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Con Cristo
misurate le cose
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Con Cristo
misurate le cose
Sfregiata dalla coltellata di uno sprovveduto qualche mese fa, la tela del San Michele di Sebastiano Conca (1680- 1746) è stata riparata con un intervento di conservazione della Sovraintendenza di Palazzo Venezia a Roma. La pala originariamente fu eseguita per la chiesa di S. Eustachio e venne collocata a Campitelli nella cappella concessa da papa Benedetto XIII nel 1729 al Collegio dei Procuratori dei sacri palazzi apostolici. 21 novembre 2013
Con il suo linguaggio apocalittico il brano non racconta la fine del mondo, ma il significato, il mistero del mondo. Vangelo dell'oggi ma anche del domani, del domani che si prepara nell'oggi. Se lo leggiamo attentamente notiamo che ad ogni descrizione di dolore, segue un punto di rottura dove tutto cambia, un tornante che apre l'orizzonte, la breccia della speranza: non è la fine, alzate il capo, la vostra liberazione è vicina. Al di là di profeti ingannatori, anche se l'odio sarà dovunque, ecco quella espressione struggente: Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto; ribadita da Matteo 10,30: i vostri capelli sono tutti contati, non abbiate paura. Nel caos della storia lo sguardo del Signore è fisso su di me, non giudice che incombe, ma custode innamorato di ogni mio frammento. Il vangelo ci conduce sul crinale della storia: da un lato il versante oscuro della violenza, il cuore di tenebra che distrugge; dall'altro il versante della tenerezza che salva. In questa lotta contro il male, contro la potenza mortifera e omicida presente nella storia e nella natura, " con la vostra perseveranza salverete la vostra vita". La vita - l'umano in noi e negli altri - si salva con la perseveranza. Non nel disimpegno, nel chiamarsi fuori, ma nel tenace, umile, quotidiano lavoro che si prende cura della terra e delle sue ferite, degli uomini e delle loro lacrime. Scegliendo sempre l'umano contro il disumano (Turoldo). Perseveranza vuol dire: non mi arrendo; nel mondo sembrano vincere i più violenti, i più crudeli, ma io non mi arrendo. Anche quando tutto il lottare contro il male sembra senza esito, io non mi arrendo. Perché so che il filo rosso della storia è saldo nelle mani di Dio. Perché il mondo quale lo conosciamo, col suo ordine fondato sulla forza e sulla violenza, già comincia a essere rovesciato dalle sue stesse logiche. La violenza si autodistruggerà (M. Marcolini). Il Vangelo si chiude con un'ultima riga profezia di speranza: risollevatevi, alzate il capo, la vostra liberazione è vicina. In piedi, a testa alta, liberi: così vede i discepoli il vangelo. Sollevate il capo, guardate lontano e oltre, perché la realtà non è solo questo che si vede: viene un Liberatore, un Dio esperto di vita. Sulla terra intera e sul piccolo campo dove io vivo si scaricano ogni giorno rovesci di violenza, cadono piogge corrosive di menzogna e corruzione. Che cosa posso fare? Usare la tattica del contadino. Rispondere alla grandine piantando nuovi frutteti, per ogni raccolto di oggi perduto impegnarmi a prepararne uno nuovo per domani. Seminare, piantare, attendere, perseverare vegliando su ogni germoglio della vita che nasce.
I sadducei propongono a Gesù una storia paradossale per mettere in ridicolo l'ipotesi stessa della risurrezione. Ci sono molti cristiani come sadducei: l'eternità appare loro poco attraente, forse perché percepita più come durata che come intensità; come prolungamento del presente, mentre in primo luogo è il modo di esistere di Dio. C'erano sette fratelli, e quella donna mai madre e vedova sette volte, di chi sarà nell'ultimo giorno? Non sarà di nessuno. Perché nessuno sarà più possesso di nessuno. All'inizio, nei sette fratelli preme un'ansia di dare la vita, un bisogno di fecondità. Alla fine, l'ansia umana diventa ansia divina quando Gesù afferma: e saranno figli di Dio, perché sono figli della risurrezione. In Dio e nell'uomo urge lo stesso bisogno di dare la vita, a figli da amare. La fede nella risurrezione non è frutto del mio bisogno di esistere oltre la morte, ma racconta il bisogno di Dio di dare vita, di custodire vite all'ombra delle sue ali. Quelli che risorgono non prendono moglie né marito, dice Gesù. In quel tempo sarà inutile il matrimonio, ma non inutile l'amore. Perché amare è la pienezza dell'uomo e la pienezza di Dio. Saranno come angeli. Gli angeli non sono le creature gentili e un po' evanescenti del nostro immaginario. Nella Bibbia gli angeli hanno la potenza di Dio, un dinamismo che trapassa, sale, penetra, che vola nella luce, nell'ardore, nella bellezza. Il loro compito sarà custodire, illuminare, reggere, rendere bello l'amore. Ogni amore vero che abbiamo vissuto si sommerà agli altri nostri amori, senza gelosie e senza esclusioni, donerà non limiti o rimpianti, ma una impensata capacità di intensità e di profondità. «Il Signore è Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Dio non è Dio di morti, ma di vivi». Dio «di»: in questo «di» ripetuto cinque volte è contenuto il motivo ultimo della risurrezione, il segreto dell'eternità. Una sillaba breve come un respiro, ma che contiene la forza di un legame, indissolubile e reciproco, e che significa: Dio appartiene a loro, loro appartengono a Dio. Così totale è il legame, che il Signore giunge a qualificarsi non con un nome proprio, ma con il nome di quanti ha amato. Il Dio più forte della morte è così umile da ritenere i suoi amici parte integrante di sé. Dio di Abramo, di Isacco, di Gesù, Dio di mio padre, di mia madre... Se quei nomi, quelle persone non esistono più è Dio stesso che non esiste. Se quel legame si dissolve è il nome stesso di Dio che si spezza. Per questo li farà risorgere: solo la nostra risurrezione farà di Dio il Padre per sempre.
Nell’ambito della XXI stagione concertistica curata dall’Associazione per la musica Antica Antonio il verso, la Cappella Musicale di Santa Maria in Campitelli ha presentato lunedì 4 novembre presso la Basilica di San Francesco di Assisi a Palermo, in prima assoluta, la “Messa da morti a 5 concertata” del francescano conventuale Fra Bonaventura Rubino (1653). Tra le volte gotiche dell’austera basilica francescana accompagnata da un pubblico attento e qualificato le note di Fra Bonaventura sono risuonate dopo secoli interpretate dalle voci professionali dei cantori della Cappella musicale di Campitelli e l’Ensemble la Cantoria diretti dal M° Vincenzo Di Betta. Gli interludi d’organo sono stati eseguiti da M° Vito Gaiezza. L’esecuzione ha riscosso il consenso della critica e come ha affermato la Dott.ssa Paola Ronchetti: “Bonaventura Rubino in questa messa da Requiem esprime tutta la sua perizia compositiva, dimostrando di aver assimilato gli insegnamenti di Giovanni Gabrieli e Claudio Monteverdi, e dando vita ad una tavolozza timbrica quanto mai variata ed efficace”.
5 novembre 2013
Mi è stato chiesto di ricordare Padre Alceste a 10 anni dalla morte.
Accolgo volentieri questo invito e desidero ricordarlo in questo giorno, nella Festa di tutti I Santi.
“Badate ai fanciulli … se volete farne degli uomini”: si intitolava così la testimonianza che
Padre Alceste portò al Meeting di Rimini nell’agosto 2000. Fu questa la sua preoccupazione e la sua passione nell’opera alla quale dette vita e per la quale diede la sua vita.
Per trentatré anni infatti si prese cura di bambini abbandonati che accolse nell’hogar di Quinta de Tilcoco in Cile e per un migliaio di loro trovò dei genitori attraverso l’esperienza dell’adozione.
Rimasi sorpresa - lo raccontai in un articolo per il notiziario dell’Ordine della Madre di Dio - quando gli organizzatori del Meeting, in vista della edizione del 2000 mi interpellarono per invitare Padre Alceste. Non lo conoscevano direttamente, avevano sentito parlare di lui e della sua opera da me e da mio marito, che avevamo adottato due bambini provenienti dall’hogar di Quinta. Perché sorpresa: perché attraverso i nostri racconti , le descrizioni, i nostri figli stessi, avevano intuito la grandezza dell’opera di Padre Alceste.
Quante battaglie nei tribunali, per dare una famiglia ai “suoi” bambini. In Cile era un personaggio, contribuì alla legislazione sull’adozione, nel 2001 ottenne la cittadinanza onoraria.
Non voglio tacere su quello che era per lui motivo di profonda amarezza: il silenzio da parte della Chiesa (dei suoi Pastori) sull’esperienza dell’adozione. Padre Alceste sosteneva “che se la Chiesa si impegna con opzione preferenziale per i poveri, non sono forse poveri dei bambini che hanno un passato nero, un presente incerto e un futuro imprevedibile e non si sentono parte di una famiglia, non appartengono a nessuno? E dall’altra parte migliaia e migliaia di coppie soffrono in silenzio il dolore di non poter dare amore a una creatura …”.
Ricordo ancora con commozione la gioia e la gratitudine di Padre Alceste quando, nel settembre 2000, Papa Giovanni Paolo II ricevendo in udienza le famiglie adottive di Madre Teresa di Calcutta, indicò “l’adozione come una via concreta dell’amore” e invitò al coraggio e alla generosità di questa scelta.
Come sempre dopo la morte del fondatore, la sua opera prosegue con maggiori difficoltà e ostacoli.
Mi auguro che stia a cuore all’Ordine della Madre di Dio che l’opera di Padre Alceste prosegua e che i nostri Pastori sempre più riconoscano il valore dell’adozione.
Paola Boncristiano
Il Triduo di preparazione alla solennità di S. Giovanni Leonardi, celebrato a S. Maria in Portico a Chiaia in Napoli, ha avuto come tematica, quest’anno, una visione delle Costituzioni e Regole OMD sviluppata e spiegata, non da un religioso, bensì da un sacerdote diocesano nella persona di Don Giuseppe Principali, Vicario Diocesano della Diocesi di Frosinone-Veroli-Ferentino e Parroco della Cattedrale di Veroli.
PRIMO GIORNO - Le Costituzioni e Regole di un Ordine Religioso, impegno a vivere con responsabilità il dono ricevuto:
SECONDO GIORNO - Le Costituzioni dell’Ordine della Madre di Dio, dall’appello all’Obbedienza: un capolavoro che rischiara la mente e il cuore come nell’esperienza dei discepoli di Emmaus.
TERZO GIORNO – Le Costituzioni e Regole dell’Ordine della Madre di Dio approvate nel 1988: dal 1584 al Vaticano II: una tradizione mai interrotta nel legittimo progresso.
31 ottobre 2013
Non ci stanchiamo mai di ascoltare le nove beatitudini, anche se le sappiamo bene, anche se certi di non capirle. Esse riaccendono la nostalgia prepotente di un mondo fatto di bontà, di non violenza, di sincerità, di solidarietà. Disegnano un modo tutto diverso di essere uomini, amici del genere umano e al tempo stesso amici di Dio, che amano il cielo e che custodiscono la terra, sedotti dall'eterno eppure innamorati di questo tempo difficile e confuso: sono i santi. La storia si aggrappa ai santi per non ritornare indietro, si aggrappa alle beatitudini. Beati i miti perché erediteranno la terra, soltanto chi ha il cuore in pace garantisce il futuro della terra, e perfino la possibilità stessa di un futuro. Nell'immenso pellegrinaggio verso la vita, i giusti, coloro che più hanno sofferto conducono gli altri, li trascinano in avanti e in alto. Lo vediamo dovunque, nelle nostre famiglie come nella storia profonda del mondo: chi ha il cuore più limpido indica la strada, chi ha molto pianto vede più lontano, chi è più misericordioso aiuta tutti a ricominciare. Dio interviene nella storia, annuncia e porta pace. Ma come interviene? Lo fa attraverso i suoi amici pacificati che diventano pacificatori, attraverso gli uomini delle beatitudini. Il Vangelo ci presenta nelle beatitudini la regola della santità; esse non evocano cose straordinarie, ma vicende di tutti i giorni, una trama di situazioni comuni, fatiche, speranze, lacrime: nostro pane quotidiano. Nel suo elenco ci siamo tutti: i poveri, i piangenti, gli incompresi, quelli dagli occhi puri, che non contano niente agli occhi impuri e avidi del mondo, ma che sono capaci di posare una carezza sul fondo dell'anima, sono capaci di regalarti un'emozione profonda e vera. E c'è perfino la santità delle lacrime, di coloro che molto hanno pianto, che sono il tesoro di Dio. Le beatitudini compongono nove tratti del volto di Cristo e del volto dell'uomo: fra quelle nove parole ce n'è una proclamata e scritta per me, che devo individuare e realizzare, che ha in sé la forza di farmi più uomo, che contiene la mia missione nel mondo e la mia felicità. Su di essa sono chiamato a fare il mio percorso, a partire da me ma non per me, per un mondo che ha bisogno di esempi raccontabili, di storie del bene che contrastino le storie del male, di cuori puri e liberi che si occupino della felicità di qualcuno. E Dio si occuperà della loro: «Beati voi!».
Sabato 18 ottobre scorso, nella cappella del convento di S. Maria in Portico a Chiaia in Napoli, è stato celebrato il Rito di conclusione dell’Anno delle CC.RR. dell’OMD. Durante il Rito è stata ubicata nella stessa cappella, in maniera stabile e definitiva, la reliquia di S. Giovanni Leonardi.
Si tratta di un metatarso del corpo del Santo ora esposto per la venerazione quotidiana durante le preghiere comunitarie dei chierici.
29 ottobre 2013
Gesù, rivolgendosi a chi si sente a posto e disprezza gli altri, denuncia anche a noi i rischi della preghiera: non si può pregare e disprezzare, adorare Dio e umiliare i suoi figli. Ci si allontana dagli altri e da Dio; si torna a casa, come il fariseo, con un peccato in più. Il fariseo inizia con le parole giuste: O Dio, ti ringrazio. Ma tutto ciò che segue è sbagliato: ti ringrazio di non essere come tutti gli altri, ladri, ingiusti, adulteri. Non si confronta con Dio, ma con gli altri, e gli altri sono tutti disonesti e immorali. In fondo è un infelice, sta male al mondo: l'immoralità dilaga, la disonestà trionfa... L'unico che si salva è lui stesso. Onesto e infelice: chi guarda solo a se stesso non si illumina mai. Io digiuno, io pago le decime, io... Il fariseo è affascinato da due lettere magiche, stregate, che non cessa di ripetere: io, io, io. È un Narciso allo specchio, Dio è come se non esistesse, non serve a niente, è solo una muta superficie su cui far rimbalzare la propria auto sufficienza. Il fariseo non ha più nulla da ricevere, nulla da imparare: conosce il bene e il male, e il male sono gli altri. Che è un modo terribilmente sbagliato di pregare, che può renderci «atei». Invece, nel Padre Nostro, modello di ogni preghiera, mai si dice «io» o «mio», ma sempre «tuo» o «nostro». Il tuo regno, il nostro pane. Il fariseo ha dimenticato la parola più importante del mondo: tu. Vita e preghiera percorrono la stessa strada: la ricerca mai arresa di un tu, uomo o Dio, in cui riconoscersi, amati e amabili, capaci di incontro vero, quello che fa fiorire il nostro essere. Il pubblicano non osava neppure alzare gli occhi, si batteva il petto e diceva: Abbi pietà di me peccatore. Due parole cambiano tutto nella sua preghiera e la fanno vera. La prima parola è tu: Tu abbi pietà. Mentre il fariseo costruisce la sua religione attorno a quello che lui fa', il pubblicano la edifica attorno a quello che Dio fa. La seconda parola è: peccatore, io peccatore. In essa è riassunto un intero discorso: «sono un ladro, è vero, ma così non sto bene; non sono onesto, lo so, ma così non sono contento; vorrei tanto essere diverso, non ci riesco; e allora tu perdona e aiuta». Il pubblicano tornò a casa sua giustificato, non perché più umile del fariseo (Dio non si merita, neppure con l'umiltà), ma perché si apre - come una porta che si socchiude al sole, come una vela che si inarca al vento - a un Dio più grande del suo peccato, vento che fa ripartire. Si apre alla misericordia, a questa straordinaria debolezza di Dio che è la sua unica onnipotenza.
Nella sua visita alla comunità di Lucca e Fosciandora Il Padre Generale ha consegnato ai Quattro Padri che le compongano le costituzioni del nostro Ordine nella loro nuova edizione tipografica. La cerimonia di consegna è avvenuta nella piccola cappella della Casa Madre di Lucca. E crediamo che non ci fosse luogo più significativo e adeguato per concludere “L’Anno delle Costituzioni” e il 75° Anniversario della Canonizzazione del Santo Fondatore. Nella sua breve allocuzione Il Padre Generale ci ha invitato a leggerle, a ascoltarle (CD) ma soprattutto a farle penetrare nel nostro cuore e nella nostra mente. 25 ottobre 2013