborato sempre con il Vescovo diocesano di Rancagua sia nella preparazione del Sinodo, come pure della Pastorale famigliare diocesana.

Si distacca per la sua relazione con i giovani, i bambini e soprattutto per la missione e servizio all’Ordine della Madre di Dio che è la sua famiglia. Ha sempre avuto il desidero di andare in missioni sia in India che in Nigeria che tante volte ha chiesto al padre Generale.

Mentre ora preghiamo al Signore, alla Madre di Dio e a san Giovanni Leonardi che vogliano benedire il ministerio episcopale del P Oscar Martinez nella diocesi di sa Juan Bautista de Calama. 
 

Mercoledì, 16 Marzo 2016 20:38

Ordinazione Diaconale in India e Nigeria

diaconiMartedì 15 marzo, nella capella del Seminario Maggiore a Samayapuram in India, sono stati ordinati tre nuovi Diaconi, Diac. Backia raj, Diac. Arockia Doss e Diac. Jeba raj, religiosi dell’Ordine della Madre di Dio nella delegazione Indiana. La celebrazione Eucaristica è stata presieduta da Mons. Antony Divota, vescovo di Trichy. Erano presenti tutti nostri confratelli, i sacerdoti vicini, religiosi e religiose,  nostri seminaristi e parenti dei nuovi Diaconi. Tutti gli intervenuti si sono stretti attorno a tre nuovi Diaconi, per esprimere le loro felicitazioni ed auguri. 

cosi anche nella Delagazione in Nigeria Giovedi 17 Marzo, nella Diocesi di Aba sono stati ordinati come diaconi due dei nostri religiosi Eneji Emmanuel e Michael Ajogo dal Mons. Gregory Ochiaga.

Sabato, 12 Marzo 2016 09:15

Nessuna condanna, solo misericordia

365L’itinerario quaresimale all’insegna dell’annuncio della misericordia di Dio narrata da Gesù conosce un vero e proprio vertice nel brano evangelico di questa domenica: il testo dell’incontro tra Gesù e la donna sorpresa in adulterio. Questa pagina ha conosciuto una sorte particolarissima, che attesta il suo carattere “scandaloso”: è assente nei manoscritti più antichi, è ignorato dai padri latini fino al IV secolo e non è commentato dai padri greci del primo millennio. Al termine di un lungo e travagliato migrare questo testo è stato inserito nel vangelo secondo Giovanni, prima del v. 15 del capitolo 8, in cui è riportata una parola di Gesù che sembra giustificare tale collocazione: “Voi giudicate secondo la carne, io non giudico nessuno”. Va detto che il nostro brano presenta somiglianze con il vangelo secondo Luca, quello più attento all’insegnamento di Gesù sulla misericordia, e potrebbe essere agevolmente collocato dopo Lc 21,37-38: “Durante il giorno Gesù insegnava nel tempio; la notte, usciva e pernottava all’aperto sul monte detto degli Ulivi. E tutto il popolo, al mattino, andava da lui nel tempio per ascoltarlo”. Noi però, in obbedienza al canone delle Scritture, lo leggiamo dove la redazione finale lo ha posto, nel contesto di una discussione sul rapporto tra Legge e peccato.

Mentre Gesù, seduto nel tempio, annuncia la Parola, “scribi e farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio”, per “metterlo alla prova”. Spesso i vangeli annotano che gli avversari di Gesù tentano di metterlo in contraddizione con la Legge, per poterlo accusare di bestemmia. Ma questa volta il tranello non riguarda interpretazioni della Legge, bensì una donna – o meglio, quella che è “usata” come un caso giuridico – sorpresa in adulterio e trascinata con la forza davanti a lui da quanti vigilano sull’altrui compimento della Torah invece che sul proprio. Fatta irruzione nell’uditorio di Gesù, questi uomini religiosi collocano la donna in mezzo a tutti e si affrettano a dichiarare: “Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa”. La loro dichiarazione sembra ineccepibile, ma in realtà è parziale: la Legge, infatti, prevede la pena di morte per entrambi gli adulteri (cf. Lv 20,10 e Dt 22,22) e attesta la stessa pena, mediante lapidazione, per un uomo e una donna fidanzata caduti in adulterio (cf. Dt 22,23-24). Ma dov’è qui l’uomo?

La durezza della pena prevista si spiega con il fatto che l’adulterio è una smentita della promessa creazionale di Dio e una grave ferita all’alleanza stipulata dalla coppia umana (cf. Ml 2,14-16). Ecco dunque che i gelosi custodi della Legge, irreprensibili in apparenza e ritenuti dalla gente “uomini religiosi” per la loro visibilità ostentata (cf. Mt 23,5), chiedono a Gesù: “Tu che ne dici?”. Tale domanda mira a coglierlo in contraddizione: se Gesù non conferma la condanna e non approva l’esecuzione, può essere accusato di trasgredire la Legge di Dio; se, al contrario, decide a favore della Legge, perché accoglie i peccatori e mangia con loro (cf. Mc 2,15-16 e par.; Lc 15,1-2)? Perché annuncia la misericordia? Quel “Che ne dici?” significa: “Tu che predichi il perdono di Dio, che dici di essere venuto a chiamare i peccatori e non i giusti (cf. Mc 2,17 e par.), che rispetto hai della Legge?”.

Sostiamo su questa scena. Alcuni hanno portato a Gesù una donna, perché sia condannata. Discepoli e ascoltatori sono distanti: qui c’è solo Gesù di fronte a questi uomini religiosi – giudici ingiusti, nemici – e, in mezzo, una donna in piedi, nell’infamia. Non c’è spazio per considerare la sua storia, i suoi sentimenti: per i suoi accusatori ella non ha solo commesso il peccato di adulterio, è un’adultera, tutta intera definita dal suo peccato. Ma Gesù si china e si mette a scrivere per terra: in tal modo si inchina di fronte alla donna che è in piedi davanti a lui! Il tutto senza proferire parola, in un grande silenzio…

Ma cosa significa il gesto di Gesù? Egli scrive i peccati degli accusatori della donna, come pensa Girolamo? Oppure scrive frasi bibliche, secondo l’opinione di alcuni esegeti? Non è facile interpretare questo gesto: a mio avviso va inteso in quanto azione dotata di una forte carica simbolica. Credo che si debbano vedere da un lato gli scribi e i farisei che ricordano la Legge scolpita su tavole di pietra; dall’altro Gesù il quale, scrivendo per terra, la terra di cui siamo fatti noi figli e figlie di Adamo, il terrestre (cf. Gen 2,7), ci indica che la Legge va inscritta nella nostra carne, nelle nostre vite segnate dalla fragilità e dal peccato. Non a caso Gesù scrive “con il dito”, così come la Legge di Mosè fu scritta nella pietra “dal dito di Dio” (Es  31,18; Dt 9,10) e fu riscritta dopo l’infedeltà idolatrica del vitello d’oro e la rottura dell’alleanza (cf. Es 34,28).

Poiché però gli accusatori insistono nell’interrogarlo, Gesù si alza e non risponde direttamente, ma fa un’affermazione che è anche una domanda: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. Poi si china di nuovo e torna a scrivere per terra. Ma chi può dire di essere senza peccato? Gesù conferma la Legge, secondo cui il testimone deve essere il primo a lapidare il colpevole (cf. Dt 13,9-10; 17,7), ma dice anche che il testimone deve essere lui per primo senza peccato! Certo, quella donna adultera ha commesso un peccato manifesto; ma i suoi accusatori non hanno peccati o in verità hanno peccati nascosti? E se hanno peccato, con quale autorevolezza lanciano le pietre che uccidono il peccatore?

Solo Gesù, lui che era senza peccato, poteva scagliare una pietra, ma non lo fa. La sua parola, che non contraddice la Legge e nel contempo conferma la sua prassi di misericordia, appare efficace, va al cuore dei suoi accusatori i quali, “udito ciò, se ne vanno uno per uno, cominciando dai più anziani”: più si avanza in età, più numerosi sono i peccati commessi; questa coscienza dovrebbe impedire la nostra inflessibilità verso gli altri… Così una sola parola di Gesù, incisiva e autentica, una di quelle domande che ci fanno leggere in profondità noi stessi, impedisce a quegli uomini di fare violenza in nome della Legge che credono di interpretare con rigore. Solo Dio, e quindi solo Gesù, potrebbe condannare quella donna. Ma Gesù sceglie di narrare in altro modo l’agire di Dio, che non è mai condanna ma sempre perdono. Potremmo dire che Gesù “evangelizza Dio”, cioè rende Dio Vangelo, buona notizia. “Dio, nessuno l’ha mai visto” (Gv  1,18), ma molti pensano di interpretarlo e di agire in nome suo; e così raccontano l’immagine di un Dio perverso, mettendo una maschera sul suo volto. Gesù invece, l’unico uomo che ha narrato in pienezza di Dio, che ne è stato esegesi vivente (cf. ibid.), afferma che di fronte al peccatore Dio ha un solo sentimento: non la condanna, ma il desiderio che si converta e viva (cf. Ez 18,23; 33,11).

Solo quando tutti se ne sono andati, allora Gesù si alza in piedi e sta di fronte alla donna, finalmente restituita alla sua identità di essere umano, nel faccia a faccia con lui. È la fine di un incubo, perché i suoi lapidatori si sono dileguati e perché chi doveva giudicarla ora sta in piedi, come colui che assolve. Adesso è possibile l’incontro parlato, che si apre con l’appellativo rivoltole da Gesù: “Donna”, lo stesso riservato a sua madre (Gv 2,4), alla samaritana (Gv 4,21), alla Maddalena (Gv 20,15). Rivolgendosi a lei in questo modo, Gesù la fa risaltare per quella che è: non una peccatrice, ma una donna, restituita alla sua dignità. A lei Gesù domanda: “Dove sono i tuoi accusatori? Nessuno ti ha condannata?”. Ed ella, rispondendo: “Nessuno, Signore (Kýrie)”, fa una grande confessione di fede. Colui che si trova di fronte a lei è più di un semplice maestro, “è il Signore” (Gv 21,7)!

Infine, Gesù si congeda con un’affermazione straordinaria, gratuita e unilaterale: “Neanch’io ti condanno. Va’ e non peccare più”. Il testo non è interessato ai sentimenti della donna ma rivela che, quando è avvenuto l’incontro tra la santità di Gesù e il peccato di questa donna, allora “rimasero solo loro due, la misera e la misericordia” (Agostino). Ecco la gratuità di quell’assoluzione: Gesù non condanna, perché Dio non condanna, ma con il suo atto di misericordia preveniente le offre la possibilità di cambiare. E si faccia attenzione: non viene detto che ella cambiò vita, si convertì, né che divenne discepola di Gesù. Sappiamo solo che, affinché tornasse a vivere, Dio l’ha perdonata attraverso Gesù e l’ha inviata verso la libertà: “Va’ verso te stessa e non peccare più”…

Le persone religiose vorrebbero che a questo punto Gesù avesse detto alla donna: “Ti sei esaminata? Sai cosa hai fatto? Ne comprendi la gravità? Sei pentita della tua colpa? La detesti? Prometti di non farlo più? Sei disposta a subire la giusta pena?”. Queste omissioni nelle parole di Gesù scandalizzano ancora, oggi come ieri! Ma Gesù non condanna né giudica – come dirà poco dopo: “Io non giudico nessuno” (Gv 8,15) – e annuncia la misericordia, fa misericordia eseguendo fedelmente e puntualmente la giustizia di Dio, perché la conosce come giustizia giustificante (cf.Rm 3,21-26).

Chiamato a scegliere tra la Legge e la misericordia, Gesù sceglie la misericordia senza contraddire la Legge. Quest’ultima è essenziale quale rivelazione della vocazione umana che Dio ci rivolge; ma una volta che il peccato ha infranto la Legge, a Dio resta solo la misericordia, ci insegna Gesù.Nessuna condanna, solo misericordia: qui sta la grandezza e l’unicità di Gesù. Infatti, ogni volta che egli ha incontrato un peccatore lo ha assolto dai suoi peccati e non ha mai praticato una giustizia punitiva. Ha anche pronunciato i “Guai!” in vista del giudizio, ma non ha mai castigato nessuno, perché sapeva ben distinguere tra la condanna del peccato e la misericordia verso il peccatore.

 
cile-esercisi-Dal 1° fino al 5 di marzo  tutti i fratelli della Delegazione Cilena si sono riuniti nella Casa di Formazione San Giovanni Leonardi per vivere gli esercici spirituali per cominciare l´anno pastorale. 
 
É stato il P. Eduardo Winser chi ha guidato i temi che loro hanno pregato e rifletuto. Il perdono, la misericoridia e altre punti sono stati condivisi fra tutti. 

 
Sabato, 27 Febbraio 2016 15:07

I frutti della pazienza

364Racconti di morte, nel Vangelo, e grandi domande. Che colpa avevano quei diciotto uccisi dalla caduta della torre di Siloe? È Dio che manda il terremoto? Per castigare qualcuno distrugge una città? Gesù prende le difese di Dio e degli uccisi: la mano di Dio non produce morte; l'asse attorno al quale gira la storia non è il peccato. Chi soffre si chiede: che cosa ho fatto di male per meritarmi questo castigo? Gesù risponde: niente, non hai fatto niente. Dio è amore e l'amore non conosce altro castigo che castigare se stesso. Smettila di pensare che l'esistenza si svolga nell'aula di un tribunale, Dio non spreca la sua eternità in condanne, o in vendette. La gente interroga Gesù su fatti di cronaca, ed è chiamata a guardarsi dentro. Se non vi convertirete, perirete tutti. Due torri gemelle sono crollate, un 11 settembre di anni fa, ma vi abbiamo letto solo un fatto di cronaca, non un richiamo alla conversione. Se l'uomo non cambia, se non imbocca altre strade, se non si converte in costruttore di pace e giustizia, questa terra andrà in rovina perché fondata sulla sabbia della violenza e dell'ingiustizia. Gesù l'ha messo come comando che riassume tutto: amatevi, altrimenti vi distruggerete tutti. Il Vangelo è tutto qui. Amatevi, altrimenti perirete tutti, in vite impaurite e inutili. Nella parabola del fico sterile chi rappresenta Dio non è il padrone esigente, che pretende giustamente dei frutti, ma il contadino paziente e fiducioso: «voglio lavorare ancora un anno attorno a questo fico e forse porterà frutto».Ancora un anno, ancora un giorno, ancora sole, pioggia e lavoro: quest'albero è buono, darà frutto! Tu sei buono, darai frutto! Dio, come un contadino, si prende cura come nessuno di questa vite, di questo campo seminato, di questo piccolo orto che io sono, mi lavora, mi pota, sento le sue mani ogni giorno. «Forse, l'anno prossimo porterà frutto». In questo forse c'è il miracolo della pietà divina: una piccola probabilità, uno stoppino fumigante sono sufficienti a Dio per attendere e sperare. Si accontenta di un forse, si aggrappa a un fragile forse. Per lui il bene possibile domani conta più della sterilità di ieri. Convertirsi è credere a questo Dio contadino, simbolo di speranza e serietà, affaticato attorno alla zolla di terra del mio cuore. Salvezza è portare frutto, non solo per sé, ma per altri. Come il fico che per essere autentico deve dare frutto, per la fame e la gioia d'altri, così per star bene l'uomo deve dare. È la legge della vita. 
Lunedì, 22 Febbraio 2016 13:45

Eterna è la sua Misericordia

ceneri-2016Il senso del cammino quaresimale

Papa Francesco ha declinato il senso del cammino quaresimale in "due inviti" che la Chiesa rivolge: il lasciarsi “riconciliare con Dio” e il “ritornare” a Lui “con tutto il cuore”. “Cristo sa quanto siamo fragili e peccatori” - ha detto -  “sa che ci occorre sentirci amati per compiere il bene”:

“Egli vince il peccato e ci rialza dalle miserie, se gliele affidiamo. Sta a noi riconoscerci bisognosi di misericordia: è il primo passo del cammino cristiano; si tratta di entrare attraverso la porta aperta che è Cristo”.

Ostacoli che chiudono la porta del cuore

Cristo offre una “vita nuova e gioiosa” - ha proseguito Francesco - riconoscendo che ci possono essere alcuni ostacoli “che chiudono” il “cuore, come "la tentazione - ha detto - di blindare le porte”:

“Ossia di convivere col proprio peccato, minimizzandolo, giustificandosi sempre, pensando di non essere peggiori degli altri; così, però, si chiudono le serrature dell’anima e si rimane chiusi dentro, prigionieri del male”.

Un altro ostacolo - spiega - “è la vergogna ad aprire la porta segreta del cuore”:

“La vergogna, in realtà, è un buon sintomo, perché indica che vogliamo staccarci dal male; tuttavia non deve mai trasformarsi in timore o paura”.

Infine, la terza insidia, “quella di allontanarci dalla porta” facendo prevalere tristezza e scoraggiamento, rimanendo “soli con noi stessi”:

“Succede quando ci rintaniamo nelle nostre miserie, quando rimuginiamo continuamente, collegando fra loro le cose negative, fino a inabissarci nelle cantine più buie dell’anima".

Lasciamoci riconciliare con Gesù – ha ripetuto il Papa – non bisogna “rimanere in se stessi, ma andare da Lui! Lì ci sono ristoro e pace”.

Il mistero del peccato

Il Papa ha guardato il mistero del peccato che ci allontana “da Dio, dagli altri, da noi stessi”, ha parlato di come si faccia fatica “ad avere veramente fiducia in Dio”, di come sia difficile “amare gli altri, anziché pensare male di loro”; “siamo attirati e sedotti - ha aggiunto - da tante realtà materiali, che svaniscono e alla fine ci lasciano poveri:

“Accanto a questa storia di peccato, Gesù ha inaugurato una storia di salvezza. Il Vangelo che apre la Quaresima ci invita a esserne protagonisti, abbracciando tre rimedi, tre medicine che guariscono dal peccato”.

Preghiera, carità e digiuno

Il Papa parla della preghiera, la carità e il digiuno. Vie a cui ci invita Gesù “con coerenza e autenticità, vincendo l’ipocrisia”. La preghiera è “espressione di apertura e di fiducia nel Signore che è incontro personale con Lui”:

“Pregare significa dire: non sono autosufficiente, ho bisogno di Te, Tu sei la mia vita e la mia salvezza”.

In secondo luogo la carità, per superare l’estraneità nei confronti degli altri: l’amore vero - ha precisato - “non è un atto esteriore” “per acquietarsi la coscienza”. “È vivere il servizio, vincendo la tentazione di soddisfarci”.

Ha quindi spiegato che il digiuno e la penitenza aiutano a liberarci dalle dipendenze, allenano “a essere più sensibili e misericordiosi”:

“È un invito alla semplicità e alla condivisione: togliere qualcosa dalla nostra tavola e dai nostri beni per ritrovare il bene vero della libertà”.

Quaresima tempo di potatura da falsità, mondanità, indifferenza

Con lo sguardo fisso al “Crocifisso”, con la consapevolezza che tutti torneremo "ceneri", “la Quaresima - ha aggiunto - sia un tempo di benefica potatura della falsità, della mondanità, dell’indifferenza”:

“Per non pensare che tutto va bene se io sto bene; per capire che quello che conta non è l’approvazione, la ricerca del successo o del consenso, ma la pulizia del cuore e della vita; per ritrovare l’identità cristiana, cioè l’amore che serve, non l’egoismo che si serve”.

 
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