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Martedì, 04 Novembre 2014 17:52

I morti: le nostre radici

315Con questa memoria, siamo al cuore dell’autunno: gli alberi si spogliano delle foglie, le nebbie mattutine indugiano a dissolversi, il giorno si accorcia e la luce perde la sua intensità. Eppure ci sono lembi di terra, i cimiteri, che paiono prati primaverili in fiore, animati nella penombra da un crepitare di lucciole. Sì, perché da secoli gli abitanti delle nostre terre, finita la stagione dei frutti, seminato il grano destinato a rinascere in primavera, hanno voluto che in questi primi giorni di novembre si ricordassero i morti.

Sono stati i celti a collocare in questo tempo dell’anno la memoria dei morti, memoria che poi la chiesa ha cristianizzato, rendendola una delle ricorrenze più vissute e partecipate, non solo nei secoli passati e nelle campagne, ma ancora oggi e nelle città più anonime, nonostante la cultura dominante tenda a rimuovere la morte. Nell’accogliere questa memoria, questa risposta umana alla “grande domanda” posta a ogni uomo, la chiesa l’ha proiettata nella luce della fede pasquale che canta la resurrezione di Gesù Cristo da morte, e per questo ha voluto farla precedere dalla festa di tutti i santi, quasi a indicare che i santi trascinano con sé i morti, li prendono per mano per ricordare a noi tutti che non ci si salva da soli. Ed è al tramonto della festa di tutti i santi che i cristiani non solo ricordano i morti, ma si recano al cimitero per visitarli, come a incontrarli e a manifestare l’affetto per loro coprendo di fiori le loro tombe: un affetto che in questa circostanza diventa capace anche di assumere il male che si è potuto leggere nella vita dei propri cari e di avvolgerlo in una grande compassione che abbraccia le proprie e le altrui ombre. Per molti di noi là sotto terra ci sono le nostre radici, il padre, la madre, quanti ci hanno preceduti e ci hanno trasmesso la vita, la fede cristiana e quell’eredità culturale, quel tessuto di valori su cui, pur tra molte contraddizioni, cerchiamo di fondare il nostro vivere quotidiano.

Questa memoria dei morti è per i cristiani una grande celebrazione della resurrezione: quello che è stato confessato, creduto e cantato nella celebrazione delle singole esequie, viene riproposto qui, in un unico giorno, per tutti i morti. La morte non è più l’ultima realtà per gli uomini, e quanti sono già morti, andando verso Cristo, non sono da lui respinti ma vengono risuscitati per la vita eterna, la vita per sempre con lui, il Risorto-Vivente. Sì, c’è questa parola di Gesù, questa sua promessa nel Vangelo di Giovanni che oggi dobbiamo ripetere nel cuore per vincere ogni tristezza e ogni timore: “Chi viene a me, io non lo respingerò!” (cf. Gv 6,37ss.). Il cristiano è colui che va al Figlio ogni giorno, anche se la sua vita è contraddetta dal peccato e dalle cadute, è colui che si allontana e ritorna, che cade e si rialza, che riprende con fiducia il cammino di sequela. E Gesù non lo respinge, anzi, abbracciandolo nel suo amore gli dona la remissione dei peccati e lo conduce definitivamente alla vita eterna.

La morte è un passaggio, una pasqua, un esodo da questo mondo al Padre: per i credenti essa non è più enigma ma mistero perché inscritta una volta per tutte nella morte di Gesù, il Figlio di Dio che ha saputo fare di essa in modo autentico e totale un atto di offerta al Padre. Il cristiano, che per vocazione con-muore con Cristo (cf. Rm 6,8) ed è con Cristo con-sepolto nella sua morte, proprio quando muore porta a pienezza la sua obbedienza di creatura e in Cristo è trasfigurato, risuscitato dalle energie di vita eterna dello Spirito santo.

E’ in questa consapevolezza, in questa visione che deriva dalla sola fede, che la morte finisce per apparire “sorella”, per trasfigurarsi in un atto in cui si riconsegna a Dio, per amore e nella libertà, quello che lui stesso ci ha donato: la vita e la comunione. Per questo la chiesa della terra, ricordando i fedeli defunti, si unisce alla chiesa del cielo e in una grande intercessione invoca misericordia per chi è morto e sta davanti a Dio in giudizio per rendere conto di tutte le sue opere (cf. Ap 20,12).

Certo, nel ricordo di chi vive ci sono anche i morti la cui vita è stata segnata dal male, dai vizi, dalla cattiveria, dall’errore; ma c’è come un’urgenza, un istinto del cuore che chiede di onorare tutti i morti, di pensarli in questo giorno come all’ombra dei beati, sperando che “tutti siano salvati”.

La preghiera per i morti è un atto di autentica intercessione, di amore e carità per chi ha raggiunto la patria celeste; è un atto dovuto a chi muore perché la solidarietà con lui non dev’essere interrotta ma vissuta ancora come communio sanctorum, “comunione dei santi”, cioè di poveri uomini e donne perdonati da Dio: è il modo per eccellenza per entrare nella preghiera di Gesù Cristo: “Padre, che nessuno si perda… che tutti siano uno!”.

Commento al Vangelo di
ENZO BIANCHI
 
Martedì, 04 Novembre 2014 17:46

I frutti dell'amore

314In questi ultimi decenni sono stati proclamati tanti santi e beati: mai c’è stata nella chiesa una stagione così ricca di canonizzazioni, segno anche di un’estesa “cattolicità” raggiunta dalla testimonianza cristiana. Eppure molti, all’interno e attorno alla chiesa, hanno la sensazione di non conoscere dei santi “vicini”, di non riuscire a discernere “l’amico di Dio” – questa la stupenda definizione patristica del santo – nella persona della porta accanto, nel cristiano quotidiano. Questo forse è dovuto anche al fatto che viviamo in una cultura in cui si privilegia l’apparire, un mondo in cui – come ha detto qualcuno – “anche la santità si misura in pollici”: molti allora cercano non il discepolo del Signore, ma l’ecclesiastico di successo, l’efficace trascinatore di folle, l’opinion leader capace di parole sociologiche, politiche, economiche, etiche, la star mediatica cui si chiede una parola a basso prezzo su qualsiasi evento, facendolo apparire il più eloquente a prescindere dalla consistenza della sua sequela del Signore.

Ma è proprio in questa ambigua ricerca della santità attorno a noi che ci viene in aiuto la festa di tutti i santi, la celebrazione della comunione dei santi del cielo e della terra. Sì, al cuore dell’autunno, dopo tutte le mietiture, i raccolti e le vendemmie nelle nostre campagne, la chiesa ci chiede di contemplare la mietitura di tutti i sacrifici viventi offerti a Dio, la messe di tutte le vite ritornate al Signore, la raccolta presso Dio di tutti i frutti maturi suscitati dall’amore e dalla grazia del Signore in mezzo agli uomini. La festa di tutti i santi è davvero un memoriale dell’autunno glorioso della chiesa, la festa contro la solitudine, contro ogni isolamento che affligge il cuore dell’uomo: se non ci fossero i santi, se non credessimo “alla comunione dei santi” – che non certo a caso fa parte della nostra professione di fede – saremmo chiusi in una solitudine disperata e disperante. In questo giorno dovremmo cantare: “Non siamo soli, siamo una comunione vivente!”; dovremmo rinnovare il canto pasquale perché, se a Pasqua contemplavamo il Cristo vivente per sempre alla destra del Padre, oggi, grazie alle energie della resurrezione, noi contempliamo quelli che sono con Cristo alla destra del Padre: i santi. A Pasqua cantavamo che la vite era vivente, risorta; oggi la chiesa ci invita a cantare che i tralci, mondati e potati dal Padre sulla vite che è Cristo, hanno dato il loro frutto, hanno prodotto una vendemmia abbondante e che questi grappoli, raccolti e spremuti insieme formano un unico vino, quello del Regno.

Noi oggi contempliamo questo mistero: i morti per Cristo, con Cristo e in Cristo sono con lui viventi e, poiché noi siamo membra del corpo di Cristo ed essi membra gloriose del corpo glorioso del Signore, noi siamo in comunione gli uni con gli altri, chiesa pellegrinante con chiesa celeste, insieme formanti l’unico e totale corpo del Signore. Oggi dalle nostre assemblee sale il profumo dell’incenso, segno del legame con la chiesa di lassù, la Gerusalemme celeste che attende il completamento del numero dei suoi figli ed è vivente, gloriosa presso Dio, con Cristo, per sempre.

Ecco il forte richiamo che risuona per noi oggi: riscoprire il santo accanto a noi, sentirci parte di un unico corpo. E’ questa consapevolezza che ha nutrito la fede e il cammino di santità di molti credenti, dai primi secoli ai nostri giorni: uomini e donne nascosti, capaci di vivere quotidianamente la lucida resistenza a sempre nuove idolatrie, nella paziente sottomissione alla volontà del Signore, nel sapiente amore per ogni essere umano, immagine del Dio invisibile. Il santo allora diviene una presenza efficace per il cristiano e per la chiesa: “Noi non siamo soli, ma avvolti da una grande nuvola di testimoni” (Eb 12,1), con loro formiamo il corpo di Cristo, con loro siamo i figli di Dio, con loro saremo una cosa sola con il Figlio. In Cristo si stabilisce tra noi e i santi una tale intimità che supera quella esistente nei nostri rapporti, anche quelli più fraterni, qui sulla terra: essi pregano per noi, intercedono, ci sono vicini come amici che non vengono mai meno. E la loro vicinanza è davvero capace di meraviglie perché la loro volontà è ormai assimilata alla volontà di Dio manifestatasi in Cristo, unico loro e nostro Signore: non sono più loro a vivere, ma Cristo in loro, avendo raggiunto il compimento di ogni vocazione cristiana, l’assunzione del volere stesso di Cristo: “Non la mia, ma la tua volontà sia fatta, o Padre” (Lc 22,42). Sostenuti da quanti ci hanno preceduto in questo cammino, scopriremo anche i santi che ancora operano sulla terra perché il seme dei santi non è prossimo all’estinzione: caduto a terra si prepara ancora oggi a dare il suo frutto. “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,19).

Purtroppo oggi questa memoria dei santi, così come quella dei morti il giorno seguente, è svuotata dalla celebrazione, sempre più popolare, di Hallowen: un altro, triste segnale di come nella nostra società si scivoli con facilità e insensibilmente dal reale al virtuale. A un mondo invisibile, autentico e reale, il mondo della comunione dei santi, viene sostituito un mondo invisibile ma immaginario, una fiction fabbricata con le nostre mani per autoconsolazione. No, la comunione dei santi è sperimentabile, vivibile: noi non siamo soli qui sulla terra perché nel Cristo risorto siamo “communicantes in unum”!

Commento al Vangelo di
ENZO BIANCHI
 
Lunedì, 27 Ottobre 2014 06:53

Cile: Congresso Eucaristico Leonardino

Cong.-Euca“Eucaristia: missione permanente”.  Questo é il lema scelto per il congresso che si ha svolto il sabato scorso nel Centro Culturale del´Ordine, L’ Agora.

Sono stati invitati circa di duescento persone fra i diaconi, religiose, laici, catequistchi, ministri della comunione e giovani,  delle quattro parrocchie in Cile e  anche di quella nuova in Colombia. Anche hanno partecipato i representati della Clinica Familia ed Scuole.

Come espositori, ci sono stati,  il professore Francisco Montero e il P. Eduardo Winser omd. Loro due hanno parlato sulla relazione fra eucaristía e missione, ma il secondo ha sottolineato lo proprio della spiritualitá leonardina.

L´apertura ed stata marcata per il vidio-saluto del nostro Padre Generale ed alla fine per le parole che ha rivolto a tutti i participanti el nostro Padre Delegato.

Alla fine, abbiamo presentato l’inno del Congreso che ha composto un giovani della parrocchia N.S. del Carmenine de Rancagua (Matias Morales), anche lui ha fatto il logo per questo evento. Anche, i giovani colombiani hanno mostrato le loro dance per concludere questo congresso eucaristico-missionario. 
Sabato, 25 Ottobre 2014 17:24

Il grande comandamento

313Continuano le controversie tra Gesù e i suoi oppositori, che a turno tentano di coglierlo in contraddizione con la fede di Israele, con l’insegnamento della tradizione, deposito da essi custodito gelosamente. I sadducei, cioè i sacerdoti (cf. Mt 22,23); i farisei (cf. Mt 22,15), un movimento laicale estremamente legato alla Torah, alla Legge; gli erodiani, partigiani di Erode (cf. ibid.); gli interpreti delle Scritture: tutti vanno da Gesù, mentre egli si trova nel tempio, per porgli domande, per “fargli l’esame” e coglierlo in fallo nelle sue parole. Vogliono che la sua voce taccia, che le sue parole non siano ascoltate, che i suoi gesti siano puniti, e per questo saranno disposti a condannarlo e a procurargli la morte.

Sono gli ultimi giorni di Gesù nella città santa di Gerusalemme, prima dell’arresto e della passione, ed egli sa che il cerchio intorno a sé si stringe sempre più. Ed ecco che nella nostra pagina del vangelo entrano di nuovo in scena i farisei, e tra loro un dottore della Legge, un teologo diremmo noi, un esperto delle sante Scritture, “lo interroga per metterlo alla prova: ‘Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?’”. La domanda è pertinente, perché nel giudaismo rabbinico la Legge aveva assunto un posto centrale all’interno della rivelazione scritta: e così i primi cinque libri biblici erano i più studiati e meditati, con un primato su tutti gli altri, quelli dei profeti e dei sapienti. In questo studio della Torah i rabbini avevano individuato, oltre alle dieci parole date da Dio a Mosè (cf. Es 20,2-17; Dt 5,6-22), 613 precetti, come spiega un testo della tradizione ebraica:

Rabbi Simlaj disse: “Sul monte Sinai a Mosè sono stati enunciati 613 comandamenti: 365 negativi, corrispondenti al numero dei giorni dell’anno solare, e 248 positivi, corrispondenti al numero degli organi del corpo umano … Poi venne David, che ridusse questi comandamenti a 11, come sta scritto [nel Sal 15] … Poi venne Isaia che li ridusse a 6, come sta scritto [in Is 33,15-16] … Poi venne Michea che li ridusse a 3, come sta scritto: ‘Che cosa ti chiede il Signore, se di non praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio?’ (Mi 6,8) … Poi venne ancora Isaia e li ridusse a 2, come sta scritto: ‘Così dice il Signore: Osservate il diritto e praticate la giustizia’ (Is 56,1) … Infine venne Abacuc e ridusse i comandamenti a uno solo, come sta scritto: ‘Il giusto vivrà per la sua fede’ (Ab 2,4; cf. Rm 1,17; Gal 3,11)” (Talmud babilonese, Makkot 24a).

Questa la risposta rabbinica alla questione su come semplificare i precetti della Legge, su quale comandamento meritasse il primato. Gesù non si pone all’interno di questa casistica, ma va al fondamento della vita del credente. Innanzitutto cita lo Shema‘ Jisra’el, il comandamento che il credente ebreo ripeteva e ripete tre volte al giorno: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua vita e con tutta la tua mente” (Dt 6,4-5). Poi chiosa: “Questo è il grande e primo comandamento”.

Ma subito va oltre, accostando al comandamento dell’amore per Dio quello dell’amore per il prossimo, dato senza paralleli nella letteratura giudaica antica: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18). Risalendo alla volontà del Legislatore, Gesù discerne che amore di Dio e del prossimo sono in una relazione inscindibile tra loro: la Legge e i Profeti sono riassunti e dipendono dall’amore di Dio e del prossimo, non l’uno senza l’altro. Non a caso nel nostro testo il secondo comandamento è definito pari al primo, con la stessa importanza, lo stesso peso, mentre l’evangelista Luca li unisce addirittura in un solo grande comandamento: “Amerai il Signore Dio tuo … e il prossimo tuo” (Lc 10,27). Sì, Gesù compie un’audace e decisiva innovazione, e lo fa con l’autorità di chi sa che non si può amare Dio senza amare il fratello, la sorella. Lo esprimerà un suo discepolo, Giovanni, riprendendo l’insegnamento di Gesù: “Se uno dice: ‘Io amo Dio’ e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello” (1Gv 4,20-21).

Ecco come si può rispondere all’amore di Dio per noi, al “Dio” che “è amore” (1Gv 4,8.16) e che “ci ha amati per primo” (1Gv 4,19): credendo a questo amore (cf. 1Gv 4,16), e di conseguenza amando Dio e gli altri. Noi parliamo troppo facilmente di amore per Dio, perché ci infiammiamo nel pensarci quali amanti: allora accresciamo il nostro desiderio di Dio, aneliamo a lui, cantiamo la nostra sete di lui (si veda, in proposito, l’inizio degli splendidi salmi 42 e 63), godiamo di stare nella sua intimità, pratichiamo anche un’assiduità con Dio nella preghiera, negli affetti, nei sentimenti, nelle emozioni. Ma occorre sempre discernere se in tale amore Dio è ascoltato o no, se la sua volontà è realizzata o no: in sintesi, se in questa relazione ci accontentiamo di un amore di desiderio, senza che vi sia in noi anche l’amore di ascolto e di obbedienza.

Va detto con chiarezza: il rapporto con Dio è esposto al rischio dell’idolatria, perché se Dio è ridotto a un oggetto del nostro amore, se amiamo un’immagine di Dio che noi abbiamo plasmato, allora Dio è un idolo, non il Dio vivente che si è rivelato a noi! Certo, in quanto esseri umani abbiamo bisogno di esprimere l’amore per Dio anche con il linguaggio del desiderio che ci abita e che ci spinge fuori di noi stessi. Dobbiamo però sempre ricordare l’essenziale: noi aneliamo all’abbraccio con il Signore, con il Dio vivente, ma egli entra in una relazione intima, penetrante, conoscitiva con noi, nella misura in cui lo ascoltiamo, e dunque facciamo il suo desiderio, la sua volontà.

Insomma, Dio va amato amando gli altri come lui li ama. L’amore per gli altri è ciò che rende vero il nostro amore per Dio, è l’unico luogo rivelativo, l’unico segno oggettivo che noi siamo discepoli di Gesù, e dunque amiamo Gesù e amiamo Dio. Gesù stesso lo ha affermato in modo netto: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35); l’amore che mette in pratica “il comandamento nuovo”, cioè ultimo e definitivo, lasciatoci da Gesù: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati” (Gv 13,34; 15,12). La verità dell’amore di desiderio per Dio sta dunque nell’amore di chi realizza concretamente la sua volontà: “Dio nessuno l’ha mai contemplato: se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e in noi il suo amore è giunto a pienezza” (1Gv 4,12).

Commento al Vangelo di
ENZO BIANCHI
 
312In queste domeniche i brani evangelici previsti dalla liturgia ci rendono testimoni delle controversie tra Gesù e i rappresentanti di vari gruppi religiosi dell’epoca, controversie avvenute nel tempio di Gerusalemme in prossimità della sua passione e morte.

Questa volta sono i farisei che tentano di mettere Gesù in contraddizione con la sua fede e la sua predicazione. Per questo gli inviano dei loro discepoli insieme a dei partigiani di Erode. Entrambi i gruppi volevano l’instaurazione di un regno teocratico in Israele: i farisei attraverso il dominio della loro Legge e del Re Messia, gli erodiani attraverso l’estensione del regno di Erode a tutta la terra santa, in autonomia dall’impero romano. Ma l’intenzione profonda degli uni e degli altri è quella di tendere un tranello a Gesù, per questo si avvicinano a lui con l’adulazione: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni con franchezza la via di Dio, senza lasciarti influenzare da nessuno…”. Parole che potrebbero essere una testimonianza della postura veritiera e profetica di Gesù, ma che nelle loro intenzioni sono semplicemente un trabocchetto per indurre Gesù a dichiararsi o idolatra di Cesare o contestatore di Cesare: e così la colpa di Gesù sarà evidente in un caso agli occhi dell’autorità religiosa ebraica, nell’altro a quelli dell’autorità politica romana.

Secondo la volontà di Dio, dal punto di vista della fede, è lecito pagare la tassa imperiale a Cesare? Gesù, dopo aver messo in luce la perversa ipocrisia dei suoi interlocutori – il loro essere persone doppie, che pensano, progettano una cosa e ne dicono un’altra –, si fa portare la moneta del tributo, su cui è scritto: “Tiberio Cesare, figlio del dio Augusto”, iscrizione accompagnata dall’effigie dell’imperatore. A questo punto egli non può esimersi dal rispondere alla domanda rivoltagli, che pure è formulata in modo diabolico. Se infatti affermasse: “Sì, è lecito pagare il tributo”, si mostrerebbe a favore di Cesare, anzi idolatra dell’impero totalitario, e così il popolo che attendeva il Messia liberatore dal giogo romano lo sentirebbe come un traditore. Se, al contrario, rispondesse negativamente, allora gli erodiani avrebbero motivo per denunciarlo come un pericoloso agitatore sociale anti-romano.

Ma ecco che Gesù, tenendo in mano la moneta, ribatte a sorpresa con una domanda: “Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?”. Al sentirsi rispondere: “Di Cesare”, può dunque concludere con una sentenza divenuta celebre: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Queste parole brevissime sono come un seme, una chiave che richiede di essere decodificata, un’affermazione sapiente che necessita di essere interpretata dai discepoli di Gesù in modo sempre nuovo, a seconda dei tempi e delle situazioni cangianti del mondo. Occorre molta vigilanza per non rendere queste parole uno slogan, come tante volte è successo e succede nei rapporti tra lo stato e la chiesa, tra l’autorità politica e i cristiani.

Cosa significa dunque: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare”? È vero che, secondo le Scritture, il potere esercitato sulla terra viene da Dio. Anche Ciro, il re dei persiani che ha sconfitto Babilonia, era un “unto”, un messia di Dio, il quale, pur senza conoscere il Dio di Israele e senza credere in lui, aveva compiuto azioni volute da Dio stesso, diventando suo strumento (cf. Is 45,1-7). Nel Nuovo Testamento l’Apostolo Paolo applica la medesima convinzione alla situazione dei cristiani nell’impero: occorre prestare obbedienza leale alle autorità dello stato (cf. Rm 13,1-7; Tt 3,1-2). Cosa significa questo? Che lo stato, l’autorità politica è assolutamente necessaria per la vita della polis e dei credenti in essa. La città abitata dagli uomini e dalle donne abbisogna di ordine, di legalità, di giustizia, e dunque la politica non può essere ignorata, né si può vivere in società senza un’autorità cui rispondere lealmente. Gesù ha rifiutato di essere un Messia politico (cf. Mt 4,8-10), non ha accettato di essere fatto re (cf. Gv 6,14-15) e ha rimproverato Pietro per la sua incomprensione della propria identità di Messia mite, umile e anche sofferente (cf. Mt 16,21-23; 11,29). Egli è Re – come dirà a Pilato – ma non di questo mondo (cf. Gv 18,36)! Dare a Cesare ciò che è di Cesare, allora, significa riconoscerne l’autorità, restarvi sottomessi e tenere conto di essa – lo ribadisco – lealmente. Il cristiano non può essere un anarchico che si schiera contro lo stato, contro l’autorità politica.

Ma qui ecco apparire lo specifico della via aperta da Gesù Cristo, dunque del cristianesimo, che può anche sembrare paradossale: il cristiano, obbediente alle leggi dello stato, deve tuttavia riconoscere sempre “ciò che è di Dio”. Ed è di Dio la persona umana, perché l’uomo, non Cesare, è l’effigie, l’immagine di Dio (cf. Gen 1,26-27), dunque è ciò che occorre rendere a Dio. Così il potere nella polis è riconosciuto, ma non in modo assoluto, senza limiti: va obbedito fino a che non opprima, non schiacci la persona nella sua libertà, nella sua dignità, nella sua coscienza. Certamente con questa presa di posizione Gesù introduce nel mondo antico, che concepiva il potere politico in modo teocratico, una distinzione rivoluzionaria, che la chiesa in seguito smentirà, da Costantino fino a pochi decenni fa: la politica è necessaria ma va desacralizzata; quella del potere, di Cesare è una funzione necessaria ma umana, esercitata da esseri umani. E di fronte a Cesare sta il diritto di Dio, del Signore, che è vindice e garante di tutta la grandezza e la libertà dell’essere umano, che mai è lecito conculcare!

A Cesare, dunque, va pagato il tributo, ciò che deriva dal suo potere; ma ciò che appartiene a Dio, la vita umana, va data a Dio. E quando le due autorità entrano in conflitto, occorre ricordare le parole degli apostoli: “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 5,29).

Commento al Vangelo di
ENZO BIANCHI
 
founderOn 11th October, all the fathers of the Indian Delegation came together in Trichy for the third session with Rev.Dr.Sebastin, under  the topic of  “Wounded Healer.” He insisted that the leader should read the moving of the Spirit within oneself and others. Unfamilarity with Spirit will distance from oneself and others. It is the wounds that reveal God’s identity. We need to heal our wounds and that of others. For it, we need to be in touch with one’s own suffering, i.e., the ability to articulate the suffering, becoming man of compassion and be a mystic who is revolutionary and able to identify one’s wounds and others. Then, he narrated the possible wounds a minister can have and ways to heal them.

Last week also was marked by the celebrations of Founder’s Solemnity in our various communities in India. On 8th October, on the eve of the Solemnity, in our formation house in Madurai,  the Solemn Eucharist was celebrated, having the religious priests, sisters and brothers from  neigbouring communities and Professors and lay friends as invitees. Everything was well organised by Fr.Cyril and his community. On 9th October, The celebration was done in our parrochial communities at Azhickal, Samayapuram & Sanipoondi. In Azhickal, lay leonardian movement which has been started recently with the approval of bishop, arranged a camp for blood donation and eye donation during the day. In the evening the Solemn Eucharistic celebration was done having good participation from the people of the parishoners. During the offertory, they collected around 45,000 rupees and contributed for our Seminarian’s Fund. Everything was well organised by Fr.Donathius. In Samayapuram and Sanipoondi Solemn Eucharist was celebrated in honour of our Founder, having the good participation from our parishes. Fr.Justin & Fr. Santhiagu arranged well the liturgy. In the formation community at Samayapuram, Trichy, it was planned  to celebrate the Founder’s Solemnity, having all the priests of the delegation. So,it was a OMD family celebration. Fr. Beno and his community  arranged  well the day.

16 ottobre 2014. 
Sabato, 11 Ottobre 2014 21:36

la formación permanente del mes de octubre

formndose-1Los sacerdotes leonardinos siempre siguen formándose ,porque nunca termina su crecimiento pleno como religioso consagrado a Dios .Por tal motivo ,el Lunes 6 de Octubre, mes dedicado a San Juan Leonardi, se realizó un encuentro formativo acerca de la vida comunitaria y personal de cada religioso ,guiado por el sacerdote Jesuita.

Hay que destacar que al medio dìa de la jornada celebramos con mucha alegría, la Eucaristía conmemorando a Nuestro Santo Fundador de la Orden Madre de Dios ,San Juan Leonardi, Misa presidida por el P. Alejandro Abarca Superior de la Orden en Chile.

El encuentro fue muy valioso por los temas expuestos y la comunión fraterna vivida, como verdaderos hermanos sacerdotes y religiosos, de la Familia de La Orden Madre de Dios en Chile.

09 octubre 2014 
Sabato, 11 Ottobre 2014 21:26

L'invito al banchetto nuziale del Regno

311Proclamando la buona notizia che racconta e fa conoscere Dio, Gesù non ricorre a grandi definizioni, non spiega complesse dottrine, ma preferisce presentare a chi lo ascolta delle immagini, degli eventi della vita umana, e indicare in essi una dinamica che illustra l’agire di Dio e degli esseri umani.

La parabola prevista oggi dalla liturgia ci parla di un re che vuole celebrare le nozze di suo figlio. Se in questo evento si deve riscontrare una somiglianza con il regno dei cieli (“Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio”), allora quel re non può che essere Dio e suo Figlio è Gesù, mandato nel mondo per trovare la sua sposa, l’umanità. Siamo di fronte alla realizzazione del progetto, del sogno di Dio già annunciato più volte dai profeti nell’Antico Testamento (cf. Os 2,16-25; Is 54,5, ecc.): Dio avrebbe celebrato le nozze con l’umanità, attraverso un’alleanza definitiva, eterna, e ormai Gesù è in procinto di compiere queste nozze, è lui lo Sposo atteso (cf. Mt 9,15).

Ancora una volta, dunque, Dio manda i suoi servi. Come nella parabola della vigna aveva inviato prima i profeti e alla fine suo Figlio (cf. Mt 21,33-43), ora continua a inviare altri servi, gli apostoli, i discepoli di Cristo, i missionari suoi testimoni, per invitare tutti al banchetto nuziale (cf. Mt 8,11). Tutti sono invitati gratuitamente, non devono meritarlo né devono pagare qualcosa per poter entrare nella stanza della festa, dove è preparato un banchetto abbondante e generoso, con cibi succulenti e vini raffinati (cf. Is 25,6). Eppure anche di fronte a un tale invito, in cui si manifesta la gratuità del re che fa a tutti questa offerta, alcuni restano indifferenti e non vi aderiscono. Chi va al suo campo, chi al mercato, chi a fare le proprie cose: così disertano quell’occasione di grande festa condivisa. Alcuni poi, in reazione all’invito gratuito e amoroso, sono presi da rancore e finiscono per maltrattare e scacciare quei servi; giungono addirittura, nella banalità del male che quando inizia a manifestarsi cresce e non conosce più limiti, a ucciderli! Sempre un atto di benevolenza riceve accoglienza da pochi, suscita molta indifferenza e scatena avversione, inimicizia da parte di quelli a cui si fa il bene. È paradossale, scandaloso, ma così avviene nel nostro quotidiano…

Allora il re, vedendo che la sala di nozze è mezza vuota, invia di nuovo altri servi sulle piazze, nei crocicchi, nei bassifondi della città, e quelli che mai avrebbero pensato di essere ricordati dal re accettano l’invito con sorpresa e gioia, e si recano al banchetto. Nella versione di Luca la parabola racconta dell’invito rivolto a poveri, storpi, ciechi e zoppi (cf. Lc 14,21); qui possiamo dedurre che si compia la parola detta poco prima da Gesù: “I peccatori pubblici e le prostitute precedono nel Regno gli altri invitati” (cf. Mt 21,31). Così, buoni e cattivi, tutti insomma, sono invitati al banchetto nuziale del Figlio di Dio con l’umanità: “la sala delle nozze si riempì di commensali”.

Chiunque arriva alla soglia della stanza del banchetto riceve un mantello bianco, un abito di festa donato gratuitamente, che indica l’aver risposto liberamente “sì” all’invito del re. Anche il vestito di nozze basta accoglierlo e indossarlo, non va meritato né comprato. C’è però ancora chi si oppone: non accetta quel dono, non vuole quell’abito e non lo indossa! Eppure il re, regalando quel vestito, chiede solo a chi entra al banchetto di essere in tenuta da festa, di essere pulito, di dare un segno di mutamento e di libertà… Quando dunque egli “entra per vedere i commensali, scorge un uomo che non indossa l’abito nuziale” e che, alla sua richiesta di spiegazioni, tace. È un’altra delusione per il re, una chiamata frustrata: egli non vorrebbe, ma di fatto chi rifiuta questo ennesimo dono si ritrova per sua scelta in una situazione mortifera, senza via di salvezza.

A questo punto il linguaggio della parabola, dai tratti tipicamente orientali, nel suo intento di avvertire ed esortare i lettori si fa duro, persino crudele: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”, ordina il re ai servi. Si tratta però di immagini (e sottolineo, di immagini!) per esprimere una realtà fondamentale: nell’ultimo giorno ci sarà un giudizio decisivo, che verterà sull’aver accettato o rifiutato il dono di Dio. Dio ci dona la vita, mai la morte: quest’ultima la scegliamo noi. E Dio, che rispetta fino in fondo la nostra libertà, con sofferenza ci lascia fare, e così ci vede errare lontano da sé e preferire la prigione alla libertà, la distruzione alla vita piena.

Commento al Vangelo di
ENZO BIANCHI
 
9-10-2014La solenne celebrazione della festività liturgica di San Giovanni Leonardi nel santuario parrocchiale di Santa Maria in Portico in Campitelli a Roma, è stata presieduta dal Cardinale Fernando Filoni Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione di Popoli. Accolto dal Parroco P. Davide Carbonaro, dopo la sosta presso l’altare del Santo il Cardinale ha dato inizio alla concelebrazione. Nel saluto iniziale il P. Generale P. Francesco Petrillo, ha ricordato che la festività liturgica si arricchisce dalla memoria del IV centenario della breve unione tra gli Scolopi fondati da San Giuseppe Calasanzio e i Leonardini. Era presente alla concelebrazione il P. Generale degli Scolopi P. Pedro Aguado con una rappresentanza della famiglia calasanziana. Durante l’omelia Sua Eminenza ha invitato i presenti a contemplare nella figura di San Giovanni Leonardi la bellezza del Vangelo e nelle sue intuizioni missionarie il desiderio di essere “Nel cuore della Chiesa e di avere la Chiesa nel cuore”.

10 ottobre 2014
festa-2014Dai frutti li riconoscerete e dal grande albero della Chiesa i frutti buoni della testimonianza del Vangelo sono visibili nelle intuizioni profetiche che San Giovanni Leonardi propose e realizzò nella Chiesa l’Ordine della Madre di Dio ed il Collegio di Propaganda Fide. In fondo: “Oggi ci sentiamo un po’ tutti leonardini” ha affermato il Vescovo Zuppi durante i solenni primi Vespri nella memoria del beato transito di San Giovanni Leonardi nel santuario parrocchiale di Campitelli. Alla celebrazione era presente un nutrito gruppo di seminaristi del Collegio Urbano di Propaganda Fide accompagnati dal Rettore Mons. Vincenzo Viva e dai collaboratori. Al termine la tradizionale processione per il quartiere di Campitelli. Durante il tragitto la processione ha sostato nella Chiesa di Sant’Angelo in Pescheria officiata dai Chierici Regolari caracciolini accolta dai religiosi e dai fedeli della Comunità Maria del Rinnovamento Carismatico. 

10 ottobre 2014
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